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9 Giugno 2021

I popoli indigeni hanno vissuto in modo sostenibile in Amazzonia per 5000 anni

Per millenni, le popolazioni indigene hanno vissuto nella foresta pluviale senza causare perdite o disturbi alle specie 

Lo studio “A 5,000-year vegetation and fire history for tierra firme forests in the Medio Putumayo-Algodón watersheds, northeastern Peru”, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) da un team internazionale di ricercatori guidato dall’antropologa Dolores Piperno dello Smithsonian National Museum of Natural History, ha scoperto nuove prove che i popoli indigeni preistorici non hanno alterato significativamente vaste aree di ecosistemi forestali nell’Amazzonia occidentale, preservando efficacemente le foreste pluviali, non modificandole o utilizzandole in modi sostenibili che non hanno rimodellato la loro composizione.
I nuovi risultati sono gli ultimi di un lungo dibattito scientifico su come gli esseri umani che sono vissuti in Amazzonia abbiano storicamente plasmato la ricca biodiversità della regione e i sistemi climatici globali, presentando nuove implicazioni su come la biodiversità e gli ecosistemi dell’Amazzonia possano essere meglio conservati e protetti oggi.
Allo Shitsonian ricordano che «Negli ultimi anni, la comprensione della foresta pluviale amazzonica da parte degli scienziati è stata sempre più informata da un corpus di ricerche che suggerisce che il territorio sia stato attivamente, intensamente modellato dalle popolazioni indigene prima dell’arrivo degli europei. Alcuni studi attribuiscono le specie arboree che ora dominano la foresta alla gestione umana preistorica e all’ingegneria del paesaggio. Altri lavori postulano che quando i colonizzatori europei causarono enormi perdite agli indigeni amazzonici, con malattie, schiavitù e guerra, l’improvvisa interruzione della manipolazione su scala territoriale portò a così tanta ricrescita forestale che causò un calo globale dell’anidride carbonica atmosferica che portò a un cambiamento culminante in quella nota come “Piccola era glaciale”».
Ora un nuovo studio condotto da ricercatori smithsoniani, pubblicato il 7 giugno sulla rivista, suggerisce che almeno negli ultimi 5.000 anni, vaste aree della foresta pluviale dell’Amazzonia occidentale situate lontano dai terreni fertili vicino ai fiumi non sono state periodicamente sgomberate con il fuoco o soggette a un uso intensivo del suolo da parte della popolazione indigena prima dell’arrivo degli europei.
Ora, il nuovo studio fa irruzione in questo dibattito quasi decennale sull’influenza umana preistorica nella più grande foresta pluviale del mondo. La Piperno evidenzia che «Lungi dall’implicare che complessi insediamenti umani permanenti in Amazzonia non abbiano avuto alcuna influenza sul territorio in alcune regioni, il nostro studio aggiunge molte più prove che indicano che la maggior parte del grave impatto della popolazione indigena sull’ambiente boschivo era concentrata nei terreni ricchi di nutrienti vicino ai fiumi e che il loro utilizzo della foresta pluviale circostante era sostenibile, senza causare perdite o disturbi rilevabili alle specie, nel corso dei millenni».
Per capire quale sia stata l’estensione e la scala della modifica provocata dagli indigeni dell’Amazzonia, gli autori dello studio hanno raccolto e analizzato una serie di carotaggi di suolo lunghi circa 1 metro estratti da tre 3 siti in un angolo remoto ord-orientale del Perù. I siti si trovano tutti a a circa 1 chilometro di distanza dai corsi fluviali e dalle pianure alluvionali, note ai ricercatori come zone interfluviali. I ricercatori sottolineano che «La foresta interfluviale comprende oltre il 90% della superficie dell’Amazzonia ed è quindi cruciale per determinare l’estensione dell’influenza indigena sul territorio, proprio perché la maggior parte dei principali insediamenti identificati dagli archeologi finora sono vicini ai fiumi».
La Piperno e il suo team hanno utilizzato ii carotaggi per realizzare in ogni sito cronologie della vita vegetale e della storia del fuoco che risalgono a circa 5.000 anni fa. Per farlo, gli scienziati hanno estratto antiche particelle microfossili di piante morte chiamate fitoliti e hanno cercato tracce di fuochi, come carbone o fuliggine. Il fuoco, in un territorio dove cadono più di 3 metri di pioggia all’anno, è quasi sempre di origine umana e sarebbe stato determinante nella “bonifica” di vaste aree di terra per utilizzi umani, come l’agricoltura e gli insediamenti.
Il team ha identificato a quale tipo di pianta apparteneva ogni fitolite confrontandoli con una libreria di riferimento comparativa di piante moderne e ha utilizzato la datazione al radiocarbonio per rivelare quanto tempo fa vivevano le piante. La datazione sia dei fitoliti che del carbone ha determinato l’età dei fossili vegetali e di eventuali resti di fuoco trovati in un carotaggio. Infine, i ricercatori hanno anche condotto indagini sulle foreste moderne che si estendono intorno a ciascun carotaggio. Questi inventari forestali hanno dimostrato la vertiginosa diversità della regione, producendo 550 specie arboree e altre 1.300 specie di piante.
La Piperno evidenzia che tutte le analisi puntavano nella stessa direzione: «Non abbiamo trovato prove di piante coltivate o di agricoltura taglia e brucia; nessuna prova di disboscamento; nessuna prova per la realizzazione di giardini forestali. Questi sono molto simili ai risultati di altre regioni dell’Amazzonia. Ora abbiamo una notevole quantità di prove che alterazioni estese e massicce della foresta nelle aree interfluviali dell’Amazzonia non si sono verificate nella preistoria».
Invece, davanti agli occhi dei ricercatori è emerso «Un ecosistema della foresta pluviale che è rimasto relativamente stabile per migliaia di anni ed è molto simile a quelli che si trovano ancora oggi in regioni altrettanto indisturbate». La Piperno aggiunge che «Questo significa che ecologi, scienziati del suolo e climatologi che cercano di comprendere le dinamiche ecologiche di questa regione e la capacità di stoccare carbonio possono essere certi che stanno studiando foreste che non sono state pesantemente modificate dalle persone. Ma significa anche che non dovremmo presumere che le foreste una volta fossero resistenti di fronte a significativi disturbi del passato. Questo ha importanti implicazioni per un buon uso sostenibile del suolo e per le politiche di conservazione, perché tali politiche richiedono un’adeguata conoscenza degli impatti antropici e naturali del passato sull’ecosistema amazzonico, insieme alle sue risposte».
Alla luce di questi risultati, Piperno e il team di ricerca dicono che «E’ anche poco plausibile l’idea che la riforestazione a seguito dell’arrivo degli europei abbia innescato la piccola era glaciale. Senza un significativo disboscamento delle foreste in queste e in altre regioni studiate dal nostro team e da altri, sembra improbabile che ci sia stata una rigenerazione forestale sufficiente da aver impattato sull’anidride carbonica globale dopo il contatto europeo».
Per quanto riguarda il motivo per cui non sembra esserci stata alcuna modifica su vasta scala dell’Amazzonia interfluviale, la spiegazione più semplice per il modello potrebbe essere nel terreno, che ha così pochi nutrienti che non sarebbe stato adatto per coltivare e per altre manipolazioni vegetali rispetto alle aree sulle rive del fiume e le pianure alluvionali.
Intervistata da BBC News, Suzette Flantua dell’università norvegese di Bergen e ricercatrice nel progetto Humans on Planet Earth (Hope), ha detto che «Questo è stato uno studio importante per elaborare la storia dell’influenza umana sulla biodiversità in Amazzonia. Ma è come assemblare un puzzle di dimensioni ridicole in cui studi come questo stanno lentamente costruendo prove che supportano o contraddicono la teoria secondo cui l’Amazzonia di oggi è una grande foresta secondaria, dopo migliaia di anni di gestione umana. Sarà affascinante vedere quale parte avrà le prove più conclusive».
La Piperno ha concluso: «C’è ancora molto lavoro da fare in altre regioni ancora non studiate, lontano dalle rive de i fiumi e dalle pianure alluvionali, per ottenere una visione più ampia della vasta Amazzonia e che i risultati del team non implicano che nella regione non si sia verificata alcuna forma di gestione forestale indigena, solo che non è stata abbastanza intensa da presentarsi nei carotaggi  del suolo. Per me, questi risultati non dicono che la popolazione indigena non stava usando la foresta, solo che l’hanno usata in modo sostenibile e non hanno modificato molto la composizione delle sue specie. Non abbiamo visto diminuzioni della diversità vegetale nel periodo di tempo che abbiamo studiato. Questo è un luogo in cui gli esseri umani sembrano essere stati una forza positiva in questo territorio e  per la sua biodiversità nel corso di migliaia di anni. I popoli indigeni hanno un’enorme conoscenza della loro foresta e del loro ambiente, e questo deve essere incluso nei nostri piani di conservazione».
La Flantua, che non ha partecipato al nuovo studio è d’accordo: «Più aspettiamo, più è probabile che tale conoscenza venga persa. Ora è il momento di integrare conoscenze e prove e stabilire un piano di gestione sostenibile per l’Amazzonia e la presenza umana preistorica dovrebbe essere inclusa».


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12 Febbraio 2021

La foto dallo spazio della corsa all’oro che distrugge l’Amazzonia peruviana

A Madre de Dios i “fiumi d’oro” devastano la foresta pluviale e che avvelenano biodiversità, habitat e comunità indigene

Il 24 dicembre 2020, un astronauta a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) ha scattato la foto di numerosi pozzi di prospezione per estrarre oro nel Perù orientale. Alla NASA spiegano che «Le fosse, solitamente nascoste alla vista di un astronauta dalla copertura nuvolosa o al di fuori del glint point del Sole, risaltano chiaramente in questa immagine a causa della luce solare riflessa». Sul lato sinistro dell’immagine sono visibili molti canali serpeggianti del fiume Inambari che attraversa quella che dovrebbe essere l’altrimenti ininterrotta foresta pluviale amazzonica nella regione di Madre de Dios in Perù.
La NASA spiega ancora che «In questo clima molto umido, i pozzi di prospezione appaiono come centinaia di bacini pieni d’acqua strettamente delimitati. Probabilmente scavata dai garimperos (minatori indipendenti e asbusivi), ogni fossa è circondata da aree fangose prive di vegetazione. Questi tratti disboscati seguono il corso di antichi fiumi che depositavano sedimenti, compreso l’oro».
Per farsi un’idea del territorio compreso nella foto e della devastazione in atto:  il tratto occidentale al centro dell’immagine è lungo 15 chilometri.
Il Perù è il sesto produttore di oro al mondo e Madre de Dios ospita una delle più grandi industrie minerarie indipendenti (e spesso abusiva) al mondo. In  questa regione del Perù l’estrazione mineraria è la principale causa di deforestazione e spesso causa inquinamento da mercurio dovuto al processo di estrazione dell’oro. Eppure decine di migliaia di persone si guadagnano da vivere grazie a questa attività mineraria illegale.
La cittadina di Nueva Arequipa è appena visibile lungo la Southern Interoceanic Highway. Inaugurata nel 2011, la contestata autostrada che è l’unico collegamento stradale tra Brasile e Perù e che avrebbe dovuto stimolare il commercio e il turismo, ma  si è rivelata un asse di penter<trazione per le attività minerarie illegali e legali e il cui risultato finale è stato quello di provocare un’estesa deforestazione. Alcune aree di di Madre de Dios, come la Reserva Nacional de Tambopata, sarebbero protette dall’estrazione mineraria.
La foto scattata dall’astronauta dell’equipaggio della della Expedition 64 il 24 dicembre ed è stata pubblicata ieri dall’ISS Crew Earth Observations Facility e dalla Earth Science and Remote Sensing Unit del Johnson Space Center e si tratta di un’immagine rara e straordinaria che rivela quanto sia estesa la devastazione provocata dall’estrazione illegale di oro nella foresta pluviale amazzonica del Perù, creando veri e propri “fiumi d’oro”. Nonostante le promesse fatte anche a Papa Francesco durante la sua visita nell’Amazzonia Peruviana, Madre de Dios, uno degli hot spot mondiali della biodiversità, continua a ospitare un’enorme industria illegale e non regolamentata con migliaia di minatori che cercano di guadagnarsi da vivere distruggendo e avvelenando habitat vitali e territori indigeni.
Uno studio pubblicato nel gennaio 2019 dal Monitoring of the Andean Amazon Project ha rivelato che solo nel 2018 la deforestazione causata dell’estrazione dell’oro aveva distrutto circa 22.930 acri dell’Amazzonia peruviana.
A causa dell’aumento del costo dell’oro, le persone delle comunità locali, spesso poverissime e svantaggiate, vedono l’opportunità di guadagnarsi da vivere con l’attività mineraria illegale. Nel 2012, nella regione amazzonica peruviana c’erano circa 30.000 garimpeiros al lavoro, ora si pensa che siano molti di più.
In un’altra regione del Perù, La Pampa, la corsa all’oro durata 10 anni alla fine è stata interrotta dal governo

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