Editoriale di DINAMOpress

9 luglio 2019

 

A chi dice che le navi umanitarie fanno il gioco di Salvini

 

La battaglia navale in corso nel Mediterraneo sta polarizzando inesorabilmente la società italiana. Neanche in questo caso, però, è tutto nero o bianco. Oltre agli attacchi sfacciatamente razzisti, alle navi delle Ong e della società civile capita di ricevere anche critiche «da sinistra». Quella più diffusa sostiene che, focalizzando lo scontro sul tema immigrazione sì-immigrazione no, le navi farebbero il gioco di Matteo Salvini e di un governo che sulle questioni economico-sociali sta segnando ben poche discontinuità rispetto agli esecutivi precedenti e non tutte positive per gli elettori che lo hanno sostenuto: dal taglio di 4 miliardi al comparto della scuola ai 2 miliardi di mancato rifinanziamento del sistema sanitario nazionale; dagli effetti inferiori alle attese della tanto celebrata “quota 100” alle conseguenze deleterie per le regioni meridionali del cosiddetto regionalismo differenziato, già ribattezzato “secessione dei ricchi”.

Mentre queste misure dividerebbero l’Italia tra ricchi e poveri e tra nord e sud, il contrasto all’immigrazione riuscirebbe a ricomporre quel sentimento di unità nazionale tra sfruttatori e sfruttati su cui i governi populisti stanno costruendo consenso e potere in tutta Europa. Anche perché rispetto all’altra grande sfida «sovranista» della Lega, «spezzare le reni all’Unione Europea», dopo i grandi proclami e i no roboanti arrivano puntuali i piccoli compromessi e gli assensi silenziosi.

In quest’ottica quindi, anche involontariamente, la guerra contro le Ong sarebbe per il governo un’utile arma di distrazione di massa e un terreno su cui l’esecutivo a trazione leghista ha gioco facile ad alimentare paure e, di converso, richieste di maggiore autoritarismo. Questa dinamica contribuirebbe anche, ma qui la critica diventa più nebulosa, a togliere visibilità, marginalizzare, fiaccare altri tipi di potenziali conflitti più classicamente incentrati intorno ai temi redistributivi (su salario, entrate fiscali, servizi, etc.).

Una simile narrazione del conflitto politico in corso, però, non tiene in conto alcuni fondamentali elementi.

 

DALLA GUERRA ALLE ONG ALLA GUERRA ALLA SOCIETÀ

Lo scontro in atto nel Mediterraneo riguarda l’architettura stessa delle nostre società. Sotto differenti aspetti. Inaugurata nel 2017 da Di Maio con la favola dei “taxi del mare”, legittimata dall’allora Ministro degli Interni Minniti con il famigerato “codice di condotta” e radicalizzata ora da Salvini, la guerra contro le navi della società civile che salvano le vite in mare può essere presa come il punto di avvio della svolta reazionaria della politica italiana e di una parte dell’opinione pubblica. Qualcosa di sicuramente più complesso di una semplice distrazione mediatica. Per quella guerra passano contenuti politici e forme culturali piuttosto rilevanti.

Ad esempio, attraverso la guerra contro l’umanitario si esercita ciò che l’antropologa femminista Rita Segato chiama “pedagogia della crudeltà”, ovvero il tentativo sistematico da parte del potere di «distruggere e annullare la compassione, l’empatia, i legami e i vincoli locali e comunitari». In questo non c’è proprio nulla di sovrastrutturale, quello che è in gioco è la possibilità da parte dello Stato di agire in modo illimitato la violenza e di disporre la società a una guerra civile endemica, che parte dal Mediterraneo per arrivare alla licenza di uccidere nei cortili dei piccoli proprietari privati fino a raggiungere il diritto alla contestazione.

Il Decreto Sicurezza bis tiene assieme entrambi gli aspetti unendo la stretta contro i salvataggi in mare alla limitazione del diritto di manifestare. Se passa il principio per cui la sovranità statale o la volontà del governo non hanno limiti, e dunque possono incidere sui diritti indisponibili fino a negare quello alla vita, gli «immigrati irregolari» di domani non arriveranno sulle navi delle Ong, ma saranno i lavoratori in sciopero, i giovani che chiedono giustizia ambientale o le donne che si battono contro la violenza maschile.

Inoltre, alle politiche di espulsione drammatizzate dai “porti chiusi” e di “esternalizzazione delle frontiere” corrispondono politiche di “internalizzazione dei confini”: il welfare e il mercato del lavoro saranno sempre più ristrutturati attraverso logiche di segregazione giuridica (cittadini/non-cittadini), sociale (ricchi/poveri) e territoriale (nord/sud). Questi campi non sono né distinti né tantomeno contrapposti, e questo è il motivo per cui nel Mediterraneo non si sta giocando affatto una battaglia “solamente simbolica” e distante dalla “critica dell’economia politica”.

 

POLITICIZZAZIONE DELL’UMANITARIO

Il refrain di questi giorni di una parte della rete è che gli atti di disobbedienza praticati dalle navi della società civile porterebbero solo acqua al mulino di Salvini. Questa critica non considera però altri elementi tutt’altro che marginali.

Il primo è che al rafforzamento dei consensi per il ministro degli Interni corrisponde, specularmente, una radicalizzazione delle forme di opposizione al governo. Gli atti di Carola Rackete e degli altri comandanti delle navi, la violazione esplicita e rivendicata dei decreti sicurezza in nome della difesa di diritti superiori stanno incontrando un favore crescente in una parte sempre più grande della popolazione, la quale ora si trova a esprimere consenso nei confronti di gesti di disobbedienza esplicita.

Forse nell’immediato questa dinamica non produce un’erosione del consenso elettorale della Lega, ma la costruzione di una soggettività antagonista al governo, soprattutto in una fase politica che assume i tratti dell’onda lunga di un ciclo reazionario globale, ha bisogno di essere alimentata anche sul lungo e medio periodo attraverso battaglie esemplari che intorno ad alcuni punti non facciano passi indietro. Nemmeno quando la sensazione generale può essere quella dell’accerchiamento.

In secondo luogo, bisognerebbe rovesciare il ragionamento e chiederci: «e se non ci fossero stati questi atti? Se cioè quelle navi non avessero scelto di tornare in mare, oppure una volta in mare, avessero deciso di obbedire ai comandi delle autorità per non entrare in quel gioco mediatico?». La risposta è semplice: il processo di repressione e normalizzazione politica voluto da Salvini nel Mediterraneo centrale si sarebbe chiuso senza alcun intralcio. La sua vittoria politica sarebbe stata completa. Oggi invece, mentre nell’immediato raccoglie like e consensi, è costretto a incassare la sconfitta e dichiararsi “isolato” e “abbandonato” dai suoi partner di governo. La verità è che la politicizzazione dell’umanitario è divenuta oramai una condizione per la politicizzazione della società.

Tutto ciò, senza considerare che in questi anni le Ong hanno salvato decine di migliaia di vite lungo la rotta migratoria più letale al mondo, il Mediterraneo centrale. Questo è accaduto perché gli stati europei, tutti, si sono sottratti ai loro obblighi di soccorso. Al contrario, hanno finanziato le milizie che si contendono un paese, la Libia, identificato trasversalmente come l’unico tappo possibile agli effetti di ritorno del saccheggio capitalista e delle guerre democratiche che l’occidente ha scatenato tra Africa e Medio Oriente.

Se le navi delle Ong non fossero state lì dove bisognava e bisogna stare quelle persone sarebbero state riportate nei campi di concentramento libici a subire violenze, stupri, torture e omicidi oppure sarebbero finite in mare, morte annegate, trasportate ormai senza vita dalle correnti.

Ognuna delle persone salvate vale più di tutti i calcoli intorno al piccolo governo italiano e ai numeri dei sondaggi che stranamente calamitano l’attenzione degli ultra-radicali. La battaglia navale è un gioco, ma solo per chi la guarda da un porto sicuro.

 

top