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07 febbraio 2020

 

Quattro italiani raccontano com'è vivere in Cina durante l'epidemia di coronavirus di Valerio Moggia

 

"Qua la situazione è tesa, ma non stiamo impazzendo: le autorità hanno dato delle regole per ridurre le possibilità di contagio, e noi le seguiamo e collaboriamo."

 

Mentre il numero delle vittime del coronavirus è salito a oltre 600—quasi tutte nelle province cinesi più colpite dall’epidemia—e i contagiati a più di 31mila, il governo di Pechino ha ammesso per la prima volta delle "carenze" nella gestione dell’emergenza; in questo, la storia del medico Li Wenliang (morto ieri per il coronavirus, dopo essere stato tra i primi a lanciare l'allerta) è molto esemplificativa.

 

Diversi paesi hanno imposto limitazioni sul traffico aereo (e non) da e verso la Cina, e il livello di guardia resta alto. All’inizio della settimana prossima, inoltre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità riunirà centinaia di esperti a Ginevra per trovare un modo di placare l’epidemia, accelerando la ricerca su farmaci e vaccini.

In Italia, i casi accertati sono tre e quelli sospetti sono risultati negativi. A questi si accompagna una diffusa psicosi coronavirus, alimentata dall'allarmismo e dalla diffusione di notizie imprecise su social e testate—soprattutto su come la Cina stia affrontando il contagio o su come sia cambiata la vita nelle città, spesso dipinta in toni apocalittici.

Per cercare di fare un po’ di chiarezza ho chiesto a quattro italiani che si trovano in aree diverse del paese asiatico di raccontare le loro esperienze.

 

ANDREINA, 24 ANNI, STUDENTESSA DI RELAZIONI INTERNAZIONALI A PECHINO

Mia madre è stata la prima a parlarmi del virus, poi è toccato a una mia amica qua a Ruian, dove abita il mio ragazzo e al momento mi trovo per le vacanze. Il 21 gennaio la mia amica ha insistito per fare scorta di mascherine e detergente per le mani; nel frattempo, le notizie si erano fatte più preoccupanti, soprattutto sui social. La famiglia del mio ragazzo non era ancora del tutto convinta: Wuhan è a 900 km da qui. Due giorni dopo, il caso è esploso e ho deciso di informarmi meglio.

 

La situazione non è comunque così tragica come la dipingono in Italia: certo, ci sono delle limitazioni, e la routine è stata stravolta. Dal 2 all’8 febbraio, nell’area amministrativa di Wenzhou, in cui rientra Ruian, può uscire solo un membro della famiglia ogni due giorni per fare la spesa, e bisogna compilare dei moduli per muoversi in auto.

So che i dormitori non permettono più agli studenti di muoversi liberamente, e a questo si aggiunge la paura che un giorno al controllo della temperatura ti scoprano ad avere un 37.1 e ti mandino in ospedale (in cui magari entri con decimi di febbre ed esci davvero infetto!). Io, personalmente, sono più preoccupata di non poter fare i viaggi che avevo previsto per questo capodanno. Come tutti, resto tranquilla, aspettando che la situazione si sblocchi. Se prima vivere in Cina era un’avventura, adesso è diventata un’attesa.

Mia madre mi chiede spesso di tornare. Io lo vorrei anche, per tanti motivi (tra questi non c’è assolutamente il virus), ma non lo farò. Il mio ragazzo è cinese, ma non ha un permesso di soggiorno in Italia e al momento l’ambasciata non rilascia visti per i cinesi, per cui non mi va di tornare senza di lui. Resteremo qui insieme, fino a che la situazione non si sarà normalizzata.

ALEX, 24 ANNI, STUDENTE DI RECITAZIONE E WUSHU PERFORMANCE A SHANGHAI

Ho scoperto del virus grazie a un mio professore, che ha condiviso un articolo nel nostro gruppo WeChat: ho subito capito che era una cosa seria—soprattutto per la concomitanza col capodanno cinese—ma ho cercato di rimanere calmo. Questa situazione, in Cina, ha cambiato molte cose: la mia università, per esempio, ha rimandato l’apertura del nuovo semestre da metà febbraio ai primi di aprile. Ora usciamo di casa solo se necessario, indossiamo una mascherina al giorno ed evitiamo di andare nei luoghi affollati.

 

La paura c’è, chiaramente. Io sono arrivato in Cina da solo, nel 2015, che avevo appena finito le superiori: non mi sono appoggiato a un’università o ad altri progetti, e non conoscevo la lingua, ma sono riuscito ad adattarmi, e ora vivo e studio a Shanghai. Qua la situazione è tesa, ma non stiamo impazzendo: le autorità hanno dato delle regole per ridurre le possibilità di contagio, e noi le seguiamo e collaboriamo.

Certo, ho pensato di tornare in Italia: quando sento parenti e amici cerco di tranquillizzarli e spiegare loro come stanno le cose, senza allarmismi: quello che racconto sono poi le cose che pubblico su Instagram e YouTube. Per ora quindi resto qui, ma se la situazione dovesse peggiorare penso che dopo marzo rientrerò in Italia per un po’.

 

EUGENIO, 36 ANNI, OFFICE MANAGER IN UNO STUDIO DI ARCHITETTURA E INTERIOR DESIGN A PECHINO

Vivo in Cina da dieci anni ormai, e anche con il virus Pechino non è un luogo pericoloso: siamo lontano dallo Hubei [la regione in cui si trova Wuhan], tutto funziona regolarmente, e i festeggiamenti del capodanno sono stati sospesi soprattutto per rispetto verso le zone più colpite, dove la situazione è veramente seria. Purtroppo, il susseguirsi delle notizie sui voli cancellati, sulle frontiere chiuse e tutto il terrorismo mediatico che si è fatto in Italia su questo problema ha molto allarmato i miei genitori, così ho scelto di tornare col primo volo.

In aeroporto, a Pechino, tutti gli inservienti indossavano mascherine e guanti; una volta fatto il check-in bisognava compilare un foglio con informazioni varie sugli ultimi spostamenti e stato fisico, poi c’era tutta una serie di controlli della temperatura. Atterrati a Mosca, siamo rimasti sull’aereo per quasi un’ora, mentre il personale ci faceva controlli con gli scanner termici e ci faceva compilare altri documenti. È andato tutto bene, ma comunque oggi resto in casa in una sorta di auto-isolamento, per rispetto verso gli altri.

So che in Italia i media hanno reagito in maniera pessima alla notizia del virus, con servizi da film horror e titoli catastrofisti, che non fanno che alimentare il terrore e il sospetto, sia verso i cinesi che verso gli italiani che ritornano dalla Cina. Ho letto tanti dati sbagliati o decontestualizzati, come solitamente accade quando si parla di Asia Orientale.

 

Probabilmente ci sono stati dei ritardi nella risposta iniziale a livello locale, ma quando il problema è emerso in tutta la sua gravità il governo ha agito bene, e sui media locali si sta enfatizzando lo sforzo non solo delle istituzioni, ma di tutta la nazione, mostrando medici e infermieri che lavorano a oltranza, o i lavoratori che tornano nelle fabbriche durante le feste per produrre i materiali sanitari richiesti. La crisi è diventata un motore dell’unità nazionale.

ILHAM, 25 ANNI, AMBASCIATRICE CULTURALE NELLA CONTEA DI QUZHO

Quando già le cose andavano male a Wuhan, io mi trovavo a Shanghai, ma non si sentiva affatto parlare del virus e tutto era tranquillo. Poi è arrivata qualche notizia, prima sui social e poi sui media, ma sembrava ancora tutto sotto controllo, per cui mi spostata a Pechino per un viaggio nel Nord del paese: sono riuscita giusto a visitare la Muraglia il giorno prima che il governo predisponesse la chiusura generale dei siti turistici e di altri luoghi pubblici. Pechino è divenuta una città deserta (a suo modo meravigliosa, malgrado la situazione), ma con tutto chiuso ho deciso di annullare il mio viaggio e tornare a Quzho.

Nella fase iniziale regnava soprattutto la confusione, a causa della discrepanza tra ciò che trapelava dai social e le notizie ufficiali, e questo ha dato adito a speculazioni e notizie false. Si sono verificati anche dei casi di discriminazione verso cittadini di Wuhan, con alcuni hotel che non li hanno accolti o ristoranti che li hanno lasciati fuori.

 

Dopo aver visto alcuni video, montati ad arte per terrorizzare la gente, con persone che collassavano improvvisamente, un po’ di timore mi è venuto, così ho contattato l’ambasciata marocchina (perché, malgrado sia cresciuta in Italia, non ho il passaporto: lo ius culturae mancato significa anche questo), e loro mi hanno calmato e spiegato che nella mia situazione non c’era bisogno di evacuare.

 

Sono qua appena da dicembre, nell’ambito di un progetto in cui insegno inglese e civilizzazione europea nelle scuole, e il campus in cui risiedo adesso è desolato per via delle ferie per il capodanno, ma non c’è grande pericolo. Le nuove regole vietano di uscire di casa se non per lo stretto necessario, e comunque con la mascherina; bus e treni sono ridotti, e ci sono villaggi che hanno costruito delle barricate per non fare entrare nessuno. Si attende l’evolversi della situazione, e che finalmente tutto passi.

 

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