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6 Maggio 2020

 

Perché il sistema capitalistico è praticamente morto

di Francesco Piccioni e Maurizio Novelli *

 

Trovare un titolo così su un quotidiano economico dedicato specificamente alla finanza, diciamolo, è sorprendente. Scorrendolo, poi, abbiamo riscontrato notizie e spiegazioni delle trasformazioni avvenute nei “mercati” che mettono a fuoco esattamente i problemi sistemici.

Ancora più sorprendente, per un lettore italiano cresciuto ad editoriali stile Giavazzi-Alesina-Giannini-Cottarelli, è il fatto che questa attenzione ai fattori strutturali sia opera di un investitore istituzionale, a capo di un importante fondo di investimento svizzero. Non di un professorino cresciuto come un pollo in batteria alla Bocconi e passato direttamente dai banchi di studente alla tribuna di “teorico” grazie all’abilità nel maneggiare modellini econometrici (matematica applicata, insomma, non economia).

Il mestiere dell’autore si vede dall’attenzione a passaggi di tecnica finanziaria davvero poco noti ai non addetti ai lavori, e questo può distrarre l’attenzione del lettore non “addestrato”. Ma i passaggi sintetici, e i giudizi espressi sulle “svolte” dell’economia capitalistica degli ultimi 30 anni, sono quasi da saggio marxista. Chiari, semplice, soprattutto veri.

Marxismo inconsapevole, certo. Ma se così è vuol dire che è la realtà economica ad affermarsi, con tale evidenza che anche chi è stato formato su altri princìpi teorici (neoliberisti, in questo caso) è costretto ad arrivare alle stesse conclusioni.

C’è un perché questo riesca “naturale” ad un investitore istituzionale, uno che mette le mani quotidianamente nei “mercati” comprando e vendendo, speculando e guadagnando (oppure non più), e invece risulti impossibile ai “commentatori” ed editorialisti prima citati. Un investitore gioca con soldi veri, deve avere risultati tangibili. Gli altri sono pagati – anche dagli stessi investitori – per raccontare un mondo diverso da quello reale, in cui gli investitori possano liberamente sguazzare.

Vogliamo comunque evidenziare chiaramente i passaggi più rilevanti, al di là del titolo-shock.

a) “i mercati finanziari stanno entrando silenziosamente nella fase preliminare della nazionalizzazione, dove l’intervento pubblico e il sostegno della FED saranno elementi portanti di un capitalismo che è praticamente finito”.

Un sistema fondato sull’iniziativa priva, negli ultimi venti anni, è rimasto in piedi solo grazie alla “socializzazione delle perdite”, ovvero grazie a risorse pubbliche regalate ai privati.

Questo gioco è solo modestamente replicabile, anche se le banche centrali vere e proprie (Federal Reserve Usa, Bank of England, quella cinese e poche altre, ma di certo non la Bce) possono “inventare denaro” a volontà, perché il rischio inflazione – dopo dieci anni di deflazione o stagnazione – è molto meno serio del palese blocco totale del sistema.

Ma in ogni caso un sistema produttivo e finanziario che si sostiene solo grazie all’intervento pubblico non è più capitalismo. E’ sicuramente un “ambiente” fortemente diseguale, anzi sempre più diseguale; dove pochissimi guadagnano cifre colossali grazie a posizioni monopolistiche o oligopolistiche, e quasi tutti vengono invece spinti verso la povertà assoluta.

Ma non è capitalismo.

C’è più Marx in questa formulazione di quanto non ce ne sia mai stato nei ponderosi saggi di teoria. Non bastano infatti le disuguaglianze, le ingiustizie, lo sfruttamento e la ferocia a fare di un modo di produzione capitalismo.

Queste infamie sono esistite anche in altri modi di produzione, magari precedenti di secoli l’affermarsi del capitale. Per fare capitalismo serve che il meccanismo privatistico stia in piedi da solo, tramite i soli meccanismi di mercato, deve cioè remunerare con profitto il capitale investito.

Se invece è “il pubblico” a compensare gli squilibri sempre più instabili, allora il sistema sta evolvendo “spontaneamente” verso una situazione in cui l’intervento pubblico diventa determinante. Ossia verso la nazionalizzazione (o meglio pubblicizzazione della proprietà dei mezzi di produzione, della finanza, ecc) e a maggior ragione la pianificazione centralizzata dell’impiego delle risorse in vista di obiettivi decisi su base molto più razionale della semplice “voglia di profitto individuale”.

2) Lo stallo del sistema è riassunto nei suoi elementi fondamentali: Il sistema ha bisogno di grandi capitali per essere sostenuto, ma non può remunerare questi capitali perché altrimenti fallirebbe. I Governi hanno bisogno di fare più debito per sostenere l’economia ma il capitale richiesto per finanziare il debito non può essere remunerato poiché renderebbe il debito non sostenibile. Le aziende hanno bisogno di emettere debito per finanziarsi ma non possono permettersi di pagare tassi tanto diversi rispetto a quelli dei governi perché anche per loro il debito sarebbe non sostenibile.

Scacco matto. Nessun soggetto sistemico può più muoversi senza perdere. Ma se nessuno si può muovere il sistema è finito. Dialettica materialistica, non finanza speculativa matematizzata.

3) Ci si è arrivati per normale “evoluzione” darwiniana (e marxiana), ossia senza un progettto prestabilità.

I Policy Makers non controllano nulla e non vigilano sui rischi finanziari di sistema, anzi, li incentivano sempre di più. La commistione che si è creata tra Banche Centrali, Asset Managers, Banche e grandi gruppi di Private Equity ha portato alla costruzione di un sistema che crede che il rischio non esista più per chiunque.

Ma è scritto anche nei manuali liberisti del primo anno che “il profitto è il premio del rischio affrontato dall’investitore privato”. Dunque dunque è corretto che, proprio perché si deve far credere che il rischio non esiste, il capitale di rischio non venga più remunerato. Se tutti coloro che partecipano a questo meccanismo devono essere sempre salvati, indipendentemente dai rischi che decidono di prendere, è normale che poi il capitale di rischio non può pretendere una remunerazione.

4) Da cui consegue che: Il sistema capitalistico, degenerato a causa di questo modo di operare, è praticamente morto e la finanza, così come funziona oggi, lo ha ucciso.

Anche in questo caso non c’è stato alcun “progetto del capitale”, ma semplice reazione a una crisi che ha prodotto “soluzioni tampone”. Interventi dettati dalla contingenza, per cercare di ripristinare le condizioni pre-crisi, pur con qualche correttivi nei confronti dei fenomeni più evidentemente negativi (dieci anni fa spopolava sui media la critica dell’eccessivo moral hazard della finanza speculativa stile Lehamnn Brothers).

Gli Stati Uniti, dal 2001 in poi, hanno messo l’economia reale a sostegno della finanza, ribaltando la funzione che la finanza era a sostegno dell’economia reale. Oggi il settore finanziario “fa leva” 4/5 volte sull’economia reale per ottenere rendimenti che l’economia reale non riesce più a produrre, così come le banche nel 2008 facevano leva 40 volte sul capitale per ottenere rendimenti che l’attività caratteristica non poteva dare.

La “soluzione tampone” d’allora, sotto la pressione dell’”emergenza”, è diventata un elemento strutturale. Ciò che ha limitato allora la crisi ne ha prodotta ua molto più grande, anche se l’esplosione è avvenuta per un “fattore esterno”, un virus che ha fatto le funzioni di un asteroide. Ma un sistema che non regge gli impatti esterni è in realtà una bolla destinata prima o poi ad esplodere.

La diversità della reazione, e dell’efficacia, all’epidemia tra un sistema capitalistico sono governance pubblica (come la Cina) e i sistemi a totale predominanza del privato è evidente. Nel primo caso ci sono stati danni seri, ma limitati nella dimensione e nel tempo; nel secondo pare non esserci alcun limite al peggio (fin quando non ci sarà un vaccino, almeno), perché le risposte di tipo collettivo e razionale (quelle suggerite dalla scienza) vengono immediatamente messe in discussione dagli interessi delle imprese private, ognuna per sé.

5) Una serie di “game over” che porta un investitore istituzionale a una conclusione davvero paradossale (in apparenza), perché costituisce la negazione esplicita della sua funzione: una volta verificato che “l’eccesso di risparmio nel sistema, non trovando una adeguata remunerazione in loco, tende ad emigrare verso sistemi in cui i rendimenti sono superiori”, non resta che profferire la bestemmia peggiore per le orecchie di un finanziere:

Per evitare questa migrazione bisognerebbe impedire la libera circolazione dei capitali, piccolo dettaglio che le Teorie Monetariste hanno dimenticato. Il risultato di queste “sciagurate” operazioni fatte applicando in modo becero le Teorie Monetariste sono davanti a tutti. Infatti Europa e Giappone erano già in recessione a fine 2019 con le Banche Centrali impegnate a stampare moneta e con i tassi negativi (!).

6) La conclusione più logica è dunque quasi “comunista”, anche se vista con terrore.

La presenza dello Stato nell’economia è destinata a crescere, la redditività del capitale è destinata a scendere e l’impatto sugli equilibri sociali e politici attuali potrebbero essere l’ultimo tassello che manca per completare uno scenario di cambiamento dai contorni decisamente incerti. Anche se nei prossimi mesi si troveranno delle cure per contrastare il Coronavirus, tali cure non guariranno un sistema capitalistico e un sistema finanziario malato.

Nel nostro linguaggio si chiama “caduta tendenziale del saggio del profitto”, ma potete anche chiamarla “redditività calante del capitale”… Il risultato non cambia. A quanto pare sono state esaurite le “controtendenze” (la principale è sempre stata la finanza…).

Se non ci sarà la lungimiranza di modificare le regole del gioco con un cambiamento guidato dall’alto, c’è il rischio evidente che il cambiamento venga imposto dal basso, con evidenti conseguenze poco piacevoli per tutti (noi imprenditori e investitori istituzionali, ndr).

Lo sappiamo, lo speriamo, lavoriamo per questo.

Buona lettura.

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Milano Finanza

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6 Maggio 2020

 

Perché il sistema capitalistico è praticamente morto

di Maurizio Novelli

gestore del Lemanik Global Strategy Fund

 

Le borse festeggiano la fine imminente del lockdown globale ma, a questi livelli, non stanno certamente prezzando il danno che rimarrà sull’economia, sui profitti attesi, sull’occupazione e, soprattutto, sulle insolvenze che arriveranno. Credo che il reale impatto che la pandemia avrà sull’economia globale si capirà solo nei prossimi tre mesi, quando si avrà una evidenza di come effettivamente si delinea il ritorno alla normalità tanto attesa.

Se guardiamo a quello che accade in Cina non ci sono motivi per essere particolarmente ottimisti. Sebbene il governo Cinese abbia imposto la ripresa dell’attività industriale, quello che accade fuori dal settore produttivo, in gran parte gestito con politiche centralizzate, non lascia spazio a facili entusiasmi.

Il settore dei servizi e dei consumi interni, che non è gestito da politiche centralizzazate e dipende dalla reale domanda privata, è pesantemente penalizzato dal fatto che i cittadini Cinesi non hanno ancora superato lo shock e la paura del contagio rimane latente. Le vendite al dettaglio sono ancora sotto del 16% rispetto a fine 2019 e gli unici settori che vedono un incremento dell’attività sono il settore pharma (+8%) e quello alimentare (+18%).

I consumi di carburante e i ristoranti, che sono settori indicativi di un ritorno alla mobilità della popolazione e quindi dei consumi, sono -20% il primo e -57% il secondo.

In generale la Cina evidenzia una economia ancora in difficoltà e con una attività stimata (ottimisticamente) al 70% rispetto ai livelli di fine 2019. E’ lecito attendersi la stessa dinamica per Europa e Stati Uniti, dato che la popolazione sa benissimo che il virus è ancora in circolazione e tale condizione psicologica rischia di compromettere la mobilità e i consumi e dunque le attese di un veloce recupero dell’economia.

Nel frattempo i mercati finanziari stanno entrando silenziosamente nella fase preliminare della nazionalizzazione, dove l’intervento pubblico e il sostegno della FED saranno elementi portanti di un capitalismo che è praticamente finito.

Il sistema ha bisogno di grandi capitali per essere sostenuto ma non può remunerare questi capitali perché altrimenti fallirebbe. I Governi hanno bisogno di fare più debito per sostenere l’economia ma il capitale richiesto per finanziare il debito non può essere remunerato poiché renderebbe il debito non sostenibile. Le aziende hanno bisogno di emettere debito per finanziarsi ma non possono permettersi di pagare tassi tanto diversi rispetto a quelli dei governi perché anche per loro il debito sarebbe non sostenibile.

L’equity, il capitale per eccellenza, è in crisi già da tempo. La redditività degli investimenti azionari sui mercati internazionali, escludendo gli Stati Uniti, negli ultimi sette anni è stata deludente. L’indice MSCI World ex US è praticamente in un side market dal 2013 e i mercati USA sono riusciti a fare meglio solo grazie ai buy back, che hanno fatto salire il mercato ma che ora ha il risultato di aver bruciato 5 trilioni di Dollari di cash flow e ora tantissime società si ritrovano piene di debiti e tutte in coda a chiedere l’intervento statale per non fallire.

Il fenomeno dei buy back è stato l’ultimo estremo tentativo di sostenere una redditività che non poteva essere raggiunta con i normali profitti operativi, quelli che non puoi manipolare con i buy back e con gli adjusted earnings. Infatti, proprio i profitti operativi di tutta la Corporate America, sono praticamente fermi da 5 anni.

Per cercare di evidenziare utili in costante crescita gli analisti si sono dunque da tempo adoperati per introdurre un doppio sistema contabile, da una parte il sistema GAAP (i cosidetti principi contabili ufficiali che servono a redigere i bilanci civilistici e fiscali) e dall’altra il sistema “adjusted” (già il nome indica la finalità), dove si possono omettere tutta una serie di passività e costi (ammortamenti, interessi passivi, costi ritenuti transitori, ecc).

Ovviamente gli utili ottenuti con il sistema “adjusted” sono molto seguiti a Wall Street e servono sovente a far apparire utili dove in realtà non ci sono, facendo emergere profitti dove invece ci sono delle perdite operative.

E’ certamente vero che molte società americane sono solide e profittevoli ma se l’industria della finanza spinge, o ha spinto, in modo insistente per le strategie d’investimento passive, è ovvio che molti soldi finiscono anche per sostenere i prezzi di società che non valgono quello che capitalizzano e non fanno utili. Per fare un esempio, già prima della crisi il 30% delle società quotate sull’indice Russell 2000 erano in perdita ma l’indice saliva comunque.

Accade dunque che in ogni singola crisi dal 2001 a oggi il sistema non regge e collassa a causa degli eccessi speculativi, obbligando le Banche Centrali ad intervenire per salvare un sistema che, appena si riprende, è pronto per progettare un’altra crisi devastante di proporzioni sempre più ampie delle precedenti.

In realtà, è giunto il momento di dirlo con chiarezza, i Policy Makers non controllano nulla e non vigilano sui rischi finanziari di sistema, anzi, li incentivano sempre di più. La commistione che si è creata tra Banche Centrali, Asset Managers, Banche e grandi gruppi di Private Equity ha portato alla costruzione di un sistema che crede che il rischio non esista più per chiunque.

A questo punto credo che sia dunque corretto che, proprio perché si deve far credere che il rischio non esiste, il capitale di rischio non venga più remunerato. Se tutti coloro che partecipano a questo meccanismo devono essere sempre salvati, indipendentemente dai rischi che decidono di prendere, è normale che poi il capitale di rischio non può pretendere una remunerazione.

Il sistema capitalistico, degenerato a causa di questo modo di operare, è praticamente morto e la finanza, così come funziona oggi, lo ha ucciso.

Gli Stati Uniti, dal 2001 in poi, hanno messo l’economia reale a sostegno della finanza, ribaltando la funzione che la finanza era a sostegno dell’economia reale. Oggi il settore finanziario “fa leva” 4/5 volte sull’economia reale per ottenere rendimenti che l’economia reale non riesce più a produrre, così come le banche nel 2008 facevano leva 40 volte sul capitale per ottenere rendimenti che l’attività caratteristica non poteva dare.

Nell’ultimo ciclo espansivo il debito nel sistema internazionale è cresciuto del 110% ma il PIL mondiale è cresciuto solo del 46%. Per ottenere un Dollaro di PIL abbiamo fatto 2,4 Dollari di nuovo debito. La domanda è: perché il moltiplicatore del debito peggiora sistematicamente in ogni ciclo espansivo ? Se uso questo debito per fare investimenti reali dovrei assistere ad un incremento del PIL decisamente più alto. Il motivo per cui il PIL cresce sempre meno a fronte di sempre più debito è perché una parte rilevante di questo nuovo debito serve per fare finanza (leverage) e non per fare investimenti nell’economia reale.

A questo punto della storia è giusto che il sistema venga nazionalizzato e che la redditività del capitale di rischio faccia la fine che ha fatto in Giappone, dove la Banca Centrale sostiene il sistema ma il capitale non viene remunerato. I capitali Giapponesi infatti vengono investiti prevalentemente sui mercati esteri e il QE Giapponese non è utile all’economia interna.

Tanto per essere chiari fino in fondo, vorrei anche smitizzare gli effetti del QE che vengono esaltati da analisti ed economisti della consensus view.

E’ ormai dimostrato che il QE non funziona nelle economie che hanno le banche come principale canale di finanziamento del sistema e dispongono di un eccesso di risparmio interno (vedi il caso del Giappone e dell’Europa). In questo caso i tassi a zero (o peggio negativi) scoraggiano le banche dall’attività di lending perché la remunerazione del credito erogato è troppo bassa in relazione ai rischi che si prendono, mentre l’eccesso di risparmio nel sistema, non trovando una adeguata remunerazione in loco, tende ad emigrare verso sistemi in cui i rendimenti sono superiori.

Per evitare questa migrazione bisognerebbe impedire la libera circolazione dei capitali, piccolo dettaglio che le Teorie Monetariste hanno dimenticato. Il risultato di queste “sciagurate” operazioni fatte applicando in modo becero le Teorie Monetariste sono davanti a tutti. Infatti Europa e Giappone erano già in recessione a fine 2019 con le Banche Centrali impegnate a stampare moneta e con i tassi negativi (!).

Per quanto invece riguarda le politiche di QE fatte in paesi dove è il mercato finanziario che finanzia il sistema e il risparmio interno non c’è (vedi gli Stati Uniti), le politiche di QE sono comunque sempre esposte alla propensione al rischio di chi finanzia il sistema. Quando c’è una crisi i sottoscrittori di Corporate Bonds e Loans (IG, HY, Cartolarizzazioni di ogni tipo e Leverage Loans, che in America fanno il 60% del credito all’economia) cercano di liquidare le posizioni (riduzione della propensione al rischio) e la Banca Centrale diventa il compratore di ultima istanza di quasi tutto quello che deve essere venduto. Questo intervento, come oggi avviene, è finalizzato a frenare il deleverage e fornire liquidità ad intermediari del credito che cercano di vendere per fare liquidità ma non trovano compratori.

E’ abbastanza ovvio che, in questa fase, il QE è puramente finalizzato a consentire la liquidazione di asset ed impedire il default degli operatori che detengono tali asset. Solo quando tali operatori avranno ristabilito un certo livello di rischio di portafoglio che considerano adeguato al nuovo contesto dell’economia torneranno a finanziare il sistema acquistando bonds e loans cartolarizzati.

In questa fase della crisi quindi il QE non aumenta il credito all’economia (come quasi tutti sostengono) ma sostituisce solo in parte quello che viene tolto dai precedenti finanziatori. Il risultato è che l’economia si contrae comunque fino a quando non ritorna la propensione al rischio di chi finanziava a leva l’economia. In conclusione, sia nel caso in cui abbiamo un sistema del credito all’economia basato sul canale bancario, sia nel caso in cui il credito è basato sul mercato finanziario, tutto dipende solo dalla propensione al rischio di chi ti finanzia. A questo punto è chiaro che, se andiamo verso un sistema che non può più permettersi di remunerare il capitale di debito perché non ne regge il costo, chi finanzierà un sistema così ?

Se la mia propensione al rischio non viene più remunerata perché dovrei finanziarti ? La propensione al rischio di chi deve finanziare un economia a tassi zero o negativi è pari al livello dei tassi: cioè zero. Quindi la FED da questo pantano non ci esce più tanto quanto la BOJ e la BCE. Anche per l’equity, come ho avuto modo di evidenziare, la redditività era già compromessa da tempo (vedi sempre MSCI World ex US) e solo i buy back e gli artifici contabili di Wall Street avevano dato l’illusione di una redditività superiore per il mercato Americano. Esistono società e settori redditizi ma non si possono certamente cogliere attraverso gli investimenti sull’indice e credo nel ritorno della gestione attiva.

Occorre inoltre sottolineare che comunque, alla faccia del sistema capitalistico, le aziende Usa che vantano alta redditività e prospettive di crescita godono di una posizione quasi monopolistica o oligopolistica: Amazon ha il monopolio del commercio on line, Apple è in un oligopolio con Samsung e Huawei, Google ha una posizione dominante, Facebook è un monopolista nei social, Microsoft è un monopolista dei sistemi operativi per PC, Booking è un oligopolista e altri ancora. Inoltre tali operatori economici godono di una sorta di “protezione fiscale” perchè non pagano tasse proporzionate ai loro profitti. Altro elemento che conferma che questo sistema capitalistico non ha quasi più nulla di capitalismo e la redditività è riservata solo a poche società mentre tutto il resto annaspa. Tutto questo non regge. Non reggeva prima e ora regge sempre meno.

Anche la recente crisi del settore petrolifero evidenzia e conferma una degenerazione di fondo. Gli Stati Uniti, dopo gli attentati alle Torri Gemelle hanno deciso di perseguire l’indipendenza energetica dall’area mediorientale, per fare questo hanno investito centinaia di miliardi nel settore shale oil che però ha bisogno di un prezzo del petrolio ad almeno 50 USD solo per non perdere.

Per sostenere prezzi così alti è stato necessario mettere fuori mercato importanti paesi produttori come Iran, Libia e Iraq, chiedere all’Arabia Saudita di tagliare la produzione in cambio di un appoggio militare nello scontro con l’Iran e mantenere il Venezuela in una sorta di agonia politica e tecnologica che incide notevolmente sulle potenzialità produttive del paese.

Molte scelte geopolitiche hanno queste motivazioni e la destabilizzazione di alcune aree del mondo, con effetti anche sui flussi migratori in corso, sono la conseguenza di questa strategia. Ora il collasso dei prezzi ha messo in crisi un settore che pesa circa il 10% del PIL USA e anche in questo caso si rendono necessari interventi governativi per sostenere un settore che stava in piedi solo grazie a prezzi tenuti alti in modo “artificiale”. Una ulteriore evidenza di un’altra parte del sistema che regge solo grazie a meccanismi di prezzo che non hanno nulla a che vedere con il mercato e con la domanda e l’offerta.

I rialzi dei listini di questi giorni confermano che il consenso crede ancora che tutto possa tornare come prima ma già serpeggia il sospetto che forse siamo davanti a un evento che imporrà un cambiamento strutturale. La presenza dello Stato nell’economia è destinata a crescere, la redditività del capitale è destinata a scendere e l’impatto sugli equilibri sociali e politici attuali potrebbero essere l’ultimo tassello che manca per completare uno scenario di cambiamento dai contorni decisamente incerti. Anche se nei prossimi mesi si troveranno delle cure per contrastare il Coronavirus, tali cure non guariranno un sistema capitalistico e un sistema finanziario malato.

Se non ci sarà la lungimiranza di modificare le regole del gioco con un cambiamento guidato dall’alto, c’è il rischio evidente che il cambiamento venga imposto dal basso, con evidenti conseguenze poco piacevoli per tutti. Purtroppo la storia insegna che chi detiene la posizione dominante è sempre restio a rinunciare a qualcosa e cerca di mantenere tale posizione fino alla fine. Se anche questa volta si cercherà di proseguire con queste regole del gioco ci dobbiamo attendere elevata instabilità economica e sociale per il decennio che si apre con questa crisi. La redditività del capitale in occidente è destinata a rimanere zero come in Giappone.

Se la Cina e il mondo emerging market offriranno una redditività maggiore, i capitali andranno là e produrranno un ulteriore spostamento del baricentro della crescita mondiale verso l’Asia. In questo scenario la Cina deve solo stare ferma e aspettare che gli Stati Uniti proseguano su questa strada, consegnando definitivamente la leadership dell’economia globale al paese antagonista. I tentativi di Trump di contrastare l’ascesa cinese con una guerra commerciale e tecnologica stavano già producendo danni all’economia mondiale. In questa crisi c’è ora il rischio che l’America si chiuda ulteriormente per sostenere un sistema malato, difendere il proprio modello e distruggendo del tutto le regole che dal dopoguerra hanno creato il benessere per l’Occidente.

Negli scenari che si prospettano le strategie attive sembrano più adatte a navigare in un contesto complicato e sono destinate a trovare uno spazio maggiore e forse dominante nell’asset allocation degli investitori.

In conclusione si conferma lo scenario a suo tempo già illustrato: l’Oro ha aperto una fase di bull market, il Dollaro è in area toppish, i bonds rimarranno incollati su questi livelli e i mercati azionari hanno davanti un netto calo della redditività aziendale che può andare oltre le aspettative.

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