Su Nytimes.com. Michelle Alexander.


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gennaio 24, 2019

 

Per chi critica Michelle Alexander, i palestinesi non meritano diritti civili

di Amjad Iraqi

traduzione di Amedeo Rossi

 

Lo scandalo da parte di personaggi dell’establishment ebraico in merito all’editoriale di Alexander sul New York Times a sostegno dei diritti dei palestinesi ricorda le reazioni degli americani bianchi al movimento per i diritti civili decenni fa.

 

Il forte editoriale di Michelle Alexander sul “New York Times” di sabato (“E’ tempo di rompere il silenzio sulla Palestina”) prima del giorno della commemorazione di Martin Luther King Jr., è stato presumibilmente una pietra miliare per il movimento per la Palestina negli USA. 

Primo, per chi l’ha scritto: Alexander, l’autrice del fondamentale libro “The New Jim Crow” [in riferimento alle leggi segregazioniste nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è un’illustre avvocatessa e un’intellettuale stimata per il suo attivismo e la sua erudizione sul razzismo negli USA, che non può facilmente essere liquidata come “marginale”.

Secondo, per dove è stato scritto: in un importantissimo giornale, che ospita più frequentemente editoriali di sostenitori di Israele come Bari Weiss, Matti Friedman, Bret Stephens, Shmuel Rosner, persino ministri come Naftali Bennett [attuale ministro dell’Educazione di Israele e dirigente del partito di estrema destra dei coloni, ndtr.].

Terzo, per quando è stato scritto: Alexander è l’ultima importante afro-americana negli ultimi mesi ad aver espresso a voce – e ad essere presa di mira per questo – la sua solidarietà con il popolo palestinese, dopo che altri, come Tamika Mallory [attivista della Marcia delle Donne, ndtr.], Marc Lamont Hill [accademico, scrittore, attivista e personaggio televisivo, ndtr] e Angela Davis [storica dirigente del movimento per i diritti degli afro-americani e accademica, ndtr], hanno affrontato pubblicamente insulti e sconfessioni.

E quarto, perché è stato scritto: per sfidare il diffuso timore delle conseguenze, da parte di molti americani progressisti, di criticare pubblicamente Israele e parlare a favore dei diritti dei palestinesi.

Lo scandalo per l’editoriale di Alexander è arrivato rapidamente da gruppi e personalità dell’establishment ebraico. Alcuni di essi vale la pena leggerli per intero, se non altro per testimoniare l’isteria e la chutzpah [termine hiddish per arroganza, ndtr], di dire a una donna nera come commemorare uno dei più importanti leader afro-americani della storia, o come interpretare la sua consapevolezza dell’ingiustizia:

L’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, uno dei principali gruppi della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] (ADL): “Abbiamo un grande rispetto per Michelle Alexander e per il suo lavoro innovativo sui diritti civili, ma il suo articolo sul complesso conflitto israelo-palestinese è pericolosamente errato, ignora avvenimenti fondamentali, la storia e le responsabilità condivise di entrambe le parti per la sua soluzione.”

L’American Jewish Congress [Congresso Ebraico Americano, altro potente gruppo filo-israeliano, ndtr.] (AJC): “La memoria di Martin Luther King non è una clava morale da brandire contro ogni causa o Paese che uno disapprova. L’editoriale di Michelle Alexander è una vergognosa usurpazione. Tutti noi abbiamo da fare un lungo cammino per raggiungere la cima della collina [riferimento al famoso discorso di Martin Luther King “Ho un sogno”, ndtr.]. Non c’è bisogno di prendersela con il democratico Israele.”

David Harris, presidente dell’AJC: “L’articolo di Michelle Alexander: in sintesi chiede la fine di Israele/ cita con approvazione gli estremisti/ invoca l’appoggio di Martin Luther King senza basi concrete/ ignora: la ricerca della pace da parte di Israele dal ’48; la natura di Hamas; il terrorismo; i rifugiati ebrei dai Paesi arabi.”

David Friedman, ambasciatore USA in Israele. “Michelle Alexander ha torto sul NYT di oggi. Se Martin Luther King oggi fosse vivo penso che sarebbe molto orgoglioso del suo solido appoggio allo Stato di Israele. Un arabo in Medio Oriente che sia gay, donna, cristiano o desideri istruzione e miglioramento personale non potrebbe fare niente di meglio che vivere sotto (la bandiera israeliana).” 

Michael Oren, deputato alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] di Kulanu [partito di centro israeliano, ndtr.] ed ex-ambasciatore israeliano negli USA: “L’ambasciatore Friedman ha ragione, ma Israele deve intraprendere passi seri per difendersi. Mettendo sullo stesso piano l’appoggio nei confronti di Israele con quello alla guerra del Vietnam e l’opposizione a Martin Luther King Alexander ci delegittimizza pericolosamente. È una minaccia strategica e Israele deve trattarla come tale.” 

Prevedibilmente queste personalità dell’establishment stanno cercando di potenziare i parametri del discorso “accettabile” sul conflitto. Per quanto li riguarda, non esiste alcuna posizione eticamente legittima a sostegno dei diritti dei palestinesi. L’unica cosa che i palestinesi producono sono razzi e razzismo, chiunque sia associato alla loro causa è in errore o è antisemita.

È particolarmente ironico che quelli che accusano Alexander di manipolare l’eredità di King sono anche noti per sostenere, tra le altre cose, che utilizzare tattiche non violente come il boicottaggio contro Israele è razzista, discriminatorio, provocatore, e/o dannoso. King, e il movimento dei diritti civili nel suo complesso, vennero accusati delle stesse cose durante le loro campagne di disobbedienza civile negli anni ’50 e ’60.

Come ha raccontato Jeanne Theoharis sul “Time” [importante periodico USA, ndtr.] di questo mese, il governo USA, l’FBI e le forze di polizia locali utilizzarono una pesante sorveglianza, la forza brutale e denunce penali per sabotare King e altri dirigenti neri, vedendo le loro attività come “pericolose”, “demagogiche” e “sovversive”. Dati di sondaggi e risposte ai media dell’epoca mostrano ulteriormente che, lungi dall’essere rispettato, il movimento dei Diritti Civili era di fatto “profondamente impopolare” tra la maggioranza dei bianchi americani sia nel Sud che nel Nord:

“La maggioranza degli americani pensava che esso (il movimento) stesse andando troppo lontano e gli attivisti del movimento stessero diventando troppo estremisti. Alcuni pensavano che i loro obiettivi fossero sbagliati; altri che gli attivisti stessero prendendo la strada sbagliata – e la maggioranza dei bianchi americani era soddisfatta dello status quo così com’era. E quindi, criticavano, controllavano, demonizzavano e a volte criminalizzavano quelli che sfidavano il modo in cui stavano le cose, rendendo il dissenso molto oneroso.”

Ciò descrive precisamente le condizioni del movimento per la Palestina di oggi. Non solo nel discorso pubblico americano le richieste di diritti per i palestinesi sono spesso viste come estremiste (soprattutto il diritto al ritorno), ma l’opposizione alle politiche israeliane deve affrontare una struttura politica e legale aggressiva finalizzata a reprimerla. Questo include le nuove leggi federali e statali che hanno lo scopo di criminalizzare il movimento BDS e di confondere le critiche ad Israele con l’antisemitismo.

Inoltre il fatto di descrivere frequentemente Israele come una vittima dell’oppressione palestinese, o che entrambe le parti condividano alla pari le responsabilità è un inganno che nasconde l’evidente asimmetria del conflitto. Spiegando perché era disonesto dire ai neri americani di fare di più per superare la diseguaglianza a loro danno, una volta King disse a un giornalista: “È una beffa crudele dire a un uomo senza scarpe che deve risollevarsi da solo con le sue forze.” È in mala fede proprio come dire che i palestinesi hanno da rimboccarsi le maniche mentre sono sottoposti all’esilio, all’occupazione, al blocco, alla discriminazione e alla repressione del dissenso.

Come ha notato Alexander, all’epoca King era un sostenitore esplicito di Israele e del sionismo. Tuttavia divenne sempre più difficile per lui conciliare quella posizione con i valori universali che propugnava. Oggi è persino ancora più chiaro che il fatto di credere nella giustizia, nell’uguaglianza e nel risarcimento per i popoli oppressi – richieste che sono al cuore della causa palestinese – sia all’antitesi dell’obiettivo di Israele di conservare la superiorità ebraica e della sua visione della non violenza palestinese come equivalente alla violenza.

È questa consapevolezza che ha portato oggi molti attivisti afro-americani – che hanno seguito, si sono basati sulla e trasformato l’eredità di King – a includere i diritti dei palestinesi nella loro lotta per la giustizia globale. Come ha scritto Alexander, le pratiche israeliane sono diventate inevitabilmente “un richiamo all’apartheid in Sud Africa e alla segregazione “Jim Crow” negli Stati Uniti,” e come tali richiedono che i progressisti siano coerenti con i valori che affermano di sostenere. Il fatto che una persona come Alexander abbia aggiunto la sua voce a questo crescente movimento potrebbe ulteriormente allargare la porta perché altri facciano lo stesso.

Benché sia impossibile sapere quello che King avrebbe creduto oggi, si può immaginare che sarebbe rimasto sconcertato da quanto siano simili le reazioni alla causa palestinese a quelle degli americani bianchi alla sua causa. Nonostante quanto sostengono i critici di Alexander, il vero tradimento dell’eredità di King è pensare che i palestinesi debbano rimanere sottomessi alle pretese suprematiste di Israele, come se non meritassero gli stessi diritti per i quali King lottò affinché li ottenesse il suo stesso popolo.

È tempo di rompere il silenzio sulla Palestina


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gennaio 24, 2019

 

Israele ha appena “perso Cronkite” – la lotta per i diritti dei palestinesi al “New York Times”

di Robert Herbst

traduzione di Amedeo Rossi

 

Nel lontano gennaio 1968, dopo una serie di attacchi dei nordvietnamiti e dei vietcong noti come “l’offensiva del Tet”, Walter Cronkite, presentatore nel notiziario CBS della sera e il giornalista più autorevole d’America, ritornò da un viaggio in Vietnam per riportare quello che vi stava succedendo. Alla fine del suo reportage del 27 febbraio, Cronkite, che raramente osava esprimere la propria opinione in diretta, espresse il suo verdetto:

“Ora pare più sicuro che mai che la sanguinosa esperienza del Vietnam sta per finire in una situazione di stallo… È sempre più chiaro a questo reporter che l’unico modo razionale per uscirne sarà negoziare, non come vincitori, ma come gente onesta che ha mantenuto fede all’impegno di difendere la democrazia ed ha fatto il meglio che ha potuto.”

Si dice (con qualche polemica) che, dopo aver sentito questa dichiarazione, il presidente Lyndon B. Johnson abbia detto a un suo collaboratore: “Se abbiamo perso Cronkite, abbiamo perso il ceto medio americano.” Ma non c’è discussione sul fatto che il giudizio di Cronkite secondo cui la guerra del Vietnam era in una situazione di stallo impossibile da vincere sia stato un momento di svolta: ebbe un fortissimo impatto sulla discussione riguardo alla guerra e al corso della nostra politica. Diede un enorme impulso alla campagna contro la guerra di Gene McCarthy [candidato del partito democratico alle primarie per le presidenziali, ndtr.]; Bobby Kennedy scese in campo poche settimane dopo con un programma contro la guerra; il 31 marzo 1968, in un indimenticabile discorso alla Nazione, il presidente Johnson rinunciò a candidarsi di nuovo a presidente.

Oggi non c’è un “giornalista più autorevole d’America”. Il giornalismo è frammentato, in quanto ci siamo ritirati nei nostri rispettivi orticelli politici sia nelle notizie stampate che via cavo (e anche in internet). Ma se c’è qualcosa di simile all’arbitro più influente dell’opinione politica americana, questo è il “New York Times”. È letto quotidianamente dalla classe politica e liberal, progressisti e centristi dentro e fuori la “Beltway” [area di Washington in cui si concentrano gli uffici del potere, ndtr.]. Rimane il primo come diffusione complessiva tra quanti fanno opinione negli USA. Secondo l’ex-reporter del “Times” Neil Lewis, che nel 2012 ha scritto un articolo informativo per la Columbia Journalist Review [rivista per giornalisti della Columbia University, ndtr.] sul modo in cui il giornale ha informato su Israele, esso ha svolto anche la funzione di “giornale locale dell’ebraismo americano per più di un secolo.”

Ironicamente, dopo aver comprato il giornale ed essersi spostato dal Tennessee a New York, il fondatore Adolph Ochs era deciso a che il Times non apparisse mai come un “giornale ebraico” o un particolare sostenitore della causa ebraica. Durante la Seconda Guerra Mondiale la sottovalutazione dell’Olocausto da parte del giornale fu duramente criticata dalla comunità ebraica. Arthur Hays Sulzberger, genero di Och ed editore dal 1935 al 1961, non era sionista, convinto, insieme al suo nonno acquisito, il rabbino Isaac Mayer Wise, un fondatore dell’ebraismo riformato, che gli ebrei fossero seguaci di una religione, non un popolo o una nazione.

Neil Lewis descrive come la narrazione su Israele da parte del “Times” sia cambiata nel corso degli anni, sotto l’influenza della propaganda israeliana, o hasbara, uno sforzo con cui i palestinesi non potevano competere. “Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme dal 1965 al 1993, conosceva per nome ogni direttore del “Times”.” E i direttori del “Times” che visitavano Israele erano in genere “trattati come ospiti reali.” Lewis descrive anche come i direttori del “Times” reagirono negativamente a vari esempi di informazione critica su Israele negli anni ’80 e fino alla fine degli anni ’90 da parte dei corrispondenti del giornale da Gerusalemme. L’ex-direttore esecutivo Max Frankel ha ammesso la parzialità quando era direttore degli editorialisti. Nelle sue memorie (come vengono citate nel libro “The Israel Lobby”) [La Israel Lobby e la politica estera israeliana, Mondadori, 2007, ndtr.], egli ha scritto:

“Ero molto più fedele a Israele di quanto osassi affermare…Forte della mia conoscenza di Israele e delle mie amicizie là, io stesso ho scritto la maggior parte dei nostri articoli di commento sul Medio oriente. Come più lettori arabi che ebrei hanno riconosciuto, li ho scritti da una prospettiva filo-israeliana.”

Lamentele in merito alla copertura informativa di parte su eventi riguardanti Israele-Palestina sono state un elemento chiave su questo sito per anni. L’ex capo redattore dell’ufficio di Gerusalemme Jodi Rudoren frequentava Abe Foxman [influente membro della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] e mostrò indifferenza culturale verso i palestinesi. Almeno quattro reporter del giornale hanno avuto figli nell’esercito israeliano. In quanto lettore del giornale negli ultimi 60 anni, so che la voce dei palestinesi che descrivono la propria lotta per i diritti umani e la dignità raramente è comparsa in queste pagine, mentre commenti filo-israeliani considerati attendibili sono arrivati per anni dagli editorialisti del “Zionist Times” David Brooks e Tom Friedman, e più recentemente da Bret Stephens, Bari Weiss, Shmuel Rosner e Matti Friedman.

All’inizio dello scorso anno, il primo gennaio 2018, tuttavia, il trentottenne A.G. Sulzberger ha sostituito suo padre come direttore (dopo un periodo di un anno come vice direttore). Da quando ha assunto l’incarico pare che siano in corso cambiamenti nel giornale sul fronte israelo-palestinese. Lo scorso anno l’editorialista da poco assunta Michelle Goldberg ha definito le uccisioni lungo la barriera di Gaza come un “massacro” e ha difeso l’antisionismo come una posizione legittima per ebrei e non ebrei, distinguendola dall’antisemitismo.

E oggi l’editorialista neo-assunta Michelle Alexander ha chiesto di “rompere il silenzio” sulla Palestina:

“Dobbiamo condannare le azioni di Israele, le incessanti violazioni delle leggi internazionali, la continua occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme est e di Gaza, le demolizioni delle case e le confische delle terre. Dobbiamo alzare la voce contro il trattamento dei palestinesi ai checkpoint, le periodiche perquisizioni nelle loro case, le restrizioni alla loro libertà di movimento e l’accesso gravemente limitato a una casa decente, alla scuola, al cibo, agli ospedali e all’acqua che molti di loro devono subire.

Non dobbiamo tollerare il rifiuto di Israele persino a discutere del diritto dei rifugiati palestinesi a tornare alle proprie case, come previsto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite e dobbiamo mettere in questione i fondi del governo che hanno sostenuto molteplici conflitti e migliaia di vittime civili a Gaza, così come i 38 miliardi di dollari che il governo USA ha assicurato all’ appoggio militare di Israele.

E infine dobbiamo parlare a voce alta, con tutto il coraggio e la convinzione che possiamo trovare, contro il sistema di discriminazione legale che esiste all’interno di Israele, un sistema composto di…più di 50 leggi che discriminano i palestinesi…ignorando i diritti della minoranza araba che rappresenta il 21% della popolazione.”

Questa avvocatessa per i diritti umani e autrice di “The New Jim Crow” [“Il nuovo Jim Crow”, in riferimento alle leggi discriminatorie nel Sud degli Stati Uniti, ndtr.] è molto rispettata da progressisti e centristi del partito democratico, ed anche nella comunità ebraica come in quelle di colore. Rompendo il suo silenzio su Israele/Palestina ha reso pubblico un rapporto accuratamente strutturato e con fonti attendibili che mette in primo piano il dramma dei palestinesi “che lottano per sopravvivere sotto l’occupazione israeliana.” La confessione dell’immoralità del suo precedente silenzio – a causa delle preoccupazioni che “calunnie” filo-israeliane avrebbero danneggiato o screditato il suo lavoro per la giustizia sociale a favore della sua e di altre comunità emarginate – risuonerà nei cuori di quelli che, come me, hanno anche loro rotto il silenzio, e su molti altri che sanno quanto questa oppressione sia sistematica, costante e pervasiva – e come gli americani l’agevolino – ma non hanno ancora avuto il coraggio di parlarne. La sconfessione da parte di Alexander di quello che ha motivato il suo silenzio si spera influenzerà altri a farlo anche loro, nonostante il fatto che sono già stati sguainati i coltelli contro di lei da parte dei soliti sospetti.

L’appello di Alexander ad appoggiare la lotta palestinese e la sua evocazione del coraggioso appello di Martin Luther King per la fine della guerra del Vietnam – un anno prima di Cronkite – è una svolta per il “Times”, come lei implicitamente nota:

“Non molto tempo fa era veramente raro sentire questo punto di vista. Non è più così.”

Dando all’articolo di Alexander rilievo nella prima pagina della “Sunday Review” [sezione degli editoriali del NYT, ndtr.] può darsi che il “Times” di A.G. Sulzberger stia annunciando ufficialmente che il testimone è passato a una nuova generazione di americani, ebrei e non-ebrei, libera di discutere questo punto di vista senza timore o favore, nonostante l’influenza di quanti lo definirebbero antisemitismo o in qualche altro modo illegittimo. Se così fosse, questo potrebbe essere un momento di svolta non solo per il “Times”, ma per tutti quelli di noi che sono coinvolti nella lotta per i diritti e la dignità dei palestinesi.

Robert Herbst è un avvocato per i diritti civili. È stato coordinatore della sezione di “Jewish Voice for Peace” [“Voci Ebraiche per la Pace”, gruppo ebraico Usa contro l’occupazione, ndtr.] di Westchester [contea dell’area metropolitana di New York, ndtr.] dal 2014 al 2017.

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