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20 luglio 2020

 

Gary Snyder. Un beat in India

di Matteo Meschiari

 

Settembre 2004. Il fuoristrada arriva quando la luce sta per mancare. Riserva di Monte Rufeno, Acquapendente. Da Roma fin qui, in uno stancante pomeriggio di dopo interviste e firmacopie, drogato da ore di autostrada e strada statale e strada bianca, Gary Snyder arriva in un casale nel bosco, Il Felceto, e di lì sulle pendici del monte verso la capanna che Alessandro Fani, carbonaio, ha costruito per mostrare a turisti e scolaresche ciò che abbiamo perduto. La macchina riparte, scricchiolare di foglie secche, di stecchi sotto le scarpe, luci sempre più grigie. Un cerchio di curiosi, di devoti, di a caso. L’interprete fa come può, Fani e Snyder cominciano a parlare tra loro, del taglio del bosco, dell’economia del bosco, della bellezza del bosco. Sorrisi. Risa. Chi fa sì con la testa e intanto capisce solo bocca, non parole. E ha ragione. È tutto così strano. Nel liquido amniotico del bosco e dell’ora, l’irrealtà dell’incontro tra un poeta e un carbonaio fa venire i brividi. Mentre a Mantova gli scrittori facevano prendere al pubblico caffè da 8 euro, a Acquapendente due vite resistenti tentavano un improbabile incontro. Beat Generation, Dharma, Green Anarchy. E dall’altro lato decenni di legna verde e nera, di terra e foglie da ammassare sulla catasta, il pennato per tagliare rami e intagliare oggetti, fare fuoco, combattere vento, poi la fine di un mondo, la vecchiaia, e un fortunoso ritorno alla poesia delle mani e degli occhi per dare ragione a chi comincia a credere nelle bioregioni, nella lotta per la «sanità delle prime cose», e per il nostro celebrare troppi funerali alla Terra.

 

Lontano dai festival della letteratura, due uomini classe 1930, con una violenta capacità di parlare al malessere del presente, sorridevano dentro una capanna di legno e ginestra.

Sono andato a cercare Carole Koda e Gary Snyder nella casa che alcuni amici di Acquapendente avevano offerto per eludere le tre stelle degli alberghi. Io avevo dormito su un sottile materasso srotolato in terra, da Claudio e Anna, nella cameretta di Elias e Alice. Una grande casa con un giardino pensile, un albero di prugne, un nocciolo, un cane nero e un gatto. Qualcosa di perfetto. E ho negli occhi quegli occhi così chiari: Alice è una delle cose buone della vita, mi sono detto, quelle che ti fanno venire voglia di diventare padre, o di scrivere poesie per i bambini: «state assieme / studiate i fiori / viaggiate leggeri». Carole è adesso in piedi con le mani sul tavolo, come se non volesse partire, racconta di come ha comperato a gesti una grande fetta di dolce locale, ricotta e uvetta. Parla e non si muove, ma i bagagli sono vicino alla porta. Gli Snyder sono pronti. Prendo una valigia e Gary mette in spalla uno zaino squadrato, grigio. Le gambe gli si flettono sotto. Mi viene un brivido. A lui non piace parlare di Japhy Ryder ne I vagabondi del Dharma di Kerouac, forse non vuole essere ricordato attraverso Kerouac, forse ne ha solo abbastanza delle solite domande da intervista. Tra le tante cose, mi dirà che da tempo guarda alla Beat Generation con un distacco «cinico».

 

Ma Kerouac dice due o tre cose del corpo di Snyder ventenne che sono sempre là, nel vecchio di settant’anni: «vidi Japhy che avanzava con quella sua strana lunga falcata», «portava una barbetta a pizzo, aveva un’aria stranamente orientale con quei suoi occhi verdi quasi obliqui», «era vigoroso, abbronzato, robusto, aperto». Ho avuto un brivido. Come quando ti rendi conto che sei sveglio ma che puoi svegliarti ancora di più, e che la mente può ardere di cose come gli occhi di una persona. E allora ti senti a casa nel Grande Fuori.

 

Una collina come un puro semicerchio, linee di pini marittimi come alberi cosmici. È difficile credere che sia un mondo artificiale. Solo un ambizioso surplus economico ha reso possibili opere così vaste, modificare il paesaggio esterno per modificare quello interiore. Ere di tufo scavate da generazioni di scalpellini, per unire le città dei vivi a quelle dei morti, intestini di pietra da percorrere a piedi, con rituali che acceleravano e rallentavano secondo i ritmi peristaltici della Terra. Pitigliano, Sorano, Sovana. Etruschi, Australiani, Magdaleniani. Snyder appoggia le mani sopra un grande blocco squadrato, come a misurarne la temperatura, siamo alla Tomba Ildebranda. Quelle mani da scalatore saggiano con i polpastrelli le lievi concavità, la grana, carezzano le papille del grande stomaco geologico. E la conversazione passa dall’Oceania al Libro Tibetano dei Morti, e si tinge per un po’ dei colori di Lascaux.

Scendiamo nella tomba ipogea esattamente sotto al tempio. Siamo sull’asse che unisce l’inferno al paradiso, e che ne annulla la dialettica morale.

 

Rivediamo genti che vivevano l’ecologia del loro mondo come un sistema cosmico, e che guardavano al cosmo né più né meno che come a un ecosistema. Ci chiediamo che senso abbia tutta questa letteratura antropologica che si legge come qualcosa di semisacro, come ausilio non confessato a un nuovo pensare il sacro, ci chiediamo quanto del primitivo abbia valore oggi, quanto di primario si possa ancora trovare nel percorrere a piedi un terreno che per altri era un luogo di potere. Il ruscello sotto il ponticello di legno separa il parcheggio dal sito archeologico. Non c’è alcun senso, nessuna connessione tra i due mondi. Tranne un ponticello di legno che oscilla sotto i piedi di poche persone, finalmente stanche di parlare.

 

«Il fuoco è una storia antica. / Vorrei, / con un utile sentimento di ordine / con rispetto delle leggi / della natura, / aiutare la mia terra / con un incendio. Un caldo / incendio pulito». Il ristorante è molto più anonimo di quello di ieri sera. Mangiamo per il piacere di farlo, nessuno di noi ha veramente bisogno di nutrirsi dopo ieri sera. Ma mangiamo lo stesso, e beviamo parecchio vino rosso, e allora diventa più facile capirsi, soprattutto sentirsi. Carole e Gary vivono in una bella casa nei boschi della California. Io no. Carole e Gary vivono da anni in lotta per le loro idee, in un contesto così dialettico e connotato che lottare è quasi ovvio. Io no. Meditare nei boschi o fare resistenza in città? Quando Carole dice che è fin troppo facile ritirarsi nella natura e che è molto più difficile continuare a credere in sé stessi nella solitudine e nell’incomprensione della città, mi si riempiono gli occhi di lacrime.

 

Incrocio per un attimo quelli di Snyder, che ascolta, e gli angoli di quegli occhi, verdi e obliqui, Matterhorn e peyote, mi sorridono. Da quando sono tornato ho smesso di cercare risposte, ma è vero che qui in città mi chiedo ogni giorno come imbrigliare le mie debolezze per raggiungere una maggiore consapevolezza, come trasformare l’entusiasmo di ore speciali in una tecnica di sopravvivenza poetica che finalmente faccia della mia vita qualcosa di utile per me stesso e per i miei. Mi chiedo anche come accendere quel fuoco controllato, al di là della passione e della pigrizia, così vicino e così lontano dalla ricerca di una terra sotto i piedi, più urgente che mai. Nel pomeriggio, mentre Carole riposava, Snyder si è seduto sulla panca dell’agriturismo dove di notte dormono i gatti. E parlava di un Giappone che non c’è più.

 

Non c’è nulla di più odioso dell’autoracconto, se poi l’essenza di ciò che si è vissuto non torna a immergersi nel vissuto. L’ho capito quell’ultima notte a Pitigliano. Gli Snyder dormivano da ore, io ero sdraiato sul letto, quando ecco, la mia coscia viene irrorata da una specie di nebbia umida. Penso a un getto di irrigazione notturna nel giardino, nebulizzato dalla zanzariera, ma un rumore di tegole smosse arricchisce il quadro. Comincio a capire. Passo la mano sulla coscia e la avvicino al naso. Piscia di gatto. Un gatto mi ha pisciato addosso attraverso la zanzariera. Lavarsi è facile, ma per tutta la notte il fetore che ha impregnato il cotto del davanzale e le lenzuola mi ha bruciato la gola. Rabbia. Risa.

 

Wilderness felina e il bianco riso di Shiva. Per quanto mi riguarda, la morale è qui: puoi amare un poeta autentico fino alla tenerezza, ma i suoi libri sono soltanto un modo per marcare il territorio, il suo territorio. Mentre tu dormi con un odore di muschio sulla pelle, lui sta scorrazzando al buio, nei boschi, in cerca di topi e di gatte da sedurre. Credo che comprendere il valore della fine sia una forma di poesia. Non ha a che fare con la misura, ma col rendere di nuovo al nulla quello che dal nulla è venuto. Solo se si allarga la mano che cerca di trattenere ci si libera da quel po’ di noi stessi che invoca compassione. Ma ovviamente è molto difficile separarsi da chi ha provato compassione per te.

 

Andandosene, Snyder mi ha chiesto di continuare. Mi ha proposto di tradurre Mountains and Rivers Without End. Ho detto di sì. Non l’ho mai fatto. Ma l’odore di quella richiesta selvatica non se ne va.

 

Questo testo è la postfazione al volume di Gary Snyder, In India. Viaggio di un poeta da giovane, traduzione e cura di Anna Castelli, in uscita in questi giorni per Milieuedizioni, che ringraziamo.

 

 

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