Foto di Ron Haviv

I giubbotti salvagente usati dai profughi durante la traversata in mare, e abbandonati a riva, sull'isola di Lesbo


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Grecia, il 17 dicembre 2018

 

LESBOS

di Francesca Borri

 

Dei paesi da cui arrivano, di come si sta, come si vive, ti dicono tutti la stessa cosa. Ti dicono solo: Problem. Very problem.

 

E però il problema è anche che sono paesi come l'Afghanistan, il Pakistan. Il Congo. E non importa quanta sia la violenza, quanta sia la povertà: i siriani hanno la priorità. Per tutti gli altri, è molto difficile avere asilo. Non sono profughi: sono migranti. E quindi finiscono per incagliarsi qui. In quest'isola di boschi e spiagge di ciottoli che è Grecia, è Europa, i trafficanti non hanno mentito: ma è così vicina alla Turchia che il telefono è sempre in roaming. E comunque, questa è Europa solo geograficamente. E non solo perché il campo di Moria è fisicamente reciso dal resto di Lesbos, cintato da alte cancellate e filo spinato, ma perché a guardarlo, con il suo reticolo di tende piantate nel fango, un fango punteggiato di stracci e spazzatura, ti ricorda altro - l'hai già visto, sì, un luogo così: l'hai già visto in Siria, in Yemen. Nelle mille guerre in cui sei stato.

Moria è uguale.

Ha spazio per 3mila profughi, ma al momento, i profughi qui sono oltre 8mila. Accampati anche fuori dal campo vero e proprio. Tra gli alberi di olivo. E quella spazzatura, in realtà, non è spazzatura: è legna da ardere. All'alba, sono già tutti svegli, in fila nella foschia per un po' di cibo. E li riconosci subito, uno a uno, perché sono identici al giorno prima, hanno la stessa felpa rossa, la stessa camicia: hanno dormito così. Vestiti.

Ma poi, in uno spiazzo, un televisore è sintonizzato sul telegiornale del mattino.

Come in una casa qualsiasi.

Perché nonostante tutto, Moria non è lasciata a se stessa. L'Unione Europea paga alla Grecia circa 7mila euro a rifugiato l'anno, e via via, l'area è stata attrezzata con tende impermeabili, letti in ferro. Piccole stufe elettriche. C'è persino un cinema con le panche di pietra, lo schermo che è un rettangolo di vernice bianca sul muro, e una volontaria olandese che balla la Macarena su un furgoncino: oggi distribuiscono giacche e coperte. Poco lontano Reza, un iraniano con l'aria da attore francese, si tiene in esercizio con il suo nuovo bilanciere: un manico di scopa a cui ha legato delle cassette di bottiglie d'acqua. Gli altri, in fila davanti al furgoncino, sono tutti su Facebook, tutti concentrati sul proprio telefonino: perché a Moria c'è anche il wi-fi. Ma poi domandi la più banale delle domande: Com'è un giorno tipico, qui? Cosa si fa?, e ti guardano senza capire.

Perché non manca niente, qui, tranne una cosa: la vita.

Aspettano. Aspettano, e nient'altro.

Ma è la nuova normalità dell'Europa, e ormai, neppure si nota più. Vista dall'alto, la macchia delle tende di Moria è come quella dei tetti del centro abitato più vicino. Solo, è bianca invece che rossa. Gli sbarchi continuano, e più a nord, la discarica dei giubbotti salvagente, icona di quest'esodo, continua a espandersi: ma segue il curvarsi del paesaggio, senza strappi, collina tra le colline - solo, è arancione invece che verde.

Sembra un'installazione di arte contemporanea.

A Moria, intanto, dei ragazzi giocano a pallone con una pietra. Sono qui da sette mesi. E sono andati via dall'Afghanistan tre anni fa. Conoscono solo due parole di inglese. Una è "problem". L'altra è: Germany.

 

Questo testo è stato scritto per il fotografo Sergey Ponomarev, per il suo libro Exodus, un’antologia degli scatti sui rifugiati con cui nel 2016 ha vinto il premio Pulitzer.

 

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