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1 Giugno 2019

 

Guerra alla guerra

di Carmine Tomeo

 

Il capitalismo globale ha bisogno di infrastrutture spaziali. Lo hanno capito bene i lavoratori portuali italiani e francesi che bloccano le navi cariche di armi

 

Uno striscione dei portuali di Genova che si opponevano al trasporto di armamenti da parte del cargo saudita Bahri Yanbu, che arrivati a destinazione sarebbero stati usati in quella catastrofe umanitaria che è la guerra nello Yemen portava la scritta: «Guerra alla guerra». Si tratta di un segno di consapevolezza dell’azione che si sta compiendo, di resistenza alle sirene della guerra al terrorismo, dell’umanitarismo con cui si giustificano interventi militari, bombardamenti, stragi e violazione dei più elementari diritti umani.

Spariscono i guerrafondai nel linguaggio comune perché è sparita la guerra con il suo orrore dall’immaginario collettivo, sepolto sotto una coltre di ipocrisia che nasconde i programmi dei paesi e dei partiti così «democratici» da esportare democrazia affondando le proprie basi sulla polvere da sparo. 

 

«La mentalità democratica ha stabilito la casistica tra guerra e guerra, tra difesa e offesa, tra guerra democratica e guerra imperialistica: non è arrivata a comprendere la guerra come funzione di Stato, dell’organizzazione economico-politica del capitalismo», faceva notare Gramsci un secolo fa, mostrando come si cerchi in maniera ossessiva «di far dimenticare le parole, sperando di far dimenticare le cose». Ma i camalli di Le Havreprima, quelli di Genova poi, fino a Marsiglia hanno dimostrato di non lasciarsi incantare dalle sirene guerrafondaie.

 

La mobilitazione che ha coinvolto anche il porto di Genova ha pertanto un carattere internazionale. È partita come detto nelle scorse settimane dal porto francese di Le Havre. Qui, il 9 maggio scorso, la nave saudita Bahri Yanbu avrebbe dovuto, secondo il giornale investigativo Declose, caricare armi che l’Arabia Saudita avrebbe usato contro i civili nella guerra in Yemen. Già nelle settimane precedenti lo stesso giornale aveva documentato l’uso di armi francesi da parte di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti nella guerra in Yemen. Per tale motivo due giornalisti di Dicloseerano stati convocati dalla Direzione generale di sicurezza interna francese come parte di un’indagine preliminare per compromissione del segreto di Stato che avrebbe potuto mettere in pericolo la sicurezza nazionale. Una convocazione che suona come un messaggio intimidatorio, verso quelli che sarebbero colpevoli, evidentemente, di aver decodificato il canto delle sirene francesi. La lotta al terrorismo, ad esempio, è la giustificazione che ha usato il governo transalpino per spiegare, dopo le rivelazioni di stampa, la partnership strategica con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che include esportazioni di materiale militare. Sta di fatto che la nave saudita a Le Havre non ha potuto attraccare.

 

Le stesse ragioni hanno portato i camalli di Genova a respingere l’approdo del cargo nel porto ligure, dove la nave era arrivata il 20 maggio. Qui, il mercantile battente bandiera saudita è stato accolto dai lavoratori in sciopero aderenti al Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) in primo luogo e alla Filt-Cgil, oltre ad associazioni e gruppi antimilitaristi. Il presidio, a Genova come poi anche a Marsiglia, ha impedito il carico di strumenti militari e di morte: «Noi portuali  saremo sempre ostili a ogni tipo di conflitto e di certo non faremo da tramite per i vostri affari gestiti da personaggi che fanno della sofferenza altrui un profitto costante e proficuo». Così si legge in una nota del Calp, che ha dimostrato, nei giorni immediatamente precedenti alle elezioni europee, quanto la maturità delle lotte possa sopravanzare la ben più misera discussione politicista sulle disastrose alleanze elettorali.

 

Si legge, infatti, nelle lotte dei portuali, la consapevolezza di avere di fronte un capitalismo di guerra, un capitalismo di esproprio come lo definisce David Harvey, che produce ricchezza anche attraverso una sorta di continua «accumulazione primitiva», mediante l’assoggettamento di interi popoli, il loro sfruttamento, il saccheggio delle risorse, l’esproprio forzato di territorio. E attraverso la guerra, come quella che almeno dal 2015 (ma bombe sono state sganciate anche negli anni precedenti) sta martoriando la popolazione yemenita. 

 

Rinchiusi in una cortina capitalista sempre più estesa, come nel romanzo Rulli di tamburo per Rancas: «Il recinto continuò ad avanzare. Dopo essersi inghiottito quarantadue colli, nove lagune e diciannove corsi d’acqua, il Recinto dell’Est serpeggiava alla volta del Recinto dell’Ovest. La pampa non era infinita; il Recinto sì». In un modo che la «la scoperta dell’oro e dell’argento in America, lo sradicamento, la riduzione in schiavitù e la tumulazione nelle miniere della popolazione indigena di quel continente, gli inizi della conquista e il saccheggio dell’India, e la conversione dell’Africa in una riserva per la caccia commerciale dei pellenera» potrebbe apparire una descrizione del mondo di oggi almeno quanto lo fu dell’accumulazione primitiva descritta da Marx.

Oltre alla mobilitazione, abbiamo osservato l’immediato (e anche scomposto) intervento istituzionale sulla vicenda, che dovrebbe indurre ad analizzare il ruolo strategico della logistica nell’attuale catena del valore capitalista. A Le Havre, a Genova, a Marsiglia è stata aperta una maglia della catena del valore necessaria alla realizzazione del profitto, che in questo caso (ma non è il solo) è fatto in maniera brutale e cinica attraverso la guerra. 

La guerra non sarà fermata solo dallo sciopero e dalla solidarietà dei portuali italiani e francesi, ma con la loro mobilitazione hanno mostrato il significato dell’internazionalismo fuori da qualsiasi schema acritico o banalmente europeista. D’altronde la follia distruttrice della guerra, quando non è nascosta dall’ipocrisia dei loro signori e teorici, è vista come «distruzione creativa» che ridisegna confini, economie e rapporti di potere. Ma un’interruzione nel settore della logistica, specie nei suoi settori più nevralgici (qual è il trasporto marittimo), può dare un colpo destabilizzante con una dimensione ben più ampia del luogo fisico in cui avviene. Quello logistico è infatti un settore strategico, con un fatturato di centinaia di miliardi di euro all’anno pari al 13% del Pil, che assume un’importanza tanto più grande quanto più la produzione è flessibile e quanto più viene spinta la velocità di rotazione del capitale, necessaria alla sua valorizzazione. Ecco perché mobilitazioni come quelle di Le Havre, Genova, Marsiglia, possono (e dovrebbero) essere uno stimolo alla riflessione e alla mobilitazione verso la ricomposizione di classe nell’odierna organizzazione della produzione.

 

Occorre tener conto, inoltre, che anche se l’organizzazione della produzione è giunta a un grado elevatissimo di frammentazione, dopo decenni di esternalizzazioni e delocalizzazioni di intere fasi produttive; nonostante l’uso di tecnologie avanzate che velocizzano le operazioni, solo apparentemente viene meno la necessità di luoghi fisici della produzione che invece rimane saldamente materiale. David Harvey, nel suo saggio La geopolitica del capitalismo, fa notare come «qualunque mobilità geografica del capitale ha bisogno di infrastrutture spaziali stabili e sicure». Nel caso delle merci, compresi gli strumenti di guerra come quelli che avrebbe dovuto trasportare il cargo diretto in Arabia Saudita, il capitale necessita di un «efficiente e stabile sistema di trasporti, il quale deve essere sorretto da un intero complesso di infrastrutture fisiche e sociali per facilitare e assicurare lo scambio». È questo sistema che è venuto meno nel corso delle mobilitazioni dei portuali italiani e francesi. Il paradosso descritto dal geografo britannico per cui «una parte del capitale e della forza-lavoro deve essere immobilizzata» e deve mantenersi sempre stabile ed efficiente per «permettere alla restante parte di circolare liberamente» e sempre più velocemente per potersi necessariamente valorizzare per non svalutarsi.

 

La mobilitazione delle scorse settimane dei portuali contro il profitto dei guerrafondai può indicare, insomma, le crepe dove inserire la lotta per il superamento di un sistema che deve accumulare per sopravvivere a sè stesso e non si fa scrupoli nemmeno di fronte a una catastrofe umanitaria come quella che da anni colpisce lo Yemen.

 


Carmine Tomeo si occupa di sicurezza sul lavoro. Si interessa ed ha scritto di lotte per il lavoro, precarietà, sfruttamento. 

 

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