La Deportazione Femminile nella Storiografia Tedesca
di Adriana Lotto


Dal sito della bella rivista telematica "Deportate, esuli, profughe.
Rivista telematica di studi sulla memoria femminile" (venus.unive.it/rtsmf)
riportiamo ancora una volta il seguente testo. Adriana Lotto e' presidente
dell'"Associazione culturale Tina Merlin"

Dopo il silenzio degli anni Cinquanta, piu' tardi interpretato come
"l'amnesia di una generazione colpevole" (Michael Geyer, La politica della
memoria nella Germania contemporanea, in Leonardo Paggi, a cura di, La
memoria del nazismo nell'Europa di oggi, La Nuova Italia, 1997, p. 265), di
tanto in tanto interrotto dalle voci isolate dei sopravvissuti e delle
sopravvissute, alla fine degli anni Sessanta il disagio forte della nuova
generazione dinanzi a padri e madri assenti, l'infittirsi di adunate
neo-naziste, segno di una continuita' sotterranea col passato regime,
nonche' la proliferante pubblicistica della Ddr tesa a segnare confini netti
tra un passato nazista e un presente-futuro socialista contribuirono,
assieme ad altri fattori, ad alimentare una politica della memoria che
denunciando il passato valesse per l'oggi: desse, cioe', alla Germania,
rimpossessatasi di quel passato, una nuova identita' e con essa la certezza
che quel che era stato non sarebbe mai piu' tornato. Fu cosi' che i tedeschi
uscirono dalla loro smemoratezza, tanto che negli anni Settanta la storia
del Terzo Reich divento' oggetto pressante e frequente dell'indagine
storiografica.
Sulla base delle memorie dei prigionieri, che subito dopo essere stati
liberati avevano raccontato la loro prigionia, e dei documenti salvati dalla
distruzione operata dagli stessi nazisti, sorse una vasta letteratura sulla
storia di alcuni campi di concentramento, sulle condizioni di vita e di
lavoro dei prigionieri e sulla loro resistenza al sistema di annientamento;
una resistenza che spesso traeva forza dalla difesa di se', dal voler
mantenere a tutti i costi la propria dignita' di persona. Lavori come quello
di Eugen Kogon, Der SS-Staat. Das System der deutschen Konzentrationslager
(Monaco 1977), o quello di Hermann Langbein, Menschen in Auschwitz, uscito
per la prima volta a Vienna nel 1972, e dello stesso autore, ...nicht wie
die Schafe zur Shlachtbank. Widerstand in den nazionalsozialistischen
Konzentrationslagern 1938-1945 (Francoforte 1980) furono fondamentali;
tuttavia, nello sforzo di spiegare le persecuzioni come funzionali ad un
sistema di terrore pianificato, finirono coll'equiparare l'esperienza delle
donne a quelle degli uomini o col parlare di esperienza dei campi in
generale, senza cioe' distinzione di sesso. Limitazione questa di cui
soffrono ancora talune pubblicazioni recenti. Ad esempio il volume di Falk
Pingel uscito ad Amburgo nel 1978 sotto il titolo Haeftlinge unter
SS-Herrschaft. Widerstand, Selbstbehauptung und Vernichtung im
Konzentrationslager, oppure quello di Johannes Tuchel, Konzentrationslager.
Organisationsgeschichte und Funktion der Inspektion der Konzentrationslager
(Boppard sul Reno 1991), e di Wolfang Sofsky, Die Ordnung des Terrors: das
Konzentrationslager, apparso a Francoforte nel 1993 e tradotto in italiano
da Laterza nel 1995 col titolo L'ordine del terrore. Nessuno dei lavori
sopracitati perdeva di vista la sofferenza umana pur avendo, soprattutto
l'ultimo, lo scopo di dare razionalita' all'irrazionalita'; ma ancora una
volta usando il termine neutro Haeftlinge, prigionieri, si trascuravano di
fatto le differenze di genere di fronte alla violenza e ai suoi meccanismi
di produzione.
*
A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta apparvero lavori di ricerca
condotti da donne e aventi come oggetto la resistenza attiva di donne contro
il nazismo, documentata altresi' dagli atti ufficiali della Gestapo e delle
SS. Volumi come Frauen in deutschen Widerstand 1933-1945 (Francoforte 1978)
di Hanna Elling, e Frauen leisten Widerstand: 1933-1945. Lebengeschichten
nach Interviews und Dokumenten, pubblicato a Francoforte nel 1983 da Gerda
Szepansky, raccoglievano storie di vita di donne politicamente attive, che
avevano avuto un certo ruolo nella resistenza al nazismo. Una resistenza che
nei territori occupati era armata, come racconta Ingrid Strobel nel suo "Sag
nie, du gehst den letzten Weg". Frauenwiderstand gegen Faschismus und
deutsche Besatzung (Francoforte 1989).
In questi lavori, pero', nel mentre si poneva l'accento sull'attivita'
antinazista, si taceva delle sofferenze e della morte di innumerevoli altre
donne, donne comuni e pertanto sconosciute. Dall'altra parte, alla fine
degli anni Settanta, si cominciava a studiare la posizione delle donne
dentro il nazismo e a concentrare l'attenzione su coloro che non erano state
perseguitate, cosi' che, all'inizio del decennio seguente, apparve una serie
di ricerche sulla politica nazista del lavoro femminile che poneva l'accento
sulla specifica strumentalizzazione delle donne sia nella riproduzione che
nella produzione. In questo modo pero' tutte le donne venivano considerate
vittime di una politica di genere dominata dai maschi e che non era
prerogativa del nazismo ma anche del periodo antecedente. Fu il
"Frauengruppe Faschismusforschung" nel suo Mutterkreuz und Arbeitsbuch. Zur
Geschichte der Frauen in der Weimarer Republik und im Nationalsozialismus
(Francoforte 1981) a indagare il comportamento politico e sociale delle
donne nella Repubblica di Weimar e durante il nazismo. Altri studi presero
invece in esame le organizzazioni nazionalsocialiste delle donne e delle
ragazze, le modalita' di reclutamento, le attivita' che svolgevano e
l'influenza che esercitavano. In questo modo emerse la questione della
responsabilita', ossia del collaborazionismo e dell'attivismo, bene
analizzata nel contributo di Dagmar Reese e Carola Sachse, Frauenforschung
zum Nationalsozialismus. Eine Bilanz, apparso nel volume curato da Lerke
Gravenhorst e Carmen Tatschmurat, Toechter-Fragen. NS-Frauen-Geschichte
(Freiburg 1990).
*
Fu proprio a partire da queste tematiche che si sviluppo' in tempi piu'
recenti tra le ricercatrici un dibattito serrato. Ad essere criticate furono
le premesse e gli obiettivi della ricerca, troppo a lungo, si disse, e
troppo marcatamente condizionati o addirittura appiattiti sulle
"congiunture" del movimento femminista. Secondo Lerke Gravenhorst questo
fece si' che le ricercatrici assumessero la storia del nazismo come la loro
identita' negativa. La discussione fu promossa soprattutto dalla tesi di
Claudia Koonz ( Muetter in Vaterland. Frauen im Dritten Reich, Freiburg
1991, tradotto in italiano da Giunti nel 1996 col titolo Donne del Terzo
Reich), secondo la quale le donne avrebbero collaborato col nazismo anche e
proprio nella loro funzione apolitica di massaie e madri. L'intreccio
razzismo/sessismo avrebbe fatto si', nel suo profondo radicamento sociale,
che da un lato la donna "ariana" fosse considerata mero strumento di
riproduzione della "razza germanica", dall'altro che l'istinto materno fosse
il piu' grande peccato contro natura e "femminili" venissero etichettati i
popoli da sottomettere o da eliminare. Anche Gisela Bock
(Zwangssterilisation im Nationalsozialismus: Studien zur Rassenpolitik und
Frauenpolitik, Opladen 1986) esaminando il contributo delle donne comuni
tedesche al nazismo come infermiere e funzionarie, sottolineava la loro
responsabilita' nella politica demografica del regime, mirante attraverso
una riproduzione controllata e aborti coatti a selezionare il patrimonio
genetico nazionale. Tuttavia anche se questo dibattito - denominato
Historikerinnenstreit - riportava l'attenzione sulla responsabilita' delle
donne nel nazismo, esso continuava a occuparsi prevalentemente di tedesche
borghesi o casalinghe. Donne ebree, di colore, appartenenti alle minoranze
etniche misero subito in evidenza che la ricerca sulle donne non poteva
limitarsi solo al loro ruolo nel nazismo. Occorreva condurre ricerche
scientifiche sulla sorte delle donne perseguitate dal nazismo, la cui
mancanza era legata tanto alla rimozione della responsabilita' femminile nel
nazismo, dettata dal generale senso di colpa e di vergogna, quanto alla
presa di distanza critica delle cosiddette minoranze.
*
La discrepanza tra la carente produzione storiografica sulle donne nei campi
di concentramento e il bisogno delle donne allora internate di raccontare la
loro esperienza e' significativa dell'abbondanza di pubblicazioni
autobiografiche di cui si occupo' Rolf Krause nel suo Autobiografisches
Schreiben als Spaeform der Baewaltigung der Verfolgung (Hannover 1989). Dei
circa 450 titoli che uscirono in lingua tedesca, Il 25% comparve negli anni
tra il 1945 e il 1950, mentre dal 1979 al 1988 vide la luce un terzo di
tutti i testi elaborati da donne.
Tuttavia questa letteratura non era ancora "tipica". Perche' lo diventasse
occorreva che memorie e ricerca storica si incontrassero. E cio' avvenne
negli anni Novanta. Sul piano generale, in un quadro di responsabilita'
collettiva e insieme di assunzione della prospettiva delle vittime, questo
significo' non solo cogliere appieno la natura distruttiva e la portata
devastante del nazismo, ma, proprio per questo, impedire che esso,
incasellato in un continuum storico, scomparisse dentro la storia nazionale,
venisse archiviato e sottratto al giudizio morale. Dal punto di vista di
genere si introdusse un'ottica complementare, non certo di confronto.
La ricerca si oriento' sui campi prevalentemente femminili come Ravenbrueck
e Bergen Belsen, ne ricostrui' la storia, l'organizzazione, il sistema di
sorveglianza, con particolare attenzione ai rapporti interni a quella
comunita' e alle condizioni di vita. In altre parole, nel volume curato da
Claus Fuellberg-Stolberg - Martina Jung - Renate Riebe - Martina
Scheitenberger, Frauen in Konzentrationslagern. Bergen-Belsen. Ravensbrueck
(Brema, 1994), ci si comincio' a chiedere che cosa avesse significato essere
internata come donna; se c'erano state forme di resistenza femminile,
strategie di conservazione di se' e di sopravvivenza, se le donne erano
state umiliate e prostrate in modo particolare proprio in quanto donne.
Questioni come queste, avvertivano i curatori, non intendevano in nessun
caso misurare il dolore delle donne e degli uomini e dire magari che le
prime avevano sofferto di piu'. Si trattava piuttosto, nella ricerca sui
campi di concentramento nei quali si opero' una sistematica disumanizzazione
delle vittime, di assumere la categoria di genere e di far uscire le donne
dall'anonimato che si celava dietro la parola "prigioniero".
Il "potere assoluto" delle SS privava i prigionieri dell'orientamento nel
tempo e dello spazio cosi' come di qualsiasi relazione sociale e le
assoggettava a un regime di terrore. Scopo di questo sistema era anche
livellare la differenza di sesso. Molte donne raccontano che dopo lo shock
ebbero la sensazione di non essere piu' donne. Il Lager come "istituzione
totale" e la violenza delle SS avevano come scopo la distruzione
dell'identita' personale e con essa anche quella di genere. Questo valeva
per tutti gli internati, ma per le donne assunse forme specifiche e su di
esse ebbe altre ripercussioni che sugli gli uomini.
Da un lato le SS volevano ridurre le prigioniere a vittime senza genere, ma
nello stesso tempo sfruttarono il genere femminile con la piu' alta
scrupolosita'. Le defatiganti procedure di entrata nel campo e la
documentata prostituzione coatta nei campi dimostravano che la violenza
sessuale nei campi era ben presente. Questa ambivalenza indicava che era
importante includere nella ricerca sull'internamento la categoria genere
accanto a quelle di religione, nazionalita', appartenenza etnica.
Significativo e' a tal proposito sia il volume di Christa Paul sulla
prostituzione coatta (Zwangsprostitution: Staatlich errichtete Bordelle im
Nationalsozialismus, Berlin 1994), che quello di Martina Dietrich sul lavoro
coatto, Zwangsarbeit in Genshagen, Brandenburgo 1996.
Negli anni Novanta, la ricerca prese dunque una nuova direzione, tenendo ben
presente che indagare e descrivere i comportamenti delle donne non
significava relativizzare, bensi' rispondere in maniera articolata
all'immagine "totale" che dei campi di concentramento era stata data.
Significava mettere in luce che la decisione di "resistere" non sempre
derivava da "virtu' eroica", magari ideologicamente marcata, ma da spinte
incontenibili che dimostravano come il valore della vita, la dignita' degli
essere umani erano infinitamente superiori a qualsiasi tentativo di
annichilirli.
*
Nel corso degli ultimi anni la ricerca si e' articolata sulle biografie,
ovvero sulle storie di vita delle sopravvissute, con particolare attenzione
al momento della liberazione e al dopo. Anche la nazionalita' ha costituito
un criterio di ulteriore articolazione dell'esperienza concentrazionaria
soprattutto in riferimento alle donne russe e slovene. In altre parole, la
ricerca ha, da un lato, abbandonato il discorso generico sulle donne,
scavando dentro le diverse esperienze ed esistenze, dall'altro ha colmato un
vuoto pubblicistico di memorie di donne vissute nei regimi comunisti.

TOP