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18 agosto 2020

 

Shugaley, la crisi libica e la definitiva scomparsa dell’Italia dallo scacchiere internazionale

di Alessandro Sansoni

 

Seguendo giornali e televisioni, l’impressione che l’opinione pubblica italiana può trarne è che il mondo, da quando a marzo in Europa e negli altri continenti si è diffusa l’epidemia da coronavirus, si sia fermato e che tutti i paesi siano alle prese con un’emergenza senza precedenti nella storia recente.

 

Si tratta però soltanto di un’impressione. In realtà ad essersi fermata è solo l’Italia.

Il resto del mondo, al contrario, pur dovendo fare i conti con il problema sanitario, ha continuato a muoversi. In particolare i processi geopolitici già in atto hanno avuto importanti sviluppi e, in taluni scenari, addirittura un’accelerazione.

E’ il caso, ad esempio, dell’evoluzione che ha subito in questi mesi lo scacchiere mediterraneo e libico in special modo, dove, rispetto a febbraio, il quadro sembra essersi completamente ribaltato.

Se fino a qualche mese fa il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez al Sarraj sembrava ormai spacciato – assediato e accerchiato a Tripoli dalle truppe dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Khalifa Haftar – oggi la situazione sembra essersi completamente ribaltata, con le milizie del GNA ormai alle porte di Sirte e di al-Jufra e i soldati di Haftar in fuga nel deserto libico.

Al fine di ribaltare la situazione, è stato decisivo il massiccio intervento turco, che ha rifornito la Tripolitania di mezzi e di uomini, in particolare trasferendo sul suolo libico circa 16.500 combattenti jihadisti, veterani del conflitto siriano, come più volte denunciato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Tutto questo in violazione agli accordi sanciti a gennaio dalla Conferenza di Berlino, che vietavano ai paesi terzi di intervenire a sostegno delle parti in conflitto, e in barba alla missione dell’Unione Europea IRINI, che, sotto guida italiana, avrebbe dovuto far rispettare l’embargo sugli armamenti e che si è rivelata un fallimento totale.

Anche il Comando supremo delle Forze americane in Africa, l’AFRICOM, ha fatto sentire la sua voce, dichiarandosi pronto a intervenire a sostegno dell’esercito tunisino con le sue Security Force Assistance Brigades, preoccupato per le attività russe in Nord Africa.

Ancor più preoccupato dell’evolversi della situazione è apparso l’Egitto, il cui parlamento ha autorizzato il governo a intervenire militarmente in Libia nel caso in cui Sirte e al-Jufra venissero attaccate. Un bel problema, dal momento che il governo turco ha più volte dichiarato di essere disponibile ad intervenire “direttamente” a sostegno del GNA pur di assicurargli il controllo di al-Jufra, dove è situata un’importante base aerea, il cui utilizzo Sarraj avrebbe promesso ad Erdogan in cambio degli aiuti che gli hanno consentito di ribaltare le sorti del conflitto.

E’ tecnicamente possibile, dunque, che al di là delle fazioni impegnate nella guerra civile, due importanti paesi del Mediterraneo orientale, Turchia ed Egitto per l’appunto, possano scontrarsi militarmente a poche centinaia di kilometri dalle coste italiane: un’eventualità che metterebbe l’Europa nelle condizioni di non poter restare con le mani in mano.

Che gli eventi in Libia si susseguano a un ritmo incalzante, mentre l’opinione pubblica italiana e la sua classe politica continuano a trastullarsi con discoteche e mascherine, incuranti dell’ormai quasi totale estromissione del nostro paese da quello scenario, ce lo raccontano due film russi: uno uscito a maggio e il suo sequel annunciato sul web per l’autunno.

Parliamo di Shugaley, un lungometraggio che racconta la vicenda di una squadra di sociologi russi, impegnati in un’indagine demoscopica in Tripolitania, che finiscono per essere imprigionati illegalmente dagli uomini della milizia salafita Rada, di fatto alle dipendenze del ministero degli Interni del GNA.

Si tratta di una storia vera, divenuta negli ultimi mesi un vero e proprio caso diplomatico che sta complicando non poco i rapporti tra Mosca e Ankara: il sociologo Maxim Shugaley e il suo interprete dall’arabo Samer Sweifan hanno trascorso, infatti, diversi mesi in stato di detenzione nella prigione di Mitiga, situata nei pressi del locale aeroporto, tristemente nota per le torture  a cui sono sottoposti i prigionieri. Proprio del loro sequestro e delle violenze subite, oltre che degli intrighi di cui sono vittime a causa della loro ricerca, raccontava la trama del film andato in onda sui canali federali russi, diretto da Denis Neimand.

Il clamore suscitato presso il pubblico dalla vicenda, ha indotto il Cremlino ad avanzare formale richiesta di rilascio dei due cittadini russi illegalmente detenuti ai vertici del governo tripolino.

La stessa Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, aveva assicurato la loro imminente liberazione, che però ad oggi ancora non è avvenuta.

Da qui la decisione di realizzare un sequel, Shugaley 2, diretto questa volta da Maxim Brius.

La seconda parte del film si preannuncia avvincente quanto la prima, con la speciale caratteristica di narrare fatti avvenuti recentissimamente e che spesso concernono le trame ordite non solo dagli emissari del governo di Erdogan in Tripolitania, ma anche dei Fratelli Musulmani i cui stretti rapporti con le leadership turca e del GNA sono note e di fatto forniscono la base ideologica al neo-osmanesimo che ispira la politica estera erdoganiana.

Suggestioni geopolitiche che vogliono legittimare storicamente la sua aggressività geopolitica e che hanno portato la Turchia non solo ad entrare prepotentemente nelle questioni libiche, ma negli anni scorsi anche in quelle legate al Corno d’Africa ed in particolare alla Somalia (come ha dimostrato la recente vicenda della cooperante italiana Silvia Romano) e ai Balcani.

Tuttavia è proprio negli ultimissimi mesi che Ankara sembra essersi fatta oltremodo intraprendente, sfruttando anche le circostanze di un’Europa frastornata dalla pandemia e di un’Italia ormai assente dal contesto mediterraneo: alle numerose e dure frizioni con la Grecia legate alle esplorazioni petrolifere nell’Egeo e ai flussi migratori, si sono aggiunte le tensioni con la Francia, che nei giorni scorsi ha deciso di rafforzare la propria presenza nel Mediterraneo orientale inviandovi alcune navi militari per supportare Atene e indurre Ankara a più miti consigli.

La risposta non si è fatta attendere: è di ieri la notizia di un accordo siglato dai ministri della Difesa di Qatar e Turchia e dal loro omologo viceministro del GNA, volto ad offrire a Tripoli maggiore sostegno militare. In questo ambito, alla Turchia, secondo quanto riferito dall’emittente libica “218 tv” vicina al generale Haftar, sarebbe stato dato in concessione per 99 anni il porto di Misurata, la strategica città libica dove è collocato l’ospedale da campo militare italiano. Secondo alcuni esperti, la visita a Tripoli del ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, avvenuta in concomitanza con il vertice che ha visto protagonisti Salah Al-Namroush(GNA), Hulusi Akar(Turchia) e Khaled al Attiyah (Qatar), non sarebbe casuale.

Di fronte a simili sommovimenti, non sarebbe sbagliato se qualcuno in Italia desse una sbirciatina a come gli sceneggiatori russi descrivono le vicende libiche in Shugaley. Tra i palazzi governativi e i vicoli della medina di Tripoli compaiono tutti: americani, francesi, egiziani, qatarini, russi, turchi, emiratini, fratelli musulmani, ma mai gli italiani.

Sintomatico. Fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile raccontare quel contesto senza tenere in considerazione il Belpaese.

 

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