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3/2/2020

 

Spunta una inquietante ricerca del 2015: la creazione in laboratorio di un virus-chimera dal coronavirus di pipistrello

di Mauro Bottarelli  

 

Volendo ricorrere all’ironia, spesso arma di sopravvivenza fondamentale nelle situazioni di panico generalizzato e antidoto alla paura di provata efficacia, potremmo dire che la Cina ha appena vissuto il suo “momento Fausto Tonna” (ex direttore finanziario durante il crac Parmalat).

 

Insomma, dalla denuncia di contabilità creativa nei criteri di classificazione dei nuovi contagiati da coronavirusdovuta ai criteri utilizzati per il computo all’implicita ammissione di sottostima degli stessi sono passate solo 24 ore.

 

E questi due grafici mettono in prospettiva la magnitudo della discrepanza occorsa in un così ridotto lasso di tempo e dopo l’annuncio di una stabilizzazione dell’epidemia, prossima ormai al picco: in un solo giorno, 14.840 nuovi casi di contagio, capaci di portare il numero totale a 48.206.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

China National Health Commission/Zerohedge

 

Di più, fra questi 13.332 “clinicamente diagnosticati”, hanno tenuto a sottolineare le autorità sanitarie del Dragone. Excusatio non petita.

 

China National Health Commission/Zerohedge

 

CREATOR: gd-jpeg v1.0 (using IJG JPEG v62), quality = 82 Ma se questa palese ammissione di leggerezza nel trattamento delle quarantene e nella diagnosi precoce di nuovi, potenziali contagiati apre ulteriori, enormi interrogativi rispetto alla credibilità stessa del governo cinese nella gestione dell’intera vicenda, ormai divenuta emergenza globale, nella vicenda si inserisce questo documento, datato novembre 2015 e relativo a una ricerca internazionale –  descritta in un articolo pubblicato su Nature Medicine.

US National Library of Medicine

 

Nello studio, infatti, si descrive la creazione di un nuovo virus ottenuto combinando il coronavirus scoperto in una particolare specie di pipistrello cinese con un altro che causa la Sars nei topi da laboratorio. Roba che, già all’epoca, fece esplodere una furente polemica in seno alla comunità scientifica mondiale, tanto che Nature dedicò ampio spazio al dibattito fra scienziati e riportò l’allarme di moltissimi espertirispetto ai rischi che esperimenti simili possono comportare per la sicurezza e la salute pubblica.

Una, di fatto, la domanda che scaturiva: ne vale la pena? La pensava così, ad esempio, il dottor Simon Wain-Hobson, virologo presso l’Istituto Pasteur di Parigi, a detta del quale non solo “occorrerebbe chiedersi seriamente se le informazioni che possiamo ricavare da studi simili valgano il rischio che potenzialmente portano con sé” ma, soprattutto, “se ci fosse una fuga di quel virus, anche minima, nessuno potrebbe predirne la traiettoria“. Ancora più netto il giudizio del professor Richard Ebright, biologo molecolare ed esperto di biodifesa alla Rutgers University, in New Jersey: “L’unico impatto concreto che otteniamo da questo lavoro è la creazione, in laboratorio, di un nuovo rischio non naturale“. E proprio quella definizione – “non-naturale” – oggi apre varchi enormi a scenari formalmente complottistici ma che, nelle ultime ore, sono sbarcati anche nel dibattito politico Usa al più alto livello, dopo che il senatore repubblicano dell’Arkansas, Tom Cotton, ha chiesto ufficialmente che il governo statunitense ottenga da quello cinese la certificazione della natura non di bio-arma del coronavirus.

Al centro dell’accusa, la presenza a Wuhan, epicentro della crisi, del famoso laboratorio di massima sicurezza – classificato P4, l’unico del genere in Cina – in cui, a detta di un reportage sempre della rivista Nature del febbraio 2017, vengono studiati gli agenti patogeni più pericolosi al mondo.

E proprio in quel laboratorio oggi lavora, dopo anni nei principali laboratori degli Stati Uniti, una delle ricercatrici che ha partecipato allo studio della discordia, la dottoressa Shi Zhengli, affiancata all’epoca nel team anche da un altro virologo cinese, Xing-Yi Ge, anch’egli con anni di esperienza sul campo negli Usa.

Ed ecco che, come mostra questa immagine, non più tardi dello scorso 20 gennaio, sempre su Nature, la dottoressa Shi Zhengli appare fra le firme di un articolo nel quale si conferma la natura di mutazione animale del virus e la diretta responsabilità del pipistrello cinese.

 

Prof. Shi Zhengli is the director of the Center for Emerging Infectious Diseases of the Wuhan Institute of Virology.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Insomma, lungi dal voler garantire patenti di agibilità a tesi complottiste degne del Napalm 51 di Maurizio

Nature

 

Crozza, forse maggiore chiarezza e trasparenza da parte del governo cinese sull’intera genesi della faccenda sarebbe stata di aiuto proprio allo scongiurare del diffondersi di dietrologie parallele o teorie millenaristiche.

 

Anche perché, stando alla denuncia di alcuni organi di stampa cinesi, dopo la rimozione dei responsabili sanitari della provincia di Hubei, tramutatisi come nella miglior tradizione del Dragone in Monsieur Malaussène della pandemia, ora a capo dell’autorità sanitaria dell’area-epicentro sarebbe stata inviata dal governo centrale la general maggiore Chen Wei, massimo esperto nazionale di armi biochimiche per la difesa. Il suo quartier generale? Il laboratorio P4 di Wuhan, attorniata unicamente da personale militare.

Vero? Falso? Per ora, decisamente verosimile, almeno stando alla non smentita di Pechino. Le ombre, comunque, restano. Non fosse altro per quel balzo ad orologeria e al rialzo nella contabilità dei contagiati.

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