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ottobre 31, 2019

 

Dopo l’azione la minaccia della prigione, dietro l’azione donne e uomini

 

La macchina corre veloce nella notte buia della Palestina, Jordan Valley, area C. La musica gira. Nessuna delle quattro persone a bordo parla ma i pensieri di ciascuno sono assordanti, per ciascuno e per gli altri. La quinta persona, alla guida dell’auto, sta vivendo quella che potrebbe essere l’ultima notte di libertà prima della prigione. La chiameremo Jonie.

È il secondo giorno dopo l’azione che i palestinesi e gli internazionali hanno intrapreso il 26 ottobre a chiusura della Conferenza dei Comitati Popolari. Centocinquanta persone hanno sfidato la famiglia di coloni che vive nell’outpost di Khirbet al Maleh chiedendo con forza di andarsene, di rinunciare a trasformare il sito (illegale anche per la legge israeliana) in un nuovo insediamento (illegale secondo la Convenzione di Ginevra).

In qualche modo, per una manciata di minuti, i coloni hanno sperimentato l’occupazione che impongono quotidianamente ai palestinesi. All’improvviso la “loro” zona di comfort, la “loro” casa, la loro famiglia, sono state violate e potrebbero essere eventualmente distrutte.

È ciò che succede da una vita a A.S., che abita non troppo distante dal luogo dell’azione,

intrappolato tra un insediamento e due basi militari israeliane. Vive in una tenda con i suoi figli, quelli rimasti dei 24 che ha avuto dalle tre mogli che si sono succedute, e un gregge di pecore. Se gli chiedi se la tenda riprenda la tradizione beduina ti guarda quasi con compassione.

“Vivo in una tenda – dice – sebbene su un terreno di mia proprietà, perché gli israeliani hanno ripetutamente distrutto ogni casa che ho costruito per indurmi ad andarmene. Non posso quindi vivere in una casa ma non posso e non voglio andarmene perché questo è tutto ciò che ho, ciò di cui vive la mia famiglia, qualcosa che mi rappresenta e mi definisce come palestinese”.

La strada di accesso al terreno è sterrata e piena di grandi sassi. Gli Israeliani hanno tentato ripetutamente di chiuderla con un cancello, regolarmente rimosso dagli attivisti della Jordan Valley.

È a causa di queste azioni di rimozione, rivendicazione, protesta, che ogni attivista palestinese ha sperimentato la prigione più volte nella vita. È per questo che ogni attivista palestinese sa che la sua vita libera è solo un intervallo tra un periodo di detenzione e l’altro. Ma questa consapevolezza non è sufficiente per eliminare la paura: dietro ogni attivista ci sono una donna, un uomo, una famiglia, degli affetti, il desiderio di una vita normale. “Cosa sognavo quando avevo vent’anni? Una famiglia, dei figli, una vita normale. Poi, dal 1967, è cambiato tutto. Cosa sognano i miei figli? I miei figli non sognano, resistono”.

Durante l’azione del 26 ci sono stati tafferugli. Quella che in un paese normale sarebbe stata messa agli atti come una manifestazione di protesta ha determinato l’intervento dei soldati israeliani che hanno lanciato lacrimogeni e arrestato palestinesi e internazionali. L’azione ha un significato importante e i comitati popolari palestinesi ne sono orgogliosi: cercano di ritrovare la perduta unità per contrastare con forza l’occupazione, in particolare i nuovi insediamenti, e ricostruire un tessuto sociale coeso. Hanno bisogno di interpretare essi stessi il ruolo che l’Autorità Palestinese sembra avere abbandonato: rappresentare e difendere le ragioni di un popolo.

Per parte loro i coloni, seppure simbolicamente, vedono messa in seria discussione la loro volontà (illegittima) di insinuarsi in sempre maggiore misura nel territorio della West Bank e della Jordan Valley, avendo ormai Israele ridotto Gaza a una prigione a cielo aperto. I coloni e gli insediamenti altro non sono se non lo strumento con cui Israele esercita il suo controllo sul territorio e sulle sue risorse. In tutto questo i palestinesi sono solo fastidiosi insetti da spostare con ogni mezzo. Forse, però, questa azione potrebbe rappresentare una svolta, un avvertimento: “Non provate a costruire un nuovo insediamento qui perché ve lo impediremo. E siccome ora siamo uniti, faremo ogni azione necessaria e utile a impedirvelo in tutta la West Bank.”

Il giorno dopo l’azione, di primo mattino, qualcuno aveva fatto girare il link di un lungo video. Girato probabilmente da una colona, il video è stato pubblicato sulla pagina facebook informale dei soldati israeliani. Sebbene non contenga nulla più di quanto avessero già pubblicato gli stessi manifestanti e sebbene gli internazionali e i palestinesi arrestati siano nel frattempo già stati rilasciati, la pubblicazione di questo video ci dice di una connessione tra i coloni e l’esercito e forse anche della debolezza di quest’ultimo.

Con la pubblicazione del video si chiede e pretende una reazione israeliana in difesa dei coloni. La tensione sale di ora in ora, ciascun attivista palestinese teme e sa che potrebbe essere arrestato: oggi, domani, tra una settimana, un mese, mai.

Il silenzio nella macchina è rotto dallo squillo del telefono: è J.J., che ha rischiato l’arresto e si sta nascondendo per qualche giorno. Jonie propone di andarlo a trovare nel suo rifugio. E qui parte una delle tante domande sciocche che si susseguiranno nelle ore successive “Perché si nasconde, avrebbero potuto arrestarlo e non l’hanno fatto. Cosa succederà tra una settimana, un mese, quando uscirà dal suo nascondiglio?” Jonie pazientemente risponde “si vede che non è ancora pronto, uscirà quando sarà pronto”. Esseri umani, persone, uomini, donne, relazioni, emozioni.

Beviamo con J.J. qualcuna delle birre che abbiamo appena acquistato per la “serata”, anche Jonie ne ha bisogno. A sua volta, con noi, sta celebrando il suo rituale preparatorio.

Ora Jonie vuole salutare sua madre che domattina sarà ricoverata in ospedale. “Mia madre mi sostiene – dice – per lei sono un eroe”. Una sosta brevissima, meglio non farsi vedere troppo vicino casa.

Grazie a qualche birra già aperta, sulla strada del ritorno si avvia la parte “festaiola” del rituale. Jonie aveva già preparato della carne: in una manciata di minuti la griglia è pronta e gli spiedini sono sul fuoco. Un po’ di buona musica, bassa data l’ora tarda, ancora tanti pensieri e poche parole anticipano in qualche modo il commiato del giorno dopo. Non è chiaro se ci stiamo salutando prima che arrivino ad arrestare Jonie oppure, semplicemente, perché noi il giorno dopo partiremo. D’altra parte in Palestina non c’è niente di chiaro, niente e nessuno è come sembra: barriere, protezioni, minacce si confondono e ti confondono. Quando pensi di aver capito qualcosa ti accorgi che devi ricominciare daccapo. In fondo è solo con questa disponibilità a ricominciare sempre daccapo, a rimettere tutto in discussione, che puoi entrare in sintonia con la Palestina.

 

Sono le tre passate quando, riemergendo dai propri pensieri, ognuno avverte l’assenza ormai prolungata di Jonie. Manca anche un’altra persona. Sì, perché la notte prima della prigione c’è forse anche l’urgenza di una ultima parentesi di quella intimità che sarà negata per lungo tempo.

p.s. Il mattino dopo, alle sette, vedo Jonie, in lontananza, sta camminando nei terreni coltivati, di quando in quando si ferma a chiacchierare con qualcuno. È il rituale che prosegue: donne, uomini, relazioni, terra.

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