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01/4/20

 

Bob Dylan, messaggio: John Kennedy, contro il coronavirus

 

The Greatest, si auto-celebrò il giovane Cassius Marcellus Clay, non ancora Muhammad Alì. Figlio di un pittore di insegne pubblicitarie. Figlio adottivo del ladro che gli rubò la bicicletta nuova, che il padre – il pittore di insegne – gli aveva appena regalato, per il suo compleanno. E figlio anche di Joe Martin, il poliziotto di Louisville a cui baby-Cassius si rivolse, in lacrime, per il terribile furto. Va bene ragazzo, domani passa in ufficio per la denuncia. Ma se poi lo incontri, il ladro, sei capace di spaccargli la faccia? No, scosse la testa, sconsolato, il piccolo monello. E allora, gli disse Joe, ti aspetto nella mia palestra di boxe. Fu il primissimo passo, per poi diventare The Greatest. Mike Porco, from Italy (Calabria, per la precisione) era il nome del gestore del Gerde’s Folk City, il locale del Village dove il giovanissimo Bobby si beveva le serate, di birra in birra, ascoltando gli strimpellatori che vi si esibivano. Un giorno si fece avanti: anch’io so suonare qualcosa. Mike lo mise alla prova, nel pomeriggio, mentre le ragazze lustravano il pavimento. Lo propose a John Lee Hooker, che era atteso nei giorni seguenti. Quindi, in vista dell’evento, gli procurò dei jeans puliti.

 

Venne la sera fatidica, e tutto andò per il meglio. John Lee Hooker disse a Mike Porco che il ragazzino del Minnesota se la cavava eccome, con la sua armonica. Allora Mike gli regalò una serata morta, tutta per lui. Non c’era quasi nessuno, nel pubblico, tranne un tizio dall’aria un po’ distratta, forse persino alticcio. L’indomani realizzò che l’avventore assonnato, con quel nome altisonante – Robert Shelton – s’era dato da fare. Il suo giornale, il “New York Times”, annunciava che al Gerde’s era nata una stella. Virtualmente, nel suo campo, The Greatest. Ora che il mondo trema per il virus e seppellisce i suoi caduti, ecco che l’uomo del Minnesota, l’antico folksinger, fa un’uscita in solitaria e mondiale, nel suo stile, con una ballad regalata a tutti, urbi et orbi, lunga minuti 17 (meno quattro secondi). Un’omelia lentissima e dolcissima, in morte di John Kennedy e di tutta l’innocenza planetaria che morì insieme a John Kennedy, le indicibili speranze di un’umanità che sembrava si stesse pericolosamente risvegliando. Una sciarada di capolavori uno sull’altro, di nomi leggendari e memorabili, promesse, spettacolari acrobazie mai viste prima, e mai più viste. La consapevolezza del momento: la musica, in fondo all’anima del mondo, in quel miracoloso attimo in cui divenne musica persino la politica.

 

Era semplicemente troppo, suggerisce la ballata. Ma se io sono ancora qui tra voi, alla mia età – dice l’autore, il menestrello – allora ve lo racconterò. Non è possibile dimenticare l’accaduto, non è possibile che non torni a vivere. Non è possibile non essere inondati dall’eco di quel lampo, di quell’istante irripetibile. Bisogna renderlo immortale, resuscitarlo tra i caduti del coronavirus, e trasformarlo in arma formidabile. Conosce l’arte di qualsiasi Antigone, l’autore. Gli han conferito pure il Premio Nobel, alla gloria dei suoi settantanove anni a maggio. Parla di sacrifici umani, la morte più cattiva. Evoca numeri ben noti al chiaroscuro, il 6 e il 9. E non teme di menzionare il 33, citando la crocifissione filmata da Zapruder sulla Dealey Plaza. Che è come dire: so chi è stato. Certo che sa chi è stato, il ragazzo di Duluth. L’ha capito da un pezzo. Sa anche che era gente della stessa razza che, tanti anni dopo, probabilmente, ha fatto crollare le Twin Towers. E forse sono ancora loro, sempre gli stessi, a trafficare oggi col coronavirus? Sembra suggerirlo a modo suo, con la sublime reticenza dei grandissimi, uscendosene con la sua ballad su John Kennedy, esattamente adesso, come se Jfk fosse una specie di sciamano, di talismano contro il male.

 

Dal menestrello può solo imparare, il cinema, a sceneggiare vita e morte – only a matter of minutes, tra il prima e il dopo, e il mentre – quando si spappola la fisica e ogni singola molecola, ogni porzione del cervello di John Kennedy sembra tornare qui tra noi, a raccontare – con letizia misteriosa – lo splendore sterminato di chi osa guardare il mondo con amore, l’invincibile segreto che oggi più che mai viene in soccorso dell’umanità smarrita, terrorizzata dalla pandemia. L’elencazione ellittica, specialità retorica di aedi raffinati, sdraia la ballad in mezzo a nostalgie, tra monumenti museali dell’America che fu – con un’unica eccezione, Freddie Mercury, citato come per lasciare un segno a chi volesse coglierlo, bianco come lo strano guanto dell’ectoplasma Michael Jackson – we are the World, remember? We are the World, sicuro. Noi, non loro. E’ questo che sussurra l’amletica ballad sterminata del ragazzo del Nord, “Murder Most Foul”, chiedendo a tutti di specchiarsi per un attimo in quel cervello esploso a Dallas, lungo la New Frontier di tanti anni fa, quando una neve nera cominciò a cadere, per la prima volta. Questo è il momento, sembra dire oggi. Sapete, spetta a noi. Ora, di nuovo, tutto può accadere.

 

Giorgio Cattaneo, 1° aprile 2020. Il brano “Murder Most Foul” è stato pubblicato sul sito di Bob Dylan il 27 marzo 2020, in piena emergenza coronavirus, accompagnato da queste parole: «Mettetevi al sicuro, state attenti, e che Dio sia con voi». Evidente, nel titolo, il richiamo a William Shakespeare: nella scena 5 dell’Atto Primo di “Amleto”, ricorda Luca Mastinu su “Optimagazine“, lo Spettro pronuncia queste parole: «Murder most foul, as in the best it is. But this most foul, strange and unnatural». Nella scena, un gruppo di attori mette in scena la rappresentazione Trappola Per Topi per il re di Danimarca. «Il “murder most foul”, tradotto letteralmente, è l’omicidio più atroce». La stessa espressione, aggiunge Mastinu, fu usata nel titolo di un thriller del 1964 di George Pollock, che in Italia venne tradotto “Omicidio sul palcoscenico”. John Fitgerald Kennedy venne assassinato a Dallas il 22 novembre 1963 da uomini della mafia di Chicago reclutati dalla Cia. Del complotto erano al corrente l’Fbi e il vicepresidente Lyndon Johnson. Lo ha ammesso, in punto di morte, anche l’allora numero due della Cia, Howard Hunt. A sparare a Kennedy fu il mafioso Charles “Chuck” Nicoletti. Il colpo di grazia – che gli fece esplodere il cervello – fu sparato da un secondo killer malavitoso, James Files, reo confesso, tuttora detenuto negli Usa per altri reati e mai interrogato sulla vicenda. Nella ricostruzione di Dylan, si legge: «I tuoi fratelli stanno arrivando, ci sarà un inferno da affrontare». Risponde Kennedy: «Fratelli? Quali fratelli? Quale inferno?».

 


Video: Bob Dylan - Murder Most Foul (Official Audio)


https://www.optimagazine.com/

31 Marzo 2020

 

Un tentativo di esegesi per Murder Most Foul di Bob Dylan, un colpo di pistola che echeggia ancora

di Luca Mastinu

 

Pochi mesi dopo l'attentato di Dallas in cui trovò la morte JFK, Bob Dylan visitò quei luoghi per condurre un suo personale reportage. Oggi ce lo ripropone

 

Mentre ascoltiamo e spacchettiamo Murder Most Foul di Bob Dylan ci piace immaginare il cantautore di All Along The Watchtower sotto l’occhio di bue di un palcoscenico che dà su una platea vuota.

Questo, in sostanza, è ciò che ha fatto Dylan dopo 8 anni di silenzio. 17 minuti di musica e parole che si insinuano nelle nostre case.

 

Mentre attendiamo, questa volta, abbiamo l’occasione di ripassare un po’ di storia. Murder Most Foul di Bob Dylan è un documentario in musica, una prosa piena di figure, luoghi e personaggi che il poeta riassume per riportarci indietro con prepotenza. John Fitzgerald Kennedy moriva a Dallas il 22 novembre 1963 e i momenti dell’attentato rimasero immortalati in tantissimi filmati e scatti d’epoca.

“Dov’eri tu quando uccisero Kennedy?” fu la domanda che tutti rivolsero a chiunque per diversi anni, e in Simpathy For The Devil dei Rolling Stones Mick Jagger esorcizzò la paura con la frase: “Ho urlato: ‘Chi ha ucciso i Kennedy?‘ quando in realtà siamo stati voi ed io“.

Il titolo amletico

Dalla pubblicazione a sorpresa di Murder Most Foul di Bob Dylan tutte le testate nazionali si sono precipitate a trovare una spiegazione, e se vogliamo questa spiegazione è semplice: Dylan contestualizza quel 22 novembre 1963 in tutto il territorio politico e storico, e ovviamente nell’impatto sulla cultura mondiale.

Lo fa, Bob, scegliendo un titolo che attinge dalla letteratura britannica più classica, quella di William Shakespeare che nel suo Amleto, più precisamente nella scena 5 dell’Atto Primo, quando lo Spettro pronuncia queste parole: “Murder most foul, as in the best it is. But this most foul, strange and unnatural”.

Nella scena un gruppo di attori mette in scena la rappresentazione Trappola Per Topi per il re di Danimarca. Il murder most foul, tradotto letteralmente, è l’omicidio più atroce e la stessa espressione fu usata nel titolo di un thriller del 1964 di George Pollock che in italia venne tradotto come Omicidio Sul Palcoscenico.

Perché ci ritroviamo con una canzone sull’assassinio di Dallas oggi, nel 2020 e in un periodo storico in cui il mondo intero è chiuso in casa per la quarantena imposta dai governi per combattere il Coronavirus? Oppure, per dirla come Lettera43: “Caro Dylan, cosa vuoi dirci con Murder Most Foul?”. Probabilmente non lo sapremo mai, ma va bene così.

 

 

Bob Dylan e l’attentato di Dallas
“It was a dark day in Dallas, November ’63
A day that will live on in infamy
President Kennedy was a-ridin’high
Good day to be livin’ and a good day to die
Being led to the slaughter like a sacrificial lamb
He said, ‘Wait a minute, boys, you know who I am?’
‘Of course we do, we know who you are!’
Then they blew off his head while he was still in the car”

Non si perde in chiacchiere, Bob Dylan, e parte con la collocazione spazio-temporale del suo racconto: novembre ’63, buio, Dallas. Dal primo versetto Kennedy muore come un agnello sacrificale e per raccontare il fatto il cantautore si serve del registro cinematografico: “Gli hanno fatto saltare il cervello mentre si trovava ancora in macchina”.

Nello stesso versetto Dylan dà voce a chiunque avesse pianificato l’omicidio: “Siamo venuti a riscuotere; ti uccideremo con odio, non avremo alcun rispetto”, parole simili a colui che il 24 novembre si sentì in diritto di vendicare il Presidente, quel Jack Ruby che sparò a Lee Harvey Oswald nel seminterrato della stazione di Polizia.
“The day they blew out the brains of the king Thousands were watching, no one saw a thing”
JFK diventa “king”, un “re” al quale fecero saltare il cervello in un giorno in cui “tutti guardavano e nessuno vide”, e qui il colpo di pistola viene esploso da Bob Dylan come per sottolineare l’omertà e la vigliaccheria che ancora oggi aleggiano intorno alla vicenda.
“Wolfman, oh wolfman, oh wolfman howl Rub-a-dub-dub, it’s a murder most foul”
Si suppone che in questo versetto Bob Dylan faccia riferimento a Wolfman Jack, un disc jockey dell’epoca dalla voce roca, quasi una figura che rappresenta il rumore mediatico della vicenda.

La collocazione temporale e il finale
Poco dopo l’attentato Bob Dylan aveva ancora 21 anni e decise di visitare quei luoghi a bordo della sua auto, come per condurre un’inchiesta personale. Ce la ripropone oggi e lo fa attraverso istantanee sonore: cita i Beatles e passa ad Another One Bites The Dust dei Queen, cita Woodstock e passa a Nightmare On Elm Street, portandoci a bordo del suo vascello con gli occhi di “bragia” come Caron Dimonio per farci esplorare il tempo.
Alla fine del suo recitativo Bob Dylan sceglie per noi la colonna sonora di questo viaggio e arriva anche ad invocare la Moonlight Sonata per poi concludere, ovviamente, con la sua Murder Most Foul.
Murder Most Foul di Bob Dylan è quella narrazione gentile di un mondo che gentile non è, e lo capiamo con quel registro schietto e cinematografico, quella personalità verace che ci ha fatto amare il poeta dai primi schianti della sua carriera.

 

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