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13 aprile 2019

 

De jure e de facto. La reclusione etnica in Italia

di Gaetano De Monte

 

Così si priva la libertà dei migranti. Le cifre fredde di una illecita detenzione, tra Cpr, Cie, Hotspot, viaggio all’interno della reclusione etnica

 

«Cosa accomuna un hotspot, il ponte di una nave e una comunità di prima accoglienza per minori?». A chiederselo sono le centinaia di pagine del libretto Norme e Normalità. Standard per la privazione della libertà delle persone migranti, il quale contiene tutte le raccomandazioni che l’ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha inviato ai governi italiani negli anni che vanno dal 2016 al 2018. Presentate giovedì scorso nella sala Igea dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana, «le Raccomandazioni, così come gli Standard sono uno strumento potente perché incidono non solo sul dover fare, ma sull’essere, sulla cultura che è alla base delle scelte e delle azioni», scrive Daniela De Robert nell’introduzione al volume. «Oggi lo mettiamo in circolazione affinché possa diventare patrimonio comune di una cultura dei diritti – continua De Robert – la detenzione amministrativa per le persone migranti è una realtà del nostro Paese, mentre non esiste un ordinamento che ne regoli le tutele, né una magistratura chiamata a tutelare su ciò che accade nei luoghi», di reclusione, a tutti gli effetti. Perché la storia recente degli ultimi due anni ci parla appunto, in molti casi, di permanenze prolungate negli hotspot, di detenzione vera e propria nei Centri per il rimpatrio (CPR) e, in alcuni altri, di attese improprie sulle navi senza poter scendere. 

 

A COSA SERVE DAVVERO LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA DEI MIGRANTI 

La detenzione amministrativa delle persone migranti, in altri termini, la privazione della libertà personale quale conseguenza della mera presenza irregolare sul territorio dello Stato, pone, «sotto il profilo dei diritti fondamentali della persona umana, due questioni diverse». Secondo il professore di diritto internazionale Antonio Marchesi, la prima è la questione della legittimità stessa di tale detenzione, la seconda è quella relativa alle sue modalità. Perché, dice Marchesi che è anche il presidente italiano di Amnesty International, «le regole della detenzione amministrativa, applicandosi a un’ipotesi di privazione della libertà diversa da quella di chi è condannato per o accusato di un reato, non devono riprodurre regole analoghe applicabili nel contesto penale». In altri termini: «si deve invece tener conto delle finalità non punitive della detenzione amministrativa di persone migranti».

 

PIANETA HOTSPOT, DETENZIONE DE FACTO 

Tutto il contrario, invece, è avvenuto negli ultimi due anni. Sono le cifre fredde e ufficiali di una reclusione illegittima a dirlo. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, sono entrati nel corso del 2018, in tutti e cinque gli hotspot attivi in Italia – Lampedusa, Pozzallo, Taranto, Trapani e Messina – 2002 minori stranieri non accompagnati e 698 accompagnati. Non soltanto. La permanenza media, in giorni, per un minore nell’hotspot di Lampedusa è stata calcolata in 4/5 giorni, più o meno la stessa media di trattenimento registrata per i minori “ospiti” dell’hotspot di Trapani, che poi è stato chiuso nel settembre del 2018. Ed è proprio il passaggio dei minori dagli hotspot, si legge nella relazione di quasi quattrocento pagine che l’ufficio del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha presentato lo scorso 27 marzo al Parlamento, «che pone due elementi di criticità strettamente correlati all’accertamento dell’età, il quale in linea generale, è stato eseguito con il tradizionale metodo dell’indagine radiografica, insieme alla prassi sistematica dell’annotazione della data di nascita al 1° gennaio nei casi in cui non ne sia determinabile esattamente il mese e il giorno». Con il rischio evidente – aggiungiamo noi – di classificare come adulto un minore che compia i diciotto anni soltanto nel corso dell’anno, attenuando in tal modo la garanzia assoluta sui minori prevista dall’ordinamento. Si è scritto più volte su questo sito delle violazioni riscontrate all’interno del “pianeta hotspot”. Un rischio che, sempre stando ai dati forniti dal Dipartimento libertà civili e immigrazione, ha riguardato negli anni 2016-2017-2018 rispettivamente 65.295 richiedenti asilo, poco più di 40.000 persone nel secondo anno e poco più di 13mila stranieri presenti alle frontiere italiane nel 2018. Persone dalle nazionalità più disparate, come d’altronde è accaduto per i Centri per i rimpatri (Cpr) istituiti con la riforma Minniti del 2017, diventati con il tempo un vero e proprio esperimento di reclusione etnica. 

 

I CENTRI PER I RIMPATRI: LA RECLUSIONE PER NAZIONALITÀ 

Alla fine dello scorso anno la rete Lasciateci entrare aveva segnalato le violenze avvenute nella notte tra il 13 e il 14 dicembre all’interno del centro per rimpatri di Bari (Cpr) «dove le persone versano in condizioni disumane, in cui sovente avvengono pestaggi e repressioni da parte degli ufficiali di polizia» e all’interno del quale «la scorsa notte circa 20 poliziotti hanno aggredito un detenuto, colpendolo ripetutamente con violenza alla testa con i manganelli». Sulla stessa lunghezza d’onda era seguita la denuncia degli avvocati della sezione pugliese dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), i quali avevano lamentato «l’illegittimità dei Cpr, strutture di detenzione amministrativa riservate esclusivamente alle persone straniere che, pur non avendo commesso alcun reato, vi si trovano detenute perché prive di permesso di soggiorno». Sempre da Asgi avevano spiegato: «è significativo che le proteste siano esplose a pochi giorni dalla conversione in legge del dl. n.113/2018 che, tra l’altro, ha prolungato il trattenimento in condizioni ordinarie all’interno di queste strutture sino a 6 mesi». 

Anche stavolta sono i numeri forniti dalle stesse fonti ufficiali a spiegare il carattere punitivo alla base della detenzione amministrativa valida solo per gli stranieri – in questo caso sono le cifre della polizia delle frontiere alle dipendenze del Ministero degli Interni. In tal modo: delle poco più di 4mila persone transitate nei Centri nel corso del 2018, soltanto il 43% è stato effettivamente rimpatriato, mentre la durata massima del trattenimento oscillava tra i trenta giorni e i diciotto mesi. Dunque, una prova della mancata correlazione tra durata della privazione della libertà ed effettività della sua finalità. Ma non l’unica evidenza. Perché, infatti, la motivazione più frequente di uscita dai centri è stata per quasi un migliaio di donne e uomini stranieri, proprio la mancata convalida del trattenimento da parte dell’autorità giudiziaria. 

In tutti casi il rischio ulteriore per il futuro è quello rilevato dall’autorità del Garante dei detenuti, cioè che dopo il decreto Salvini ogni luogo in Italia possa diventare un carcere per richiedenti asilo. E il riferimento qui è alla nuova previsione governativa, che prevede appunto «la temporanea permanenza dello straniero in strutture diverse e idonee, nella disponibilità dell’Autorità di pubblica sicurezza, fino a 48 ore». Ma non soltanto. La legge n. 132 del 2018 consente al giudice di «autorizzare la permanenza in locali idonei presso l’ufficio di frontiera, sino all’esecuzione dell’effettivo allontanamento e comunque non oltre le quarantotto ore successive all’udienza di convalida». 

Di più. Mauro Palma aveva riferito inoltre che «si sta introducendo un nuovo modello di trattenimento che rischia di violare le garanzie di tutela della libertà personale, perché non vi sono contenute in primo luogo garanzie sui contatti delle persone con gli enti di tutela, i familiari, i legali». È un modello che viene da lontano ed è già usato nelle operazioni straordinarie di Frontex, aveva aggiunto il Garante, mostrando alcune fotografie scattate diversi anni prima in alcuni “locali idonei” dove erano trattenuti i richiedenti asilo siriani arrivati in Grecia. Quelle immagini ritraevano le persone detenute quasi accatastate l’un l’altra, in una sola stanza, con un solo bagno. È davvero questo il modello verso cui stiamo andando, quello dello stato di emergenza in base al quale ogni luogo di frontiera potrà diventare un carcere per stranieri? Luoghi di privazione della libertà per gli stranieri, dunque, de iure e de facto.

 

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