Fonte: Ereticamente

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26/07/2019

 

Il liberalismo è obsoleto

di Roberto Pecchioli

 

Gli statisti si distinguono dai politici e dai semplici politicanti perché hanno in mente un progetto di lungo periodo e si impegnano con perseveranza a realizzarlo. Vladimir Putin può piacere o no, ma certamente fa parte della ristretta cerchia degli statisti. Non solo per la sua capacità di risollevare economicamente, politicamente, strategicamente e demograficamente la Russia, ma anche per essere divenuto un punto di riferimento internazionale, addirittura una speranza per una parte significativa dell’opinione pubblica europea. Resta insuperato il discorso di Valdai del 2013 in cui rivendicò le radici del suo popolo- continente e ripropose senza timidezza il modello di civiltà umanistica rispettosa delle identità, delle tradizioni spirituali, incardinata saldamente nei principi della legge naturale.
Qualche settimana fa, Putin è forse andato oltre, attaccando frontalmente uno dei fondamenti dell’Occidente. In un’intervista al Financial Times, vangelo indiscusso dell’ortodossia economica, ha affermato con chiarezza che il liberalismo “è superato”. L’allarmato titolo del giornale amato dai mercati è stato ancora più tranchant, poiché ha usato il termine obsoleto. Sì, il liberalismo è superato ed obsoleto. In Europa, solo Viktor Orbàn, tra i politici, ha osato tanto, dichiarando di operare, in Ungheria, per una “democrazia illiberale”. Ma Orbàn dirige una piccola nazione e può essere ignorato. Putin no, le sue dichiarazioni fanno rumore, mantengono un’eco, tendono a propagarsi come cerchi nell’acqua. E’ dunque interessante verificare quel che ha davvero detto il presidente russo, riflettere seriamente sulle conseguenze e capire se ha ragione o torto.
Innanzitutto, occorre ricordare che Putin, come responsabile politico di una potenza che sta risalendo faticosamente la china della storia, ragiona in termini russocentrici o eurasiatici; è cioè portatore di interessi strategici che non coincidono necessariamente con quelli del nostro pezzo di mondo. Tuttavia, le sue parole sono pietre e devono essere meditate alla luce dell’ultimo trentennio neoliberale, nonché delle prese di posizione di intellettuali importanti di distinto orientamento, come il suo connazionale Aleksandr Dugin, i francesi Alain De Benoist, Alain Soral, Jean Paul Michéa, il canadese Mathieu Bock-Coté, e poi Slavoj Zizek, gli americani Wallerstein, John Mearsheimer e altri.
Il presente lavoro si articola in due parti, più una conclusione. Nella prima, esporremo i punti più importanti dell’intervista di Putin, nella seconda cercheremo di individuare le piste antiliberali disseminate dal pensiero più recente, tentando al termine della ricognizione di rintracciare spiragli per aiutare i popoli, la politica e il senso comune ad uscire dalla gabbia liberale. Gabbia in quanto la narrazione liberale mercatista descrive se stessa come unica, conclusiva della storia, non il migliore dei mondi possibili, ma l’unico, al quale non è pensabile né praticabile un’alternativa. Qui sta, a nostro avviso, il primo grande successo di Putin: aver posto, con tutta la forza della sua leadership, il liberalismo sullo stesso piano delle altre idee e forme di organizzazione della società. Riportandolo sulla terra dal piedistallo su cui si è collocato, paradossalmente, ha reso un servizio liberale.
All’inizio, infatti, il liberalismo pensò se stesso come uno strumento pratico, un metodo più che un’ideologia. Nel tempo, si è confusa, o è stata fatta coincidere, la tendenza liberale con l’ideologia economica del mercato misura di tutte le cose, o, se preferiamo la formula marxiana, con il modo di produzione capitalistico. Scherzando, ma non troppo, potremmo concludere che, appiattito sulla dimensione economica della privatizzazione del mondo, considerato un unico mercato di scambi dominati dal calcolo razionale e utilitario, il liberalismo ha perso due lettere, divenendo semplicemente liberismo, ovvero il meccanismo di dominio planetario basato sulla gestione privata del potere – economico, finanziario, tecnologico- al servizio di un unico centro direttivo tecno oligarchico, che Lewis Mumford chiamò Megamacchina.  Fatalmente, la Megamacchina si autoalimenta, espelle ogni ostacolo alla propria espansione illimitata, diventa scopo a se stessa e rade al suolo ogni principio, differenza, identità, radice spirituale, principio etico non compatibile con i propri fini di dominio.
In questo senso, si è convertita nel contrario del suo principio originario. Ricordiamo un pensiero di José Ortega y Gasset: il liberalismo è l’idea che tutela le minoranze, anche le più deboli. Missione fallita, anzi rovesciata nel suo opposto, giacché la prassi liberale risolve tutto nel primato dell’economia e, al suo interno, dei grandi attori privati cui viene lasciato campo libero per dominare l’intera vita umana. La riflessione di Putin non si basa sulle dinamiche economiche negative, ma su una critica che in Francia definirebbero “societale”, ossia etica, antropologica, valoriale. E’ esattamente l’armamentario indispensabile agli avversari del moloch liberale per condurre una battaglia di idee, alimentare un’alternativa di civiltà che necessariamente deve affrontare il nodo gordiano del formidabile potere conseguito dai grandi agglomerati privati, in grado di esautorare gli Stati nazionali e troncare ogni politica di interesse pubblico. Ma la forza e l’importanza delle parole di Putin sta proprio nella capacità di opporsi all’idea malsana di libertà come assenza di limiti e principi che rende tanto pervasiva l’ideologia liberal- liberista.
Interessante è il titolo completo scelto dal Financial Times per l’intervista: “Putin dice che il liberalismo è diventato obsoleto.” Splendida l’intuizione di un osservatore francese, Philippe Grasset: si tratta precisamente della struttura delle frasi che i bambini piccoli usano per raccontare alla madre ciò che il temuto ragazzo più grande ha appena detto. Il giornalone si mostra disorientato e ricorre all’accusa, al dito puntato come il ragazzino impaurito che chiede agli adulti di intervenire. Putin l’ha sparata grossa, va attaccato, punito e intanto smascherato di fronte a tutti. Sì, non è andato per il sottile, il Malvagio Globale di ghiaccio: “i suoi sostenitori [del liberalismo, N.d.R] non fanno nulla. Dicono che va tutto bene, che tutto è come dovrebbe essere. L’idea liberale è diventata obsoleta. E’ in conflitto con gli interessi della stragrande maggioranza della popolazione. Se c’è davvero un’ondata di populismo, questo è probabilmente il fallimento del consenso liberale. Le persone pensano di essere abbandonate e incolpano l’ideologia del liberalismo “.
Non fa una piega; soprattutto, si pone al lato dei popoli e delle persone concrete e afferma con chiarezza che il liberalismo-liberismo è un fallimento per la vita dei più. Lo sperimentiamo sulla pelle, ma Putin è il primo grande leader ad affermarlo senza contorsioni verbali. La notizia è di quelle che cambiano la realtà: “l’idea liberale ha esaurito la sua utilità perché non serve più ai bisogni della maggioranza dei popoli. “La chiave è nel plurale, popoli. Tutti diversi, ognuno con la sua specificità distrutta dall’identico liberista, che conosce solo economie di scala, produzioni uniche, idee uniche, taglie uniche. Se esistono i popoli, è perché sentono vivi i principi di nazione, comunità e famiglia, perché avvertono se stessi come diversi dagli altri, ciò che il liber(al)ismo aborre e stritola. Il mondo può ancora cambiare, se un protagonista internazionale osa affermare che l’idea liberale è morta. A bassa voce, sembra che non sia solo: “i nostri partner occidentali hanno ammesso che alcuni aspetti dell’idea liberale non sono realistici, come il multiculturalismo. Molti di loro hanno riconosciuto che non funziona e che dobbiamo pensare anche agli interessi delle popolazioni autoctone”.
Attaccare il multiculturalismo è un peccato capitale, poiché è una delle architravi dell’intero edificio globalista. L’idea è che genti diverse possano convivere nel medesimo spazio senza problemi in assenza di principi, valori, modi di essere condivisi; il conflitto sarebbe spento dall’adesione comune al consumo, al mercato, all’idea dello scambio razionale misurabile con il criterio universale del denaro e del profitto. Sappiamo per esperienza diretta che non è così; il liberalismo, strumento pratico per eccellenza, mostra il suo lato oscuro utopico, anzi distopico nel momento in cui realizza il suo programma, una luccicante Babilonia omogeneizzata di soggetti/oggetti diversamente identici in corsa senza posa privi di meta.
L’idea liberale, osserva Putin, è sopravvissuta al suo scopo, che era fornire un impianto di regole pratiche per governare il conflitto nelle società complesse, accettando il principio del pensiero libero e dichiarando che la maggioranza, formata attraverso procedure stabili e periodicamente verificata, ha sì il diritto di dirigere la società, ma non ha ragione per il fatto di essere provvisoriamente tale, né possiede il diritto di schiacciare dissidenti ed oppositori. E’ il presupposto, fa capire Putin, ad essere errato. “I liberali non possono più permettersi di dettare le regole come hanno fatto negli ultimi decenni” perché laisser faire, laisser passer, lasciar fare, dare mano libera all’ipotetica società civile è in realtà consegnare il mondo senza limiti a un grumo di potenti. Immigrazione, folle apertura dei confini, libertà di merci e capitali, distruzione delle consuetudini e delle forme di economia non mercatista sono nell’interesse di costoro, non certo dei popoli, delle comunità e delle persone comuni.
Putin viene al nocciolo: “questa idea liberale presuppone che non sia necessario fare nulla. “ Tutto si aggiusterà da sé, nell’interesse di pochi: una follia. Che la lingua batta dove più duole, ovvero sul problema migratorio, è sottolineato da Putin con un’osservazione che i liberali d’antan avrebbero sottoscritto senza esitare: nelle società liberali “gli immigrati possono uccidere, saccheggiare e violentare restando impuniti, perché i loro diritti in qualità di migranti devono essere protetti. No, ogni crimine deve avere la sua punizione.” Permissivi con qualcuno in nome del buonismo o dell’imbroglio multiculturale, si finisce per diventare tali con tutti, lasciando senza protezione il corpo sano della società. Questo genera “il conflitto con gli interessi della travolgente maggioranza della popolazione”. Sorprende in positivo la lucidità di Putin nel rivolgersi agli interessi dei popoli, concretamente, evitando di citare esplicitamente principi permanenti come legge e ordine, la supremazia della dimensione pubblica del potere, uniti alle identità nazionali e religiose.  Questi valori funzionano da secoli, sono convenienti in quanto rendono la vita migliore, offrono continuità, sicurezza, stabilità materiale e società coese, penetrando come un’onda benefica nella quotidianità.
I governanti occidentali, rivela Putin, non sono soddisfatti del presente stato di cose, ma non cambiano perché servi del dogma liberale, lasciar fare alla società, cioè ai poteri forti estranei al popolo! “Stanno nei loro confortevoli uffici mentre quelli che affrontano ogni giorno i problemi non sono felici. Qualcuno pensa a loro? Dicono che non possono perseguire una politica intransigente per una serie di motivi. Perché esattamente? Solo perché è così, c’è la legge, dicono. Quindi cambino la legge!” Qui Putin scopre un altro nervo scoperto dei nostri tempi, la sovranità ceduta ai poteri esterni, alle oligarchie del denaro, della tecnica, ai padroni dell’intrattenimento che fa opinione, che hanno svuotato la democrazia riducendola all’impotenza, quindi all’inutilità. E’ la realizzazione del programma liberale: dimensione pubblica minima e priva di valore, tutto il potere alle oligarchie private, eufemisticamente chiamate “società civile” e ai loro interessi, procedure obbligate, governance impersonale.
La pretesa liberale contestata da Putin è quella di dettare le regole in nome di una superiorità indiscutibile, un postulato cui è vietato opporsi. Ne scaturisce un misto di intolleranza verso gli altri sistemi di pensiero e di arrogante disprezzo per i dissidenti, in conflitto con la conclamata tolleranza di cui il liberalismo si ammanta.  In più torce l’idea di libertà in una prospettiva individualista, nemica di ogni identità comunitaria, ostile a qualsiasi afflato spirituale, un materialismo gaio quanto impenetrabile. La conseguenza è l’utilitarismo elevato a regola unica, con i rapporti socio economici lasciati alla legge del più forte, ovvero agli “spiriti animali” di un modo di produzione, quello capitalista, elevato a unico stile di vita. Di qui l’abolizione dei confini, fisici, legislativi e morali e la fuoriuscita dai modi di vita che hanno costituito e improntato i popoli per secoli e millenni.
Putin sembra l’unico leader a cui importano le radici. Così si esprime: “viviamo in un mondo basato sui valori tradizionali della Bibbia. Non dobbiamo dimostrarli tutti i giorni, ma dobbiamo averli nei nostri cuori e nelle nostre anime. In questo modo, i valori tradizionali per milioni di persone sono più stabili e più importanti di questa idea liberale che, a mio avviso, cessa di esistere”.  Si tratta di un altro punto essenziale, in cui Putin coglie la natura distruttiva della prospettiva neo-liberale, impegnata soprattutto a decostruire per riconvertire la persona in consumatore e individuo teso esclusivamente al guadagno, all’utile e al piacere. L’arma più potente è la confusione dell’identità personale sotto il profilo sessuale. Afferma di non comprendere le trasformazioni, anzi “trans formazioni” in atto.
Quanti sessi ci sono, si chiede, evitando di utilizzare l’equivoco neologismo “genere”, ribadendo il divieto di propaganda in Russia per l’omosessualismo, specie se rivolta ai minori. “Giù le mani dai bambini” è la forte risposta di Putin all’invadenza del mondo LGBT tanto popolare in Occidente. “Si dice ora che i bambini possono giocare cinque o sei ruoli di genere. Non posso nemmeno dire di che razza di idea si tratta, ma questo non deve oscurare la cultura tradizionale, le tradizioni e i valori familiari dei milioni di persone che costituiscono il nucleo della popolazione”.  Incredibile all’orecchio occidentale del Terzo Millennio: un capo politico si rivolge alla gente comune, a chi vive e veste panni, difendendola dalle ubbie da cui sono aggredite, ribadendo la legge naturale, perfino in nome di quella Bibbia sulla quale pure continuano a giurare i politici anglosassoni.
La riflessione di Vladimir Putin va oltre: “penso che le idee puramente liberali o puramente tradizionali non siano mai esistite. Tutto finisce rapidamente in un vicolo cieco se non c’è diversità. Tutto alla fine diventa estremo in un modo o nell’altro. Le idee e le opinioni diverse devono avere la possibilità di esistere e manifestarsi, ma allo stesso tempo gli interessi del pubblico in generale, di questi milioni di persone e delle loro vite non dovrebbero mai essere dimenticati.  Quindi, mi sembra che potremmo evitare grandi sconvolgimenti politici. Questo vale anche per l’ideologia liberale. Penso che smetterà di essere un fattore dominante, ma non significa che debba essere immediatamente distrutta. Anche questo punto di vista dovrebbe essere trattato con rispetto. Però non possono dettare niente a nessuno, come hanno cercato di fare negli ultimi decenni. Vediamo diktat ovunque: nei media e nella vita reale. È persino considerato indegno parlare di alcuni argomenti. Ma perché? “
Una domanda senza risposta, tranne quella dell’assolutismo del pensiero liberale, chiuso nella prigione del divieto pratico di diversità delle idee. Putin usa la parola diversità per farci cogliere la contraddizione: “tutto finisce molto rapidamente in un vicolo cieco se non c’è diversità “, ovvero il liberalismo nega la sua ragione iniziale, perché nessuna distinzione di idee è accettata per non riconoscere la diversità delle comunità e dei valori, al fine di imporre un nuovo senso comune.  Tale atteggiamento ricorda l’intransigenza dei bambini nel difendere le loro idee, l’insistenza testarda nel rifiuto di ogni sfumatura, la riduzione del pensiero immaturo a diktat indiscutibili, capricci, umori intolleranti, irritazione violenta verso le contro argomentazioni: liberalismo come totalitarismo infantile.
Nello specifico, le reazioni scomposte alla sola possibilità che la doxa liberale divenuta obbligo possa essere oggetto di critiche, mostrano lo scompiglio nella cucina del potere, schierato in blocco contro Putin, l’eretico che osa discutere il sacro corano liberale che, dall’alto di se stesso, non accetta sfide né critiche. Accettano qualsiasi cosa, tutto lasciano passare – quello è il loro obiettivo finale – ma diventano totalmente intolleranti quando le loro convinzioni vengono messe in discussione. Se il liberalismo è una specie di Eden conquistato attraverso il progresso materiale, nessuno può revocarlo in dubbio senza porsi, eo ipso, fuori dal consesso della Civiltà, dell’Umanità, del Bene.
Spiacente, signor presidente russo, i liberali non sono qui per consentire punti di vista diversi. La società è aperta solo per i suoi tifosi. Un pensiero difforme può portare a una riflessione, ad esempio se il liberalismo sia diventato un soffocante dogma ideologico, ma non c’è alcuna possibilità, nel mainstream dell’Occidente malato, che possa avvenire una relativizzazione dell’ideologia liberale, una critica dell’inganno circa l’idea di libertà. Il vero interesse, l’autentico respiro storico dell’intervento di Putin è di aver seminato il terrore – una confusa ma palpabile sensazione di vulnerabilità – tra i chierici del liberismo. Il mostro incantato, o diavolo incarnato, è odiato perché ha avuto l’audacia di mettere in discussione la “cosa sacra”, il dogma liberale, tanto potente ma così fragile da non sopportare sguardi critici, un edificio di menzogne che può crollare perché circondato dalle termiti, una struttura apparentemente inattaccabile, ma totalmente marcia all’interno.
Putin non funziona come capro espiatorio, sacrificato il quale torna il sereno, secondo l’intuizione di René Girard: è un osso troppo duro da rodere con la guerra preventiva, abbastanza popolare da non essere demonizzato come altri nemici veri o presunti della democrazia liberale, cioè degli interessi oligarchici occidentali. E’ un leader, finalmente, che abbiamo dalla nostra parte, pur con tutti i distinguo del caso, il portatore di un pensiero alternativo, di una fiammella per alimentare la resistenza.
Il metodo dialettico ha insegnato a cogliere le contraddizioni del pensiero avversario per indebolirlo dall’interno e allargarne le crepe. La fenditura di cui Putin è simbolo cresce come il rilievo di pensatori dissidenti in grado di arrivare al grande pubblico, fornire strumenti etici, culturali e pratici per dare sangue e carne alla lotta contro il leviatano liberale, obsoleto, superato, ma fortissimo. Ne analizzeremo le idee nel successivo capitolo.


Le idee sulle gambe degli uomini.
Il liberalismo è superato e obsoleto, dice Putin, ma soprattutto è pericoloso. Esaltato del successo, divora se stesso. Nato per garantire spazio alle diversità, alla varietà benefica delle culture, per regolare le istituzioni, riconoscere un ruolo alla spirito religioso, proteggere il diritto delle minoranze, offrire un quadro certo di diritti e doveri garantiti dallo Stato nazionale, difendere ma non assolutizzare la proprietà privata, si è trasformato nel suo contrario. La logica disgregante ha preso il sopravvento per il tramite del primato dell’economia, unica “struttura” alla quale sottomettere tutto. I più coerenti tra i liberali liberisti, come Friedrich Von Hajek, riconoscevano che il sistema avrebbe potuto funzionare e riprodursi senza scosse solo all’interno dei valori “conservatori”. Trasformato nella legittimazione culturale del darwinismo sociale (l’economia basata sulla la legge del più forte come metafora della “lotta per la vita”), il liberalismo ha perduto il realismo di Raymond Aron, Lord Acton e José Ortega e si è spostato a sinistra sul piano dei valori etici con la stessa velocità con la quale si è ancorato a destra sul versante delle scelte economiche e finanziarie.
Dimentico di giganti come Tocqueville, avversario intransigente della massificazione imposta da una democrazia “quantitativa”, ha assunto le sembianze della nuova sinistra intellettuale affermatasi a partire dalla fine degli anni 60. Spiega un geostratega della scuola realista, John J, Mearsheimer, che il difetto di fondo dei liberali contemporanei è la credenza in una superiorità irriducibile, un sentimento misto di vulnerabilità e arroganza che favorisce l’intolleranza nonostante l’enfasi posta sul suo contrario. Ne è prova il pensiero di Karl Popper, teorico della società aperta che suggeriva la massima chiusura verso i suoi avversari. La vittoria nei confronti del comunismo dagli anni 90 del XX secolo ha spinto gli Stati Uniti, nazione guida del liberalismo, a creare un sistema globalizzato, attraverso il potere dei monopoli privati e l’imposizione delle regole liberiste con lo strumento delle istituzioni transnazionali da essi dominato: Organizzazione Mondiale del Commercio, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Onu, e la Nato, trasformata in alleanza militare “globale”.
Di qui la fine del liberalismo classico, trasformato in liberismo, con l’accento posto su un’idea di libertà fondata sul soggettivismo più estremo. La libertà liberale è ormai intesa come liberazione da identità collettive e principi comunitari. Il nuovo liberale non appartiene che a se stesso, svuotato dall’appartenenza a una nazione, a un gruppo etnico, a un ceto o classe sociale, a una credenza religiosa, a una cultura. E’ la condizione ideale per essere travolto dalla forza delle mode, dell’ingegneria sociale, dell’industrializzazione del desiderio, del consumo centro dell’esistenza. L’universo neoliberale è apparentemente liquido (atomi solitari che nuotano in un mare in continuo movimento), in realtà è ferrea schiavitù ai padroni del mondo, titolari dei “mezzi di produzione”, delle tecnologie più pervasive e della “narrazione” esistenziale, tesa a formare l’individuo libero di seguire le proprie inclinazioni, anche le più basse, ridefinite “diritti”.
Il liberale liberista contemporaneo diventa libertario e libertino in quanto deve emancipare l’individuo da ogni retaggio, a partire da quelli imposti dalla natura e dalla biologia. Per lui la democrazia è rivendicazione continua di diritti, esclusi quelli sociali. La prassi realizza un predominio dell’economia di monopolio privato senza freni il cui esito è la dipendenza dalle oligarchie proprietarie. Nemico di ogni limite o frontiera, tende necessariamente all’Unico: governo unico mondiale, mercato unico, gusti unici, lingua unica, anche sesso unico. L’essenza totalitaria sfugge a moltissimi in nome dell’apparente ampia scelta che propone. E’ il contrario, poiché le opzioni ammesse sono sempre interne; il supermercato delle idee è simile a quello dei prodotti di consumo: il banco espone mille etichette diverse del medesimo prodotto.

Gli illiberali.
L’opposizione è sparsa e incapace di un minimo comune denominatore. Tuttavia, esiste e avanza nel deserto. Interessante è la visione di un intellettuale “alla moda”, lo sloveno Slavoj Zizek, vecchio dissidente ai tempi della Jugoslavia che si autodefinisce, con una punta di civetteria, leninista. La sua opposizione al liberalismo si basa sulla difesa delle tradizioni popolari e sul fastidio per la mistica dei diritti umani, che definisce espressione di un’ideologia post borghese, un tic da benestanti. E’ così: la sostituzione della rivendicazione dei diritti sociali con la richiesta continua di diritti “umani”, definiti invariabilmente espressione di civiltà, non è altro che la variante individualista della lotta di classe. E’ un ritorno alle origini, alla rivoluzione francese e alla sua tronfia dichiarazione dei diritti dell’uomo. Possiamo senz’altro affermare che l’ossessione per i diritti “umani” è il tratto fondamentale del liberalismo del XXI secolo, distruttivo dello stesso imperio della legge, vanto del liberalismo classico. Il cammino, con il lessico di Fernand Braudel, è ormai proiettato nella longue durée. Immaniel Wallerstein osserva come il sistema attuale è unico nella storia e corrisponde all’ ” economia – mondo” di cui il liberalismo è la copertura teorica.
L’avversario più radicale dell’attuale stato di cose è Aleksandr Dugin, lo studioso russo legato anche all’Italia. Per lui il liberalismo è il nemico principale, trasformato in strumento di oppressione economica e sociologica, assurto a religione, pensiero unico e dogma della globalizzazione. La novità di Dugin è il tentativo di situare ad un livello superiore, metastorico e metapolitico, la battaglia antiliberale. Afferma con forza: “la guerra delle idee deve essere portata sul piano dello spirito, si potrebbe dire in quello metafisico. E’ la lotta dell’uomo contro l’egoismo individualista; è la lotta della comunità contro la disgregazione della società; è la lotta per la sovranità delle persone e delle nazioni contro la dissoluzione dei singoli e degli Stati. “Impressiona la ritirata della sinistra politica (se la segnaletica del passato ha ancora un senso), il suo posizionamento dal lato liberale, sedotta dal sentimentalismo buonista e dall’emotività a buon mercato sparsa a piene mani dall’orchestra culturale liberale. Attraverso il patrocinio di ogni minoranza e di qualsiasi pulsione ridefinita diritto, è facile cadere nella trappola di una libertà illusoria.
Rovesciando Benjamin Constant, occorre tornare alla libertà degli antichi, che era volontà di partecipazione diretta e di decisione senza mediazione, demistificando la libertà dei moderni, che non è altro che assenza, liberazione, chiusura nel recinto individualista, nel permaloso ritornello dei diritti e, politicamente, primato di una democrazia vuota, dominata dai rappresentanti, come capì già Rousseau, a loro volta asserviti a chi comanda davvero, ovvero i signori del denaro. Viviamo di procedure, scatole vuote, nell’attesa disperante che i conclamati diritti dell’uomo siano superati da quelli del cyborg. Ci avviamo alla disumanizzazione, prodromo della liberazione dall’uomo. L’imperativo è tornare al popolo, alla sua concretezza, per Dugin l’Esserci (il Dasein di Heidegger), esistere, vivere, qui e adesso immersi nella storia, nella memoria, nella cultura e nell’identità.
Dugin accusa il liberalismo di essere contro il popolo, di usurparne il concetto, derubricandolo a un aggregato informe di individui, anziché “un insieme organico, un’entità esistenziale.” In quest’ottica, perde valore la distinzione destra-sinistra, un crinale che fa assai comodo al giudizio liberale, che demonizza ogni dissidente con le categorie incapacitanti di ieri: fascista, nazista, stalinista, comunista, a cui ha aggiunto il definitivo “terrorista”. Padroni della narrazione, dispensano definizioni che escludono non solo dallo spazio pubblico, ma dall’appartenenza al consorzio civile.
Dugin ha un ulteriore merito, quello di dialogare, tenendo ferme le sue posizioni di pensatore cristiano immerso nella Tradizione, con chiunque condivida la critica al globalismo liberale. E’ essenziale annodare i fili di un difficile percorso con ogni avversario dell’ordine vigente, denunciando il razzismo gnoseologico delle élite liberali, che “considerano sottosviluppato chi crede in qualche Dio”. Ecco un altro elemento del liberalismo contemporaneo, il materialismo radicale, mutuato da quello dialettico di ascendenza marxiana, greve, chiuso al dialogo, arcigno custode di una asserita superiorità intellettuale. La conseguenza pratica è la tendenza irresistibile all’Identico, alla realizzazione di quell’uomo a dimensione unica che fu l’unica intuizione positiva di Herbert Marcuse. Multipolarismo, eurasiatismo, rispetto per la tradizione, spiritualità, identità, comunità di popolo, democrazia diretta, diventano così altrettante armi da imbracciare contro la reductio ad unum neoliberale.
Accanto all’ esistenzialismo cristiano, l’Esserci di Dugin, Quarta Teoria Politica in quanto superamento di liberalismo, comunismo e fascismi, avanza per chiarezza e acutezza pratica il pensiero di Alain De Benoist, sodale, collaboratore e mentore di Dugin in Occidente. L’esponente più rappresentativo di quella che fu la Nuova Destra è forse il critico più puntuale del liberalismo, e la sua polemica in nome dell’illiberalismo merita di essere approfondita e posta alla base di un pensiero alternativo.  Per De Benoist nel liberalismo l’uomo si concepisce come individuo disinteressato alla relazione con altri uomini nel contesto sociale. Egli è il proprietario unico di se stesso, mosso esclusivamente dall’interesse particolare. Louis Dumont, in Homo aequalis, lo definisce in contrapposizione alla persona, “essere indipendente, autonomo e perciò essenzialmente non sociale”. La concezione liberale oscilla tra la dimensione soggettiva e il concetto astratto di umanità, eliminando ogni corpo o appartenenza intermedia, dunque occorre innanzitutto riformulare l’idea di cittadinanza. La democrazia illiberale ipotizzata da De Benoist è la dottrina che separa l’esercizio classico della democrazia dai principi dello Stato di diritto. La sovranità e la democrazia vi giocano un ruolo essenziale, ma non si esita a derogare ai principi liberali quando le circostanze lo esigono.
La democrazia liberale è in realtà la maschera dell’oligarchia economica finanziaria estranea al popolo, tendenzialmente corrotta, una macchina elettorale al servizio dei più astuti, regno degli “esperti”. In tale cornice le nazioni e i popoli non hanno più i mezzi per farsi ascoltare. La stessa sovranità è una parola vuota se mancano per legge – l’ordoliberalismo che penetra e impregna i codici giuridici – gli strumenti per far valere la volontà popolare. Di più: il liberalismo diventa una sequenza di procedure predefinite, che finiscono per dissolvere la coesione sociale e vietare la riproduzione dei valori comuni. Le procedure e i codici affidano ad agenti esterni – finanza, alta dirigenza economica, organizzazioni transnazionali – tutti i poteri. Che senso ha la sovranità, popolare o nazionale, se è rimosso il potere costituente e negato il diritto al cambiamento? L’intuizione “illiberale “di De Benoist “è che il giusto principio non è l’uguaglianza tra gli uomini, ma tra l’uguaglianza politica tra cittadini.
Il ragionamento reagisce alla logica inaugurata da Benjamin Constant, secondo cui tra le “libertà dei moderni” c’è un’autonomia tanto assoluta da divenire diritto di ritrarsi, disinteressarsi della dimensione pubblica. “Il suffragio obbedisce alla regola un cittadino, un voto, non un uomo, un voto”. Di qui l’importanza fondativa di sapere chi è cittadino e chi no. L’illusione liberale di abbattere le frontiere territoriali insieme con ogni altra distinzione diventa quindi il centro dello scontro. Il popolo non ha ragione né torto, ma decide e la definizione di libertà come assenza di costrizione (Hobbes, Constant, Locke) è errata, va sostituita dalla possibilità di partecipare “alla definizione collettiva degli indirizzi politici e dei vincoli sociali. Le libertà, sempre concrete, si applicano a campi specifici e a situazioni particolari.” .
Per il liberalismo, al contrario, la dimensione politica- ovvero lo spazio pubblico comune – è solo una “sfera”. Esso sostiene che la sfera economica deve essere autonoma dalla politica per ragioni di efficienza – la falsa credenza della perfezione del mercato lasciato a se stesso – e per motivi antropologici, giacché la libertà economica affrancherebbe dal “potere sociale”. Economia come regno della libertà, sfera indipendente dalla politica, il cui unico scopo è garantire i cosiddetti diritti dell’uomo, soggettivi, dichiarati naturali ed imprescrittibili. Tali diritti, per il liberale, prevalgono sulla sovranità, che può e deve essere derogata se li contraddice. La democrazia è confusa con lo Stato dei diritti, attraverso cui il principio liberale si rovescia nel suo opposto, “un movimento verso un’uguaglianza sempre più grande, sinonimo di medesimezza.”
Lo Stato di diritto così inteso dissolve la politica sotto l’effetto corrosivo della moltiplicazione infinita dei diritti, che, invocati in continuazione, per lo più come sinonimo di desideri, capricci, stati d’animo, paralizzano la democrazia, impediscono la decisione. Un altro francese, Jean Louis Harouel, è convinto che l’ipertrofia dei diritti perverte lo scopo per cui erano nati, diventando una gabbia per la libertà.  I diritti dell’uomo si convertono in religione secolare suicida per gli occidentali confusi alla ricerca di un orizzonte pseudo-metafisico in cui credere. La legittimità cede il passo alla semplice legalità, al diritto positivo che muta continuamente per seguire la domanda (e l’offerta) di diritti. La sostituzione della politica con i diritti è la leva con cui il liberalismo si è impadronito del potere per consegnarlo ai nemici dei popoli. Infatti, se l’individuo è l’unico sovrano, il popolo non gode di alcuna legittimità e il potere reale viene raccolto dal più forte nella sfera che conta, quella economica e finanziaria.
De Benoist enuncia un concetto chiave: se non è riconosciuta valida alcuna decisione che leda i principi liberali o l’ideologia dei diritti dell’uomo, il liberalismo ammette tranquillamente che la volontà dei popoli non venga rispettata. La realtà quotidiana dimostra la veridicità dell’intuizione, che affonda nel concetto di rappresentanza. Il potere politico non ha il compito di dirigere – quello spetta alla “libera” sfera economica e finanziaria degli interessi formalmente in competizione con la legge del più forte – bensì di rappresentare. La democrazia liberale finisce così per fare a meno del démos, democrazia senza popolo. Infine, se nulla si colloca tra l’umanità e l’individuo, culture, religioni, costumi, popoli, Stati, territori non sono che aggregati provvisori destituiti di valore. L’umanità non è un concetto politico: lo capirono i comunitaristi americani dell’ultimo scorcio del secolo passato. Per Michael Sandel il mondo non è un universo, ma un pluriverso, per cui “i principi universali sono incapaci di fissare un’identità politica comune”.
E’ proprio ciò cui tende il liberalismo: depoliticizzare l’uomo, allontanandolo dalla sua natura di animale politico, componente attivo di comunità che ne definiscono l’appartenenza su diversi piani. La narrazione liberale entra in crisi, significativamente, sul concetto di cittadinanza in presenza di forti pressioni migratorie, che impongono frontiere, la determinazione precisa di chi è fuori e chi è dentro, giacché la democrazia, qualsiasi forma assuma storicamente, implica l’esistenza di una società politica delimitata da un territorio, formata da un popolo legato da comunanza di destino e condivisione di valori. Il multiculturalismo è l’obiettivo liberale perché polverizza definitivamente le comunità, assoggettandole alla governance, cioè a una sorta di amministrazione dall’alto, tesa a un singolare ossimoro, l’organizzazione dell’illimitato. Il limite definisce una misura; l’illimitato è la dismisura che diventa anche indistinzione, accumulazione senza fine, la valorizzazione continua del valore (Marx), in cui ogni ostacolo deve essere abbattuto o negato. E’ il liberalismo contemporaneo a essere illiberale, suggerisce De Benoist.
Ne è convinto un giovane studioso canadese francofono, Mathieu Bock-Coté, per il quale siamo in presenza di un processo storico che porta alla realizzazione della civiltà egualitaria. Il paradosso è che l’unica uguaglianza vietata resta quella delle opportunità economiche. Per Bock-Coté ciò che va posto in discussione è l’ideologia economica che permea ogni aspetto del vivere, accompagnata da un progetto di civiltà espresso nell’immenso movimento “progressista” sviluppato a velocità stupefacente. Liberalismo è la parola omnibus per esprimerne l’essenza. La rottura, quando ci sarà, avverrà sul versante dei principi. La democrazia liberale contemporanea è inseparabile dallo sviluppo dei monopoli privati. La diversità rivendicata come diritto dispiega un processo storico di riconoscimento di categorie sociali o identitarie discriminate che irrompono nella vita pubblica per affermare il loro diritto all’uguaglianza. Tante singolarità diversamente identiche sotto l’ombrello dei diritti umani, unite dal primato delle emozioni sull’ordine morale, un cambiamento profondo di civiltà che non si può arrestare senza rivolgersi contro se stesso.
L’autodistruzione sembra il destino della società liberale, e ne rappresenta il fascino più potente agli occhi degli occidentali, formati al relativismo senza freni. Dalla dissoluzione delle nazioni all’abolizione dei confini, dalla decostruzione delle appartenenze tradizionali e dalla mancanza di differenziazioni di ruoli e di sesso, dalla disincarnazione di padre e madre, ridefiniti come genitori 1 e 2 intercambiabili (e anche 3 o 4), tutto corre verso un cambio di civiltà. Gli ex cittadini sono trattati come una popolazione da formattare terapeuticamente. Essenziale, per Bock-Cotè, è il ruolo della filosofia della decostruzione; Deleuze, Foucault, Guattari, Derrida, i pilastri negativi della postmodernità, risolta in una frammentazione infinita di soggettività, icasticamente visibile nella sigla pansessuale LGBTQI+, estesa alla Q (queer), alla I (intersexual) cui è aggiunta la variabile +, presente anche nel simbolo del transumanesimo. Mobilitano tutte le risorse dell’alfabeto e dell’immaginazione in un processo tendente all’ entropia, cioè all’autodistruzione.

Conclusione
Il progressismo non è il pretesto, ma lo scopo definitivo dell’ideologia liberale, grazie al suo carattere affermativo (i diritti, il primato delle emozioni), alla sua dimensione morale invertita che inclina all’anarchia etica, all’indifferentismo dei valori. L’utopia iperliberale è l’indispensabile copertura della sua follia economica (il progetto di dominio delle oligarchie private) e la mania dell’uguaglianza “diversitaria” ne è la liturgia moralistica. La contraddizione è enorme come la fragilità psicologica dei suoi seguaci più recenti, l’estenuata, diafana generazione “fiocchi di neve” (snowflakes), e fa presumere che il presente sia il fragoroso preludio del crollo finale.
Lo storico delle civiltà Arnold Toynbee, tutt’altro che un nemico dell’Occidente, giacché lavorò a lungo negli apparati riservati britannici, al termine della ricostruzione morfologica di almeno venti civiltà diverse, prese atto che i grandi cambiamenti tecnologici furono sempre un elemento di svolta storica. Questo è ancora più vero adesso, con la potenza tecnica divenuta devastante, in mano a colossali gruppi privati che dominano sugli Stati, potenzialmente incontrollabile per la sua inestricabile complessità.
Il mondo liberale vive il suo momento di maggiore successo, ma se ne intravvedono le crepe nella crescente incapacità di rispondere alle domande di protezione, benessere e stabilità di gran parte dell’umanità. L’opposizione intransigente che dobbiamo animare avrà successo non se riuscirà a esprimere un diverso modello socio economico, ma se metterà in campo un universo valoriale alternativo, tratto dalla tradizione, dall’anima profonda di ciascun popolo e dalla concreta rivolta ideale di milioni di esseri umani in cerca di riscatto dalla condizione di individui /oggetti, desiderosi di riappropriarsi della dimensione di persone, cittadini, membri delle loro comunità, e se recupererà la dimensione spirituale che ha abbandonato gli uomini d’ Occidente per la prima volta in millenni di storia.
Occorre un rinnovato “principio responsabilità”, nei confronti del creato, della specie, del futuro, un ritorno sereno al reale, al limite, al senso dell’esistenza, all’apertura alla trascendenza e un orizzonte di vita concreta che non si esaurisca nella drammatica triade produci, consuma, crepa, secondo volontà e tempi dettati dai gruppi dominanti. La libertà è una cosa seria, come la vita: bisogna sottrarla alla ragnatela liberale. Abbiamo idee e forze; manca drammaticamente la capacità di unirle, di andare oltre il brusio indistinto, incapace di diventare rumore di fondo. Soprattutto, serve una radicalità intransigente, l’obiettivo di rovesciare il tavolo, il coraggio di provarci in mancanza del quale tutto si risolverà, al massimo, nel cambiare le sedie a sdraio sul ponte del Titanic, servire Pepsi anziché Coca Cola.

 

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