Fonte: Federico Pecchini

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12/06/2020

 

Il Grande Reset. Dall’emergenza sanitaria al nuovo ordine mondiale

di Federico Pecchini

 

“La storia c’insegna che l’umanità evolve in misura significativa solo quando ha davvero paura … Una pandemia di grandi dimensioni farà quindi nascere … molto più rapidamente di quanto avrebbe fatto la sola ragione economica … un vero governo mondiale.” — Jaques Attali, 06/05/2009

Mentre questa pazza primavera volge finalmente al termine e il mondo occidentale è ancora intento a leccarsi le ferite dopo uno dei periodi più traumatici della storia recente, i potenti del pianeta stanno già pensando a come trarre vantaggio dall’emergenza in corso. “Mai lasciare che una buona crisi vada sprecata” — recita il vademecum del buon governante — e allora poco male le centinaia di migliaia di morti, o i milioni di persone che hanno perso il lavoro e sono ora ridotte sul lastrico: la pandemia potrebbe rivelarsi una straordinaria occasione per ripensare il mondo dalle sue stesse fondamenta.

A chiamare all’appello miliardari e filantropi da ogni angolo del globo ci ha pensato nientemeno che l’eterno erede al trono britannico, il principe Carlo. La scorsa settimana, nel discorso inaugurale per il lancio de “Il Grande Reset”, un’iniziativa da lui promossa al World Economic Forum di Davos, Carlo ha parlato di “un’opporunità d’oro per ricavare qualcosa di buono da questa crisi. Le sue ripercussioni senza precedenti” — ha detto il principe — “potrebbero rendere la gente più ricettiva a grandi visioni di cambiamento.”

Carlo è da tempo in isolamento precauzionale dopo aver contratto a marzo una forma lieve di Covid-19. Durante l’emergenza sanitaria si è anche molto temuto per la vita di suo padre, il quasi centenario principe Filippo che, nonostante le tante voci che lo davano per morto, sarebbe invece ancora vivo e vegeto in compagnia della consorte, la regina Elisabetta. Riguardo a Filippo, è perlomeno una curiosa coincidenza il fatto che egli in passato avesse più volte confidato alla stampa di volersi “reincarnare sotto forma di un virus mortale” per “risolvere il problema della sovrappopolazione.”

Per i malpensanti la teoria del complotto è praticamente servita su un piatto d’argento: potremmo infatti avere a che fare con una tipica operazione di ingegneria sociale sul modello problema — reazione — soluzione. Come spiegato da Noam Chomsky nel suo “Media Control: The Spectacular Achievements of Propaganda” (2002), i mass media sono soliti concentrarsi su un problema specifico proprio per suscitare una forte reazione nell’opinione pubblica e prepararla così ad accettare una soluzione prestabilita. Ad esempio si può orchestrare una crisi economica per limitare i diritti civili ed imporre un regime di austerity. In tal caso il “problema” produce uno stato di incertezza ed ansietà generale che spiana la strada alla messa in atto della “soluzione” desiderata. Come diceva Attali, la paura gioca sempre un ruolo chiave nei cambiamenti sociali. Non è un caso che qui in Italia, negli anni di piombo, quello stesso modus operandi venne ribattezzato “strategia della tensione”: allora si trattava di organizzare atti terroristici e di attribuirli alla sinistra radicale con l’intento di fermare l’ascesa del partito comunista.

Nel caso del virus odierno, esso potrebbe perfino esser stato ingegnerizzato in laboratorio per poi essere rilasciato al momento opportuno. Ad oggi però, non ci sono prove decisive per supportare una tesi del genere. Uno studio molto citato uscito su Nature a metà marzo riteneva “improbabile” che il nuovo coronavirus fosse di origine artificiale. Di contro, diversi scienziati di fama internazionale come il premio Nobel Luc Montagnier e Peter Chumakov dell’Accademia Russa delle Scienze hanno sostenuto che fosse il risultato di esperimenti da laboratorio. Il genetista israeliano Ronen Shemesh ha individuato una singolare mutazione, difficilmente evolutasi in natura, che renderebbe il nuovo virus particolarmente infettivo: “Se stessi cercando di progettare un ceppo virale con una maggiore affinità e potenziale infettivo per l’uomo, lo farei esattamente così”, ha di recente sostenuto in un’intervista.

Ma questo dibattito richiederebbe un’articolo a sé. In quello presente, invece, sorvoleremo sulle possibili dietrologie riguardo all’origine del virus e ci concentreremo piuttosto sulle soluzioni avanzate dalle élites mondiali per affrontare la crisi. Come ha affermato un altro grande vecchio della politica internazionale, Henry Kissinger, questa pandemia “cambierà per sempre l’ordine mondiale”. Al di là dei proclami trionfalistici, quello che ci interessa è capire come.

Al summit virtuale di Davos c’erano alcune tra le più importanti personalità del panorama politico ed economico mondiale: oltre al sopracitato principe Carlo, erano presenti Klaus Schwab, fondatore del World Economic Forum, António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, e Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale.

Per Schwab, “è arrivato il momento di un ‘grande reset’ del capitalismo” globale:

“Tutti i paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, devono partecipare, ed ogni industria, da quella del petrolio e del gas a quella tecnologica, devono essere trasformate … La pandemia ci ha mostrato quanto rapidamente possiamo effettuare cambiamenti radicali nel nostro stile di vita … e rappresenta una rara quanto stretta finestra di opportunità per riflettere, ripensare e riorganizzare il nostro mondo.”

Ma cosa significa davvero tutto questo?

L’agenda del Grande Reset è composta da tre parti principali, che chiameremo:

Globalizzazione
Decarbonizzazione
Digitalizzazione

1. Globalizzazione

A causa delle drastiche misure di contenimento adottate nel tentativo di arginare la pandemia, l’economia mondiale ha subito una delle più drammatiche battute d’arresto della storia. Si stima che a livello globale, gli scambi commerciali diminuiranno di un terzo su base annua, e che il flusso di turismo internazionale potrebbe ridursi fino all’80% nello stesso periodo. Molti analisti, tra cui l’Economist, si sono domandati se un disastro del genere non possa mettere la parola fine sul processo di globalizzazione.
La globalizzazione al tempo del coronavirus

Ma per il gruppo di Davos è vero il contrario: l’emergenza coronavirus sarà un occasione per più e non meno globalizzazione. Certo la pandemia cambierà molte cose, e richiederà un nuovo approccio alle politiche commerciali e fiscali tra stati, ma alla fine dei conti la cooperazione internazionale ne uscirà rafforzata. A sentire loro, tutto questo sarà fatto nell’ottica di un mondo più equo e più giusto, dove finalmente si rimedierà all’innaccettabile disparità di ricchezza che vede oggi le otto persone più ricche del pianeta avere tanto quanto la metà più povera della popolazione mondiale messa assieme (circa 3 miliardi e mezzo di persone).

Se una redistribuzione globale della ricchezza è sicuramente in programma, questa difficilmente andrà ad intaccare il monopolio delle grandi élites finanziarie. Come sappiamo dalle recenti rivelazioni dei Panama papers o dello scandalo Libor, i grandi gruppi bancari utilizzano metodi altamente sofisticati per nascondere i loro soldi nei paradisi fiscali o manipolare le quotazioni di mercato. Piuttosto, la redistribuzione economica comporterà ulteriori sacrifici per la classe media dei paesi ricchi, che dovranno abituarsi a livelli di consumo più bassi per permettere ai paesi poveri di svilupparsi. A livello nazionale, una tassa patrimoniale potrebbe essere imposta in modo progressivo per ripagare i debiti contratti nell’emergenza. Ma anche in questo caso ad essere colpiti sarebbero soprattutto i piccoli e medi imprenditori, i ricchi ma non i super-ricchi, per intenderci.

2. Decarbonizzazione

Da qualche anno ormai, il famigerato “cambiamento climatico” è sulla bocca di tutti. Per le Nazioni Unite, esso rappresenta “la più grande minaccia alla salute umana della storia” e “la maggiore minaccia per la sicurezza globale”. Già prima dello scoppio della pandemia, il Fondo Monetario Internazionale aveva parlato di una “crisi che richiede azioni immediate da parte di tutti i livelli di governo” e la Banca Mondiale aveva stanziato 50 miliardi per promuovere una nuova “finanza climatica”.
Al Gore e Greta Thunberg

Pochi ricorderanno che lo scorso gennaio Greta Thunberg si era presentata a Davos per sensibilizzare le élites sulle tematiche ambientali. Uno dei mentori della giovane attivista svedese, Al Gore, lavora da anni per promuovere la sua versione di “capitalismo sostenibile”, di recente popolarizzato sotto il nome di “Green New Deal”.

Di cosa si tratta? In pratica di una transizione dal neoliberismo sfrenato degli ultimi decenni ad un sistema economico più regolamentato, dove i governi nazionali ma soprattutto le grandi organizzazioni transnazionali come l’FMI devolvono i loro finanziamenti in modo selettivo a quelle imprese che rispettano certi parametri ecologici. E fin qui verrebbe da dire: meglio di niente! Ma il problema è più profondo.

Il modello proposto ha radici nel concetto di “modernizzazione ecologica” ideato da un gruppo di sociologi già dagli anni ’80 e ’90. Per costoro, l’unica via d’uscita dalla crisi ecologica è di progredire ulteriormente nel processo di modernizzazione verso una sorta di “iper-industrializzazione green” capace di ridurre il proprio impatto ecologico attraverso tecnologie innovative ed una gestione più efficiente. In altre parole, l’establishment tecno-corporativo vorrebbe raddrizzare i problemi creati in decenni di cattiva gestione attraverso una nuova serie di misure tecno-corporative.

E questo ci porta al terzo punto:

3. Digitalizzazione

Il terzo e ultimo punto dell’agenda del “Grande Reset” promuove infatti il concetto di “Quarta Rivoluzione Industriale”. Con esso si intende una svolta del sistema industriale verso una completa digitalizzazione sia della catena produttiva sia di quella per la distribuzione di beni e servizi. L’emergenza sanitaria è vista come un’occasione per velocizzare tale processo. Nelle parole di Schwab:

«Durante la crisi del Covid-19, aziende, università ed altri hanno unito le forze per sviluppare sistemi di diagnosi, terapie e possibili vaccini; costruire centri diagnostici; creare meccanismi per rintracciare le infezioni; e fornire telemedicina. Immaginate cosa sarebbe possibile se questo tipo di sforzi congiunti fossero compiuti in ogni settore.»

Per Schwab, “La Quarta Rivoluzione Industriale modificherà l’essenza stessa dell’esperienza umana.”

La Quarta Rivoluzione Industriale si basa su unità produttive smart, definite smart factories, e reti di gestione e distribuzione anch’esse smart, definite smart grids. L’idea di fondo è massimizzare l’efficienza produttiva e di consumo. Grazie alla robotica, ai sensori di nuova generazione, all’intelligenza artificiale e all’uso integrato dei big data, ogni aspetto della nostra vita sarà monitorato ed ottimizzato. Ecco alcuni dei punti salienti:

Identità digitale e biometrica per tutti
Moneta digitale con sistemi di pagamento contactless
Internet delle cose: ogni oggetto d’uso quotidiano sarà collegato alla rete
Realtà aumentata: sempre nuovi dispositivi elettronici ci guideranno nello svolgimento delle attività quotidiane

Transumanesimo

E questo sarebbe solo l’inizio. La tecnologia infatti non si limiterebbe a trasformare il mondo intorno a noi e gli oggetti che utilizziamo, ma andrebbe progressivamente a modificare anche il nostro corpo e la nostra mente, fino a sostituirli del tutto. Questa è l’essenza dell’ideologia transumanista, che da tempo ormai è diventata la religione ufficiale della Silicon Valley. Gente come Elon Musk sta già lavorando per interfacciare il nostro cervello con delle reti neurali artificiali tramite un chip impiantato nella testa. E per chi si ostinasse a vedere la cosa come un delirio fantascientifico, ricordo le parole del nostro ministro per l’innovazione digitale, Paola Pisano, rilasciate su Twitter solo pochi mesi fa:

Adesso che ci siamo fatti un’idea circa le reali intenzioni della nostra classe dirigente, la domanda è: che fare?

Se ci piace il futuro transumanista da essi proposto, la risposta è: niente. Ci stanno già pensando loro.

Se invece tale futuro ci ripugna e vogliamo salvaguardare l’integrità della natura umana per noi e per i nostri figli, allora c’è molto da fare. E soprattutto, non c’è tempo da perdere. I prossimi anni saranno decisivi, perchè le élites intendono sfruttare questa crisi per imporre al mondo una svolta epocale nella direzione che abbiamo visto. E in mancanza di un’alternativa culturale dal basso tale processo raggiungerà ben presto il punto di non ritorno, e diventerà irreversibile.

La risposta alla deriva tecnocratica e transumanista non può risolversi in un rifiuto totale della tecnologia di stampo neo-luddista con visioni nostalgiche di paradisi perduti e idilliche simbiosi con la natura. Piuttosto, è necessario elaborare una visione alternativa del futuro da cui derivare un piano di reset diverso, che sappia coadivare l’integrità ecologica con l’integrità umana, e rimetta la scienza e la tecnologia a servizio di esse e non a capo di esse. Più che di nuove tecnologie infatti, abbiamo bisogno di nuovi valori. Come diceva Indira Gandhi già nel lontano 1972:

“La civiltà industriale ha promosso il concetto di uomo efficiente … che prezzo dobbiamo pagare oggi per quella efficienza, e non è sconsideratezza un termine più appropriato per definire un tale comportamento? … L’inquinamento non è un problema tecnico. Il problema non sta tanto nella scienza o nella tecnologia di per sé quanto nel senso dei valori del mondo contemporaneo … Dobbiamo riconsiderare le basi stesse su cui sono fondate le nostre rispettive società civili e gli ideali da cui sono sostenute. Se deve esserci un cambiamento di mentalità, un cambiamento di direzione e dei metodi di funzionamento, non sarà un’organizzazione o uno stato — non importa quanto ben intenzionati — a poterlo realizzare.”

 

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