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16 settembre 2019

 

Dietro le bombe: Ciao ciao Aramco, con l’attacco ai pozzi petroliferi l’Iran ha distrutto l’affare del secolo ai Sauditi

di Fulvio Scaglione

 

Dopo i bombardamenti sulle installazioni petrolifere di Buqyak, è in pericolo l’operazione miliardaria di privatizzazione del 5% dell’azienda petrolifera di Stato, che potrebbe risollevare l’economia del regno

 

Al di là del baccano politico e mediatico, una cosa è certa: sull’attacco dei droni, che sono partiti dallo Yemen per colpire le installazioni petrolifere saudite di Buqyak (il più importante impianto al mondo per il trattamento del greggio, capace di lavorare 7 milioni di barili al giorno) e di Khurais (un campo petrolifero che produce un milione di barili al giorno), c’è la firma dell’Iran. E non perché lo dice il segretario di Stato Usa Mike Pompeo (buono, lui, che fa il moralista in giro mentre i suoi specialisti, nello Yemen, aiutano i sauditi a bombardare le scuole) o perché i ribelli yemeniti Houthi ormai usano bene i droni, ma perché la cosa è troppo ben studiata, troppo illuminata dal punto di vista politico e strategico, per venire da un campo nel deserto. Non è solo una stilettata al cuore del potere saudita, ma un attentato al suo futuro.

 

Petrolio in Arabia Saudita si dice Aramco, il nome dell’azienda petrolifera di Stato che ha fatto le fortune dei Saud. L’impianto di Buqyak e il campo di Khurais sono controllati da Aramco, che nel 2018, a dispetto di un andamento del prezzo del petrolio non certo esaltante, è stata l’azienda più redditizia del mondo, con 111,1 miliardi di dollari di utile. Nell’aprile di quest’anno, la società per la prima volta ha emesso obbligazioni sui mercati internazionali. L’offerta era per 10 miliardi di dollari, sono arrivati ordini per 100 miliardi. Il più clamoroso successo finanziario nella storia dei Paesi emergenti.

Il che già ci dice qualcosa sulla forza del colpo portato dai droni yemeniti. Ma questo è ciò che si vede, il meno. La parte più interessante è quella un pò nascosta. L’emissione delle obbligazioni è stata un’idea di Mohammed bin Salman, il trentaquattrenne principe che assomma tutte le cariche più importanti del regno e di fatto governa al posto del padre Salman, ormai esautorato. È gente un po' nervosetta, il principe e i suoi parenti. Lui è quello che ha fatto sequestrare, uccidere, smembrare e dissolvere il giornalista saudita Jamal Kashoggi. Sua sorella Hassa bint Salman, forse ispirata da tanto esempio, a Parigi ha fatto sequestrare e pestare un idraulico, poi anche costretto a baciarle i piedi.

Mohammed, in particolare, non dorme la notte perché deve far quadrare i conti. Il crollo del prezzo del greggio (il petrolio è fonte dell’80% del bilancio statale e del 90% degli introiti da esportazione) ha messo a rischio l’intera economia saudita, che di per sé è già vicina all’incubo. Con cento miliardi l’anno di deficit statale, disoccupazione intorno al 12% (40% tra i giovani, le donne non parliamone neppure), tariffe al consumo ridicole per carburanti, energia elettrica e acqua, lavoratori stranieri che costituiscono il 50% della popolazione occupata.

 

Il principe ha introdotto qualche timida tassa, ridotto qualche sovvenzione. Robetta. E infatti nel 2016 ha presentato Vision 2030, un ambiziosissimo piano per ristrutturare l’economia saudita e affrancarla dall’eccessiva dipendenza dal petrolio. Facile a dirsi, difficile a farsi. E soprattutto costoso. Infatti da allora il principe è alla costante caccia di denaro. All’inizio del 2018 ha lanciato una purga di stampo staliniano mettendo agli arresti più di cento persone, guarda combinazione ricchissime: 11 principi, quattro ministri, decine di ex ministri e così via. Tutti corrotti, diceva lui. Sta di fatto che, per tornare in libertà, questi hanno dovuto “donare” le proprie fortune allo Stato, cioè al principe, che ha così raggranellato molte centinaia di miliardi. E se poi questi personaggi, per combinazione, erano anche quelli più scettici sulla sensatezza di Vision 2030, be’, pazienza.

L’emissione dei bond di Aramco aveva lo stesso scopo: raccogliere soldi. E, soprattutto, testare il fascino della società presso gli investitori internazionali. Il successo c’è stato, niente da dire. Confortato, Mohammed è passato all’azione. Un paio di settimane fa ha liquidato Khalid al-Falih, ministro dell’Energia, e ha passato il ministero e la presidenza di Aramco a Yasir al-Rumayyan, un fedelissimo che era già presidente del Fondo sovrano nazionale.

 

Tutto questo in vista di un obiettivo ben preciso: la privatizzazione del 5% di Aramco, in quello che può fin d’ora essere definito l’affare del secolo. La privatizzazione, a sua volta, serve a pompare denaro fresco che, oltre a finanziare qualche guerra e a pagare i servigi di un pò di terroristi, andrebbe appunto a portare la disponibilità del Fondo sovrano all’astronomica cifra di 2 mila miliardi di dollari. Con cui il principe Mohammed potrebbe ristrutturare l’economia del regno e andare all’assalto dei mercati.

Sono anni che il principe rimugina questo piano. Adesso ci siamo, perché il tutto dovrebbe avvenire l’anno prossimo. Aramco ha già scelto Jp Morgan come leading advisor nel processo di privatizzazione, e intanto medita sulla piazza da privilegiare. La Borsa di Londra? No, c’è la Brexit. Quella di Hong Kong? No, ci sono le proteste. New York non va bene perché là c’è gente che aspetta i sauditi al varco, tra 11 settembre e stragismi assortiti. Francoforte? Chissà.

 

La privatizzazione, inoltre, ha uno scopo politico da non sottovalutare. Come ben sappiamo, non c’è Paese o investitore che non voglia tuffarsi nelle immense riserve di denaro delle petromonarchie del Golfo Persico. In più, i sauditi da soli non sanno fare nulla: ingaggiano e comprano. Per dire: il campo petrolifero di Khurais, appena bombardato, che oggi vanta riserve accertate per 27 milioni di barili, era strato più volte abbandonato e ripreso. E’ tornato definitivamente in servizio nel 2009 grazie a importanti interventi tecnici (in sostanza, delle robuste iniezioni d’acqua) realizzati da Halliburton (Usa), Saipem (Italia), Lavalin (canada) e Foster Wheeler (Usa). Si potrebbero fare mille altri esempi ma la sostanza è sotto gli occhi di tutti: con le commesse, gli affari, il denaro l’Arabia Saudita compra anche amicizie e complicità politiche.

 

Ecco. I droni yemeniti, diciamo pure iraniani, hanno bombardato tutto questo. Già il ministro Al-Falih, poveretto, era stato una vittima del progetto di privatizzazione. Lui era un buon politico, aveva convinto gli altri Paesi dell’Opec e la Russia a tagliare la produzione di petrolio nella speranza di far salire il prezzo. Ma con i depositi americani stracolmi il prezzo, da molti mesi, non va oltre i 60 dollari a barile, mentre per non rimetterci l’Arabia Saudita ha bisogno di almeno 80 dollari a barile.

In altre parole: se vuoi vendere a un prezzo alto le azioni di un’azienda, occorre che anche il bene trattato da quell’azienda abbia un prezzo alto e si venda bene. Con il greggio che costa quanto l’acqua minerale, le azioni dell’imminente privatizzazione rischiano di perdere valore. Figuriamoci allora che cosa può succedere se l’azienda da privatizzare, diciamo pure Aramco, dovesse essere regolarmente bombardata e fosse costretta, com’è successo in questi giorni dopo l’attacco, a dimezzare la produzione. 

Senza quei soldi niente Vision 2030. E forse niente principe Mohammed, perché il ragazzo di nemici se n’è fatti molti, anche nella sterminata corte dei Saud. E da quelle parti non sono teneri con chi svuota le casse di famiglia.

 

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