Originale: Counterpunch

http://znetitaly.altervista.org/

7 febbraio 2020

 

Tra quarantena e terremoti: vita in Cina con il coronavirus

di Emily Jane O’Dell

Traduzione di Giuseppe Volpe

 

Non avevo programmato, per la mia lunga pausa invernale, di finire nel mezzo di uno scoppio di coronavirus qui nella Repubblica Popolare Cinese. Il mio piano era di aumentare a cinque volte la settimana, per alcune settimane, i miei corsi individuali di lingue, e poi volare a Da Nang in Vietnam per ritemprarmi prima di tenere i miei corsi primaverili. Invece sono in quarantena nella mia casa nella Cina occidentale, barricata da ogni parte, a osservare il panico del coronavirus spazzare il globo dalla comodità della mia sedia a rotelle e del mio schermo.

Quando sono uscite le notizie a proposito dello scoppio del coronavirus a Wuhan negli ultimi giorni di gennaio, non ho potuto credere di trovarmi gettata nello svolgimento di un dramma globale. Avevo vissuto a Beirut attraverso due dozzine di bombardamenti, ero stata torturata in Oman (salvata dall’ambasciata statunitense) e attaccata da un cane rabbioso nella remota Mongolia. Stanca di traumi mi ero trasferita in Cina lo scorso settembre per una tranquilla vita di contemplazione, di addestramento nel tai chi con maestri di kung fu dei monasteri taoisti montani del Sichuan. Ora, improvvisamente, mi trovavo a solo otto ore di treno da una possibile pandemia. Sono scattata in modalità crisi e mi sono assicurata di far scorta di rifornimenti per il caso che le cose vadano per le lunghe.

Avevo già un arsenale di mascherine, perché quando mi sono trasferita qui ero preoccupata per l’inquinamento invernale. Avevo anche occhialini e guanti di gomma dagli Stati Uniti; ho visitato circa 60 paesi e cerco sempre di essere preparata a ogni eventualità. Per le provviste ho girovagato nel nostro mercato dei contadini locali, dove gli agricoltori vendono frutta e verdura dal retro dei logo camion, e mi sono riempita di cavolfiori e carote. Tutto appariva gestibile, fino a quando i numeri hanno cominciato ad aumentare e i mass media internazionali si sono impossessati della vicenda, scatenando una pestilenza di panico che ha introdotto uno scoppio di razzismo e xenofobia antiasiatici.

La “Cina” che ho visto descritta in termini razzisti sinofobi e antiasiatici sui media occidentali non era quella in cui stavo vivendo. Ogni giorno della mia incredibile permanenza qui in Cina sono dipesa dalla generosità, gentilezza e compassione di colleghi, amici e studenti cinesi e stranieri, e sono rimasta onorata da quanto le persone sia disposte a darsi da fare per aiutarmi. Battute razziste a proposito di asiatici sporchi e di zuppa di pipistrello (il famigerato video che circola sui media sociali è stato girato in Micronesia, non in Cina) e il crudo disprezzo per la sofferenza di tanti fanno davvero male: una forma di pericolo giallo del ventunesimo secolo. Prima di rendersene conto, ha detto un amico statunitense, butteremo tutti i cinesi in campi di concentramento (proprio come facemmo con i giapponesi). Non sono solo gli Stati Uniti: sentimenti anticinesi stanno montando anche in Europa, Corea del Sud e Filippine.

Servizi sensazionalistici su mercati di selvaggina come quello di Wuhan dove si ritiene che il virus sia emerso, trascurano ogni contesto storico e culturale a favore di logori luoghi comuni razzisti: guarda quella povera gente sporca che mangia roba disgustosa. Articoli culinari insoliti, naturalmente, derivano dall’adattamento all’assunzione di scarse calorie, e carestie hanno definito molti periodi della storia cinese imperiale e moderna. Molti statunitensi non si rendono conto che persone molto vecchie in Cina hanno sperimentato la Grande Carestia, e anche le generazioni successive hanno lottato per avere accesso a un’alimentazione adeguata.

La carestia è citata spesso nella vita quotidiana, come nel caso di professori che citano quanto siano diventati più alti i loro studenti negli anni grazie a un’alimentazione migliore e spiegano che ci si aspetta che le spose cinesi diventino magre il giorno del loro matrimonio, perché l’ideale del corpo (che sta diventando sempre più irrealizzabile grazie al cibo confezionato) è radicato in un passato di fame. La maggior parte dei cinesi evita le proteine insolite dei mercati della selvaggina che sono considerati come fonti alimentari d’emergenza dai duri giorni del passato, non scelte alimentari quotidiane del giorno d’oggi. Molti cinesi hanno anche sollecitato sui media sociali il divieto di questi cibi e hanno condannato i loro compatrioti che hanno abbandonato, e ancor peggio ucciso, animali domestici per idee disinformate riguardo al virus, che non può essere trasmesso a gatti o cani.

Contraria io stessa alla carne, sono stata seduta di fronte a non cinesi negli Stati Uniti e in giro per il mondo che banchettavano a coscette di rana, lumache, polpette di cammello, testicoli di montone, ravioli di cavallo, squalo fermentato, e foie gras e sono rimasta orripilata; ovviamente i doppi metri sono ingiusti. Anche se lo stereotipo è che la Cina sia piena di strade lorde di resti di animali, la realtà è che io trascorro le mie cene settimanali fuori mangiando cibo deliziose e nutriente: delizie vegetariane cinesi, piatti indiani privi di carne, pizza statunitense e persino burrito Tex-Mex (con guacamole assassino).

Le accuse razziste che i cinesi non abbiano rispetto per l’ambiente o la vita selvatica si scontrano con la realtà che io vedo ogni giorno nel campus, nei nostri centri locali di salvaguardia dei panda nella provincia del Sichuan e presso i lussureggianti, finemente progettati templi taoisti qui nella Cina occidentale dove vado a rilassarmi e a fare tai chi. In effetti ho insegnato un intero corso sulla natura questo autunno in Cina, dall’antropocene, all’anti-natalismo e oltre. I miei studenti hanno scritto saggi convincenti sulla difesa della vita selvatica, sulla salvaguardia dell’Amazzonia (il polmone del mondo!), sul rallentamento dell’urbanizzazione e sulla riduzione della nostra impronta carbonica. Hanno anche scritto della bioetica dello sviluppo di bambini progettati, di corpi cyborg post-umani e di interfacce cervello-computer. La minaccia apocalittica del cambiamento climatico sta rendendo ambientalisti giovani di tutto il pianeta, e la Cina non fa eccezione.

Per ora, tuttavia, la realtà è che sono in quarantena nella mia casa per evitare di contrarre il coronavirus e ogni volta che esco il mio ambiente locale sembra cambiare. All’inizio si è trattato dei cancelli del nostro complesso chiusi con grandi pannelli di legno, salvo un cancello che ora è controllato da un lungo tavolo pieno di schermi che controllano i documenti d’identità dei residenti. Poi sono state erette grandi barricate intorno a una vasta sezione del mio quartiere, tagliando fuori l’accesso al mercato dei contadini locali, poiché possono entrare solo i residenti in quelle strade. Le strade deserte con i negozi barricati fanno realmente pensare a un’apocalisse zombie. Quando sono andata a fare scorte di cibo con un collega in un supermercato giapponese, ci hanno misurato la temperatura alla porta e ci hanno spruzzato sulle mani un gel antibatterico. Dobbiamo anche riferire la nostra posizione quotidiana e le nostre condizioni fisiche. Anche se tutto questo può sembrare allarmante ed esagerato, è anche confortante che ci sia stata una reazione così forte e ben coordinata per contenere il virus.

Dall’ottenere il cibo speciale per il mio vecchio chihuahua ad aiutarmi a portare al minimarket le mie borse strabordanti sono stata assistita da numerose mani guantate e non guantate. Il clima in strada è una curiosità mista a sospetto, come lo sguardo che ci si scambia dietro del maschere (ti conosco?). C’è anche un senso prevalente di solidarietà; sia tutti insieme in questa barca, attraversiamo gli stessi trasferimenti, condividiamo preoccupazioni simili. Ciascun incontro con un altro essere umano ha un sapore speciale; i nostri movimenti sono coreografati con un livello di intento e di consapevolezza da lama. Ma quando qualcuno starnutisce, l’interno isolato si raggela.

Non tutti attorno a me sono contenti di aspettare che finisca. Molti stranieri residente sono volati in Tailandia e Corea del Sud, dovunque a questo punto siano accetti. Le Linee Aeree Vietnamite hanno cancellato il mio biglietto per la mia vacanza in spiaggia. Questi stranieri in fuga e queste linee aeree sono irrazionali o stanno prendendo precauzioni sagge? Nella nostra provincia, di 81 milioni di abitanti, c’è stato solo un morto, un ottantaseienne. Con una statistica simile non è ridicolo persino indossare una mascherina? Espatriati veterani mi dicono che si aspettano che il numero tocchi un picco nelle prossime poche settimane e poi diminuiscano.

Ci sono molti, naturalmente, per i quali restare o andarsene non è una scelta, come i milioni attualmente intrappolati a Wuhan, l’epicentro del virus. Non sono solo cittadini cinesi intrappolati là; migliaia di studenti arabi, del sud-est asiatico e africani a Wuhan si stanno rivolgendo alle loro ambasciate per aiuto mentre le loro scorte cominciano a ridursi. Alcuni di loro sentono che sarebbe meglio finire in un ospedale cinese che in uno in patria, altri vogliono fuggire.

Questo martedì è stato diagnosticato il coronavirus a uno studente ventunenne del Camerun.

Sono rimasta colpita da quanti studenti e professori stranieri ho incontrato quando mi sono trasferita in Cina. Ho avuto la gioia di parlare indonesiano, tajiki, hindi, e persiano nel campus. In effetti, quando ero in una yurta remota nella steppa della Mongolia mentre conducevo ricerche, ho visitato una famiglia nomade di una yurta vicina la cui figlia sapeva parlare un cinese fluente; era a casa per le vacanze estive da studi gratis in Cina. La maggior parte degli studenti internazionali di paesi vicini dell’Asia e dell’Africa riceve generose borse di studio dall’iniziativa cinese Belt and Road, mentre negli Stati Uniti la maggior parte degli studenti internazionali deve pagare.

La presentazione mediatico occidentale monodimensionale della Cina come uniforme e xenofoba oscura la portata a vasto raggio della sua politica estera e l’impressionante sapere produttivo in patria, dove stanno riversando enormi somme di denaro nell’istruzione sia per i cittadini sia per gli stranieri. Quando ho tenuto un intero corso sull’Africa quest’autunno in Cina, tutti i quaranta posti sono stati occupati. Dal tradurre l’etiope classico al produrre stampe in 3-D delle Grandi Piramidi allo scrivere del colonialismo e dei combattenti dell’apartheid in Sudafrica, il profondo interesse per l’Africa dei miei studenti cinesi ha rinnovato la mia passione per l’insegnamento e mi ha fatto riflettere più profondamente sulla Cina in un contesto globale.   

Con tante cose buone in corso, non voglio lasciare la Cina, perché non c’è nessun posto dove preferirei stare. Confesserò, tuttavia, che questa settimana ho effettivamente fatto i bagagli quando un terremoto di 5,2 gradi ha colpito Chengdu e mi ha fatto rimbalzare sulla mia sedia a rotelle. Come altri nel Sichuan sono stata costretta a decidere in un istante: restare dentro e rischiare di essere sepolta viva o mettere una mascherina e uscire rischiando di incontrare le masse del coronavirus? Dopo il terremoto, i propositi del Capodanno cinese sui media sociali sono cambiati dall’acquistare una casa più grande a semplicemente restare vivi.

Anche se ho disfatto i miei bagagli mi sono resa conto: anche se dovessi scappare, ci sarebbe una quantità di ostacoli sul mio percorso. Attraversare l’aeroporto pare rischioso perché ho una rara variante della sindrome vascolare di Ehlers-Danlos, un problema dei tessuti connettivi, e non posso sapere come il mio collagene mutante interagirebbe con il virus. Nelle parole del mio genetista: “Penso che siamo in un territorio inesplorato e, naturalmente, la cura migliore è niente infezioni”. Nessuno dei dottori che ho consultato in Cina ha mai trattato questa sindrome e potrebbero sorgere complicazioni (forse mortali) se avessi bisogno di cure qui o in un paese vicino.

Il governo degli Stati Uniti sta sollecitando gli statunitensi in Cina a partire e sta istruendo gli statunitensi a non venire qui. E’ stato vietato l’ingresso di stranieri dalla Cina e cittadini statunitensi sono messi in quarantena, azioni che vanno contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), il cui direttore ha sollecitato a non vietare scambi e viaggi. Ma anche se andassi negli Stati Uniti e avessi bisogno di assistenza medica per aver contratto il virus nel percorso, non avrei nessuna assistenza sanitaria e un’ospedalizzazione mi manderebbe in bancarotta. Dopotutto, l’assistenza di un’assistenza medica universale causa 45.000 morti ogni anno negli Stati Uniti, il che è un’emergenza sanitaria pubblica molto più pressante che un virus contratto da solo una dozzina di statunitensi.

Parlando francamente, io sono assolutamente terrorizzata dal tornare in patria negli Stati Uniti. Quando sono tornata questa estate dalla mia ricerca in Mongolia finanziata dal Dipartimento di Stato, sono stata fermata e interrogata all’Aeroporto JFK. Esausta per aver attraversato il pianeta e immobilizzata nel mio collare e nella mia sedia a rotelle, ho dovuto subire – per un’ora – l’allarmante islamofobia e vile razzismo degli agenti della Homeland Security pensavano, da ignoranti, che la Mongolia fosse un paese a maggioranza mussulmana (“Ci sono buddisti là? Non lo sapevo”) e che gli iraniani parlino arabo (persiano, deficiente!). Hanno voluto anche che citassi tutti i corsi che avevo seguito per le mie cinque lauree alla Ivy League.

“Ma lei è stata realmente in RUSSIA, vero?” ha detto il mio inquisitore imbecille, additando un giornale mongolo nella mia borsa, ignorando che il mongolo si scrive anche in cirillico. Quando ho chiesto loro che cosa stessero facendo dopo i due omicidi di massa da parte di terroristi maschi bianchi quella settimana, mi hanno guardato come se avessi due teste. A questo punto preferirei morire di coronavirus in Cina che aver a che fare con il raggelante fascismo ai confini degli Stati Uniti o con l’indegnità del loro corrotto e inumano sistema di assistenza sanitaria.

Nel reagire allo scoppio del coronavirus, il Segretario di Stato Mike Pompeo ha definito il Partito Comunista Cinese “la minaccia centrale del nostro tempo”. L’ultima volta che ho controllato erano gli Stati Uniti, non la Cina, a condurre guerre su molteplici fronti, destabilizzando il Medio Oriente e avviando inutili sconti commerciali. Il Segretario al Commercio Wilbur Ross ha suggerito che lo scoppio del coronavirus è una cosa buona perché accelererà il ritorno di posti di lavoro negli Stati Uniti. Usare la morte e la sofferenza di persone malate per giochi politici sleali è un colpo basso; tale insensibile biopolitica danneggia la nostra politica estera e la nostra immagine all’estero.

Dunque, anche se dovevo passare questo mese sulla spiaggia in Vietnam, sono bloccata in casa nel Sichuan, ma ne sto ricavando il massimo. Con nient’altro che tempo a disposizione, sto rispettando le scadenze della mio pubblicazione e godendomi un tempo di qualità con il mio chihuahua giramondo. Ho persino cominciato un ricettario della quarantena del coronavirus sui parti che sto racimolando con ingredienti limitati. Invece delle notizie, ascolto suore buddiste che tengono discorsi in rete sul dharma; le loro voci gentili mi ricordano che siamo sempre in uno stato di cambiamento e che la sicurezza è un’illusione: siamo sempre a un possibile passo dalla morte. Sto considerando questo virus come l’occasione perfetta per contemplare quanto rapidamente tutto possa cambiare in un istante e quanto interdipendenti siamo tutti con i nostri vicini locali e globali.

Il semestre primaverile comincerà puntualmente? E i nostri corsi? Saranno in rete? Quanti studenti riempiranno le strutture di quarantena costruite? Chi lo sa. Per far fronte a tutta questa incertezza sto rileggendo l’analisi di Foucault su come la peste abbia attivato sistemi di sorveglianza e il romanzo di Albert Camus, ‘La Peste’, che si svolge sulla città algerina costiera di Orano, dove ho tenuto un discorso di apertura quest’autunno. Forse Camus l’ha detto nel modo migliore: “Non ho idea di che cosa mi aspetti, o di che cosa succederà quanto tutto questo sarà finito. Per il momento so questo: che ci sono dei malati e che hanno bisogno di cure”.


Emily Jane O’Dell è professore associato al Sichuan University-Pittsburgh Institute nella Repubblica Popolare Cinese.


da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/between-the-quarantine-and-quakes-coronavirus-life-in-china/

top