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21 giugno 2019

 

Silvia Romano, la pista del rapimento per vendetta: “Aveva denunciato casi di pedofilia”

di Massimo A. Alberizzi

 

Di Silvia non si sa niente dal momento della sua scomparsa. Sparita nel nulla. A parte il silenzio stampa chiesto dalla Farnesina – un atteggiamento di routine che serve più a mantenere segreti inconfessabili che a salvaguardare la vita degli ostaggi, o l’inquinamento delle relative indagini – in questi casi si riesce sempre ad avere qualche informazione. Questa volta no. Niente.

 

“Scusi, ma Silvia Romano ha dormito qui?”. La signora indiana che gestisce la guest-house Marigold, nel caotico centro di Mombasa, non solo è gentile, ma collaborativa. Così, dopo averle spiegato perché stiamo indagando sul rapimento, chiama subito il figlio Aash Sahiko che si presenta con i registri degli ospiti. Dopo una veloce ricerca, arriva la risposta: “Sì, è stata qui il 22 settembre e la notte tra il 5 e il 6 novembre”. Hillary Duenas, la collega americana che mi accompagna in questo viaggio (e che sarà molto importante nell’aprire bocche apparentemente cucite), chiede e ottiene il permesso di fotografarne le pagine. “Silvia è venuta qui sola?”, domandiamo. “Certo”, rispondono madre e figlio. “Ha pagato il prezzo della camera singola. È arrivata, ed è ripartita, sola”. Aash Sahiko se la ricorda bene: “Una bella ragazza così resta impressa. Ero contento quando l’ho poi rivista a novembre”.

 

Proprio la sera del 20 novembre, a Chakama, in Kenya, Silvia Romano sparisce. “Ma è venuto qualcuno della polizia keniota o agenti italiani a chiedere informazioni su Silvia?”, chiediamo ad Aash Sahiko. “No, nessuno. Quando abbiamo saputo del rapimento della ragazza, pensavamo di ricevere la visita di qualche investigatore… ci siamo meravigliati: non è comparso nessuno”.

La prima cosa che salta agli occhi cercando le tracce di questa ragazza di 23 anni è che le indagini sono state carenti, che c’è una competizione tra le varie polizie dell’ex colonia britannica, e tra queste e l’esercito che si è occupato di scandagliare tutto il territorio al confine con la travagliata Somalia. Ci chiediamo io e la collega Hillary: com’è possibile che nessun inquirente si sia fatto vivo per verificare che la ragazza fosse sola? Silvia, bella, giovane e dinamica, non poteva non attrarre attenzioni. Erano in tanti a farle la corte o addirittura a dichiararle amore, come Alfred Scott un fisioterapista dell’ospedale di Mombasa che su Facebook proclama di essersi innamorato di lei.

 

Tre le ipotesi sul rapimento su cui lavora la polizia di Nairobi – Alla polizia di Nairobi, vengono formulate tre ipotesi: sequestro per ottenere un riscatto; sequestro per tapparle la bocca su accuse di pedofilia di cui sarebbe stata testimone a Likoni; sequestro per mettere a tacere un caso di molestie a Chakama, un villaggio nell’entroterra di Malindi.

 

Silvia arriva per la prima volta in Kenya il 22 luglio dell’anno scorso. Aveva conosciuto un italiano, Davide Ciarrapica durante una festa di beneficenza. Il 31enne di Seregno gestisce un centro per bambini a Likoni, un villaggio separato da Mombasa da un braccio di mare che si può superare con un traghetto. La ragazza intravede la possibilità di fare qualcosa a favore dei più deboli. Così, quel giorno, si imbarca per Mombasa con lui.

 

Imbarazzante una dichiarazione rilasciata verbalmente da Ciarrapica a un detective keniota. Impossibile per me riportare qui i particolari scabrosi. Riferisce costernato l’investigatore: “Senza alcun pudore Davide, durante un colloquio il 15 maggio scorso, racconta che Silvia, durante il viaggio in aereo, gli è saltata addosso. Piuttosto strano, mi è sembrato un modo per screditarla ai miei occhi. Io non gli ho creduto”.

 

Silvia resta all’Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre di Davide per un mesetto, poi torna a Milano. Il 5 novembre rientra in Kenya. All’aeroporto di Mombasa, la attende Ciarrapica. Insieme vanno a Likoni, lei ci resterà poche ore: a fine giornata torna a Mombasa e si ferma a dormire al Marigold (come testimoniano i registri della guest-house). La mattina dopo corre a Chakama, insieme a due nuovi volontari appena arrivati ad Africa Milele, la onlus per cui lavorerà.

 

Inseguendo gli ultimi passi di Silvia: nel villaggio di Likoni

Nel centro di Likoni ci dà appuntamento una mamma che conosceva bene Silvia. Quando le chiediamo di raccontarci qualcosa della permanenza della ragazza quaggiù, scoppia in lacrime: “Le voglio bene, le voglio bene. Spero che torni presto. Io avevo tre bambine in quella struttura, poi le ho ritirate”. Perché? “Accadevano cose poco corrette e imbarazzanti. Tornate a casa, le mie figlie riferivano di strani atteggiamenti di Davide e del suo socio, Rama Hamisi Bindo”. Il pianto continua a dirotto.

 

Un keniota che lavorava nel centro di Ciarrapica, racconta: “No, non credo che ci siano stati casi di pedofilia, però un giorno mi hanno allontanato dicendo: ‘Conosci troppi segreti di questo posto. È meglio che tu vada via’. Fui licenziato in tronco”.

 

Una visita all’Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre lascia confusi e stupefatti. Hillary – che tra l’altro è anche medico, e così si presenta a loro – all’entrata viene accolta da una signora che si illumina in volto: “Ah, grazie al cielo, dottoressa. Lei è venuta qui per quella 14enne incinta”. Non è evidentemente così, ma Hillary entra ugualmente, sola. Mi racconterà poi, una volta fuori, di aver visto Davide Ciarrapica arrivare con la sua girlfriend, una stupenda 17enne.

 

Sappiamo che Silvia, dopo la sua prima esperienza a Chakama, rientra in Italia, promettendo a Davide che organizzerà, a beneficio del suo centro, incontri per raccogliere fondi. Cosa che farà in ottobre. Ritorna il 5 novembre e va a Likoni, giusto il tempo per essere accolta freddamente dai bambini, che hanno l’ordine di restare sull’attenti immobili e di non salutarla, e da Davide, che l’accusa di non aver raccolto sufficiente denaro. I bambini qui fanno sempre una gran festa alla gente, specie quella che conoscono e che ha giocato tempo prima con loro. Quei ragazzini restano invece impietriti.

 

“Davide è un collerico irascibile”, racconta un altro ex impiegato. “In Italia recentemente è stato condannato a 6 anni di reclusione e 35mila euro di danni… aveva staccato a morsi un orecchio durante una rissa in una discoteca di Milano”.

 

Ciò che non torna: documenti spariti, una deposizione

Racconta uno degli inquirenti kenioti che sta cercando di dipanare l’intricata matassa: “Abbiamo avuto indicazioni sul fatto che Silvia manifestasse un certo disagio nei confronti della struttura dove, secondo lei, si sarebbero verificate molestie nei confronti dei piccoli ospiti. Quell’organizzazione è guardata con una certa benevolenza dalle autorità locali. Il socio e amico di Davide Ciarrapica, nonché proprietario della villa che la ospita, Rama Hamisi Bindo, è figlio di un famoso politico e gode di protezioni insospettabili”. Trasecolo. “Scusi?”. “Sì, gode di protezioni potenti”.

 

La polizia di Mombasa, secondo il nostro testimone che teme ritorsioni e mi intima per ben tre volte di non pubblicare il suo nome, non è mai intervenuta con la dovuta determinazione per indagare sul caso: “Ecco un rapporto riservato critico sul comportamento di come sia stata condotta l’indagine laggiù”, mormora tirando fuori dal cassetto un documento assai compromettente. Lo leggiamo, ma non ci permette di fotografarlo.

 

Nella sua deposizione del 15 maggio scorso alla polizia, Ciarrapica, che peraltro afferma di essere stato ascoltato dai carabinieri del Ros durante una sua visita in Italia in gennaio, dichiara di aver sconsigliato a Silvia di andare e prendere servizio a Chakama. Eppure, in una email che ho potuto vedere, c’è scritto esattamente il contrario. Anzi, è stato proprio lui a consigliarle di andare.

Ma quello che inquieta di più è che all’aeroporto di Mombasa sono spariti tutti i file su Silvia Romano. Ai visitatori che entrano in Kenya viene scattata una fotografia e vengono prese le impronte digitali. Una procedura che deve aver riguardato anche la ragazza milanese. Perché però nell’archivio della polizia aeroportuale non c’è niente di tutto ciò?

 

Riserva sorprese anche l’archivio della polizia di Malindi. L’11 novembre, nove giorni prima di essere sequestrata, Silvia, dopo aver chiesto consiglio alla presidente di Africa Milele, Lilian Sora, che dall’Italia le dà il suo totale benestare, si reca – con altri due volontari, Giancarlo e Roberta – nella centrale di polizia a denunciare un keniota che per qualche giorno ha soggiornato nello stesso affittacamere in cui da tempo vivono i volontari dell’associazione. L’uomo sarebbe Francis Kalama di Marafa, pastore anglicano: lo accusano di atteggiamenti equivoci nei confronti di alcune bambine. Una ricerca approfondita sui registri delle querele della polizia non porta a nulla. Gli agenti che se ne occupano e controllano i faldoni, allargano sconsolati le braccia. Eppure in un messaggio audio whatsapp, Silvia, che qualcuno dipinge come sprovveduta e che invece si dimostra testarda, legalista e amante della giustizia, racconta con una dovizia di dettagli di essere andata alla polizia e di aver avuto l’assicurazione che Kalama sarà arrestato e “le bambine sottoposte a un test medico”. Particolare assai pesante. La promessa comunque non avrà seguito: Kalama è sparito. Di lui nessuno ha più traccia, tantomeno gli investigatori, né si pensa abbia mai avuto notifica della denuncia.

 

Gli esecutori sarebbero in carcere, e i mandanti? – Uno dei capi della polizia racconta a sua volta che in cella ci sono tre persone: un keniota giriama (l’etnia che abita sulla costa del Paese) dal nome Moses Luari Chende; un keniota di etnia orma (quella accusata di aver organizzato il sequestro), Gababa; e un somalo con un documento d’identità keniota ottenuto illegalmente, Ibrahim. “Loro sanno sicuramente qualcosa, ma sono degli esecutori. Aspettiamo che facciano i nomi dei mandanti”. Già. Hillary mi chiede: “Ma perché il vostro governo non immagina una forma di ‘protezione’ per loro in cambio di informazioni?”. È una domanda a cui non so rispondere. Il poliziotto prosegue nel suo racconto: “L’esercito ha chiuso le frontiere con la Somalia, ma non è stato assolutamente collaborativo sulle indagini. Eppure sono andati anche in villaggi remoti, dove per noi è difficile arrivare…”.

 

Alla centrale di polizia di Malindi scuotono la testa anche a sentire parlare delle autorità italiane: “È venuto qui il console onorario, Ivan del Prete, con un altro paio di persone, ma non hanno fatto granché. Ha chiesto informazioni, come sta facendo lei. Niente di più”.

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