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martedì 7 gennaio 2020

 

Soleimani, un funerale da Ashura

di Enrico Campofreda

 

Lutto, pianto, disperazione e morte. Di altri iraniani, accanto al capo supremo delle Brigate al Quds. Così dopo il tributo d’una folla immensa - uno-due milioni di persone per le vie di Tehran come all’epoca del rientro di Khomeini dall’esilio - la salma di Soleimani, passando per la città santa di Qom, è giunta a Kerman per la sepoltura. Lì s’è verificato una sorta di martirio collettivo. Sono morti in trentacinque nella calca attorno alla sua bara portata in processione nella città. Le vittime potrebbero addirittura aumentare: note d’agenzia comunicano anche il grave ferimento di almeno cinquanta persone. Le vie strette che conducono al cimitero, dov’era previsto l’ultimo saluto al comandante, non hanno contenuto la massa di cittadini, molti dei quali venivano da altre località. E nel muoversi concitatamente taluni sono rimasti intrappolati e schiacciati. Una tragedia nella tragedia, che testimonia comunque la partecipazione di massa a un evento che segnerà il futuro prossimo nel Paese e nella regione. Le lacrime del solitamente impassibile Ali Khamenei, il sentimento di rivalsa verso un atto considerato terroristico non solo dall’ala dura dei Pasdaran e dall’intero establishment governativo, compresi i diplomatici Rohani e Zarif, segnano un fattore che inciderà sulla linea politica futura.

 

Se s’è detto che il presidente Trump abbia usato quest’azione omicida, certamente col benestare del Pentagono e lo zampino della Cia, per lanciare la campagna elettorale del prossimo novembre, per lui dagli esiti incerti, ma prossimamente si voterà anche in Iran. A febbraio sono previste le politiche, nella primavera 2021 le presidenziali. In quest’ultime il pacifico Rohani non correrà. Soleimani poteva addirittura risultare la candidatura laica, e dall’orientamento tutt’altro che radicale, per una carica non strategica, ma sicuramente di prestigio internazionale per la visibilità e gli inevitabili contatti cui è destinata. Anche con quella parte del mondo, l’Occidente d’oltreoceano e quello europeo, che hanno a lungo demonizzato l’Iran. Occorrerà comprendere se l’espressione più oltranzista della politica di quel Paese, sia clericale (gli ayatollah ultraconservatori), sia in divisa (le Guardie della Rivoluzione) che a inizio Millennio aveva scelto un elemento come Ahmadinejad, riproporranno soluzioni estremiste. Dopo l’archiviazione del riformismo di Khatami, e l’emarginazione, con tanto di spinta repressiva dei suoi epigoni (Moussavi, Karroubi) la spaccatura interna, non più latente, era apparsa in più occasioni. Con l’Onda verde del 2009, con le proteste di massa dell’inverno 2016.

 

Il superamento degli effetti dell’embargo sul nucleare non si sono mai registrati. La distensione dell’accordo pattuito con l’amministrazione Obama è stata formale e non ha prodotto l’attesa normalizzazione economica. Anzi. L’incrudimento delle sanzioni attuate da Trump, con l’intento di esasperare gli animi degli iraniani contro la propria classe dirigente, avrà pure rafforzato le convinzioni degli anticlericali interni, ma non ha sfondato nella massa della popolazione. Almeno per quel rovesciamento del regime auspicata dalla diaspora dei dissidenti. Certamente il Paese è diviso. La destabilizzazione mediorientale, sviluppatasi attorno al conflitto siriano, dal 2013, quello yemenita, dal 2016, con al centro lo scontro con lo Stato Islamico, ha prodotto un’accelerazione armata iraniana in vari punti della regione, con costi elevati per le proprie dissestate finanze. Ma il coro protestatario contro le spese militari che penalizzano i bisogni sociali interni può affievolirsi e bloccarsi davanti alla sicurezza nazionale. L’aggressione reale avvenuta, quelle minacciate - non si sa se con semplici risvolti teatrali o con drammatiche future attuazioni - stanno ricompattando il popolo iraniano. Che pensa innanzitutto a difendere confini e interessi patri, e valutare nemici e alleanze presenti e future.

 

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