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16 maggio 2012

Il fiorire della vita, il lavoro e la decrescita
di Paolo Cacciari

 Il testo è stato scritto in preparazione della Conferenza internazionale sulla decrescita, in programma a Venezia di settembre (tra i cui relatori ci saranno Serge Latouche, Joan Martinez Alier, Helena Norberg Hodge, Silvia Pérez-Vitoria, Riccardo Petrella, Marcelo Barros, Ignatio Ramonet, Marco Deriu, Maurizio Pallante, Luca Mercalli…) e di alcuni seminari promossi in questi mesi dall’Associazione per la decrescita. Un lungo saggio che preferiamo pubblicare nella versione completa per la ricchezza delle informazioni raccolte e per l’urgenza di approfondire questi temi. Che confermano come anche dal basso sia in corso un’insurrezione.

 

Decrescita e lavoro

«La decrescita indica la direzione nella quale bisogna andare e invita ad immaginare come vivere meglio consumando e lavorando meno e altrimenti». (André Gorz)

Premessa

La questione del lavoro (dell’impiego socialmente utile delle facoltà umane) è cruciale per rendere comprensibile e accettabile (finanche desiderabile) l’idea della decrescita intesa come etica della liberazione dal dominio della ragione economica, conversione ecologica, bio-umanesimo, altro.

È infatti evidente che per riuscire a distinguere crisi/recessione/depressione/inoccupazione (la decrescita nefasta) da sostenibilità/equità/bien vivir (la decrescita benefica) è necessario chiarire il diverso ruolo del lavoro: nel primo scenario (quello realmente esistente) siamo in presenza di un fenomeno prevalente di progressiva svalorizzazione delle attività umane (in tutti i termini quali/quantitativi e non solo del lavoro manuale, faticoso, ripetitivo, con meno apporto creativo), nel secondo scenario (quello auspicato dai sostenitori della decrescita) il lavoro dovrebbe assumere significati e funzioni individualmente e socialmente più rilevanti, riconosciuti e apprezzabili (anche in qualche forma “economica” così da garantire un’esistenza dignitosa e autonomia a tutte le persone).

Quale potrebbe essere il futuro del lavoro? Questa è la sfida: riuscire a dimostrare che in un altro contesto sociale (inevitabilmente radicalmente trasformato) ci potrebbe essere lavoro dignitoso, soddisfacente e sufficiente per tutte e tutti.

Per alcuni la trasformazione richiesta nell’organizzazione sociale, economica e del lavoro potrà essere graduale, ma alla fine tale da fuoriuscire dalle logiche del mercato iscrivendosi in una dimensione post-capitalistica. Latouche tra questi: “ Va organizzata una transizione non traumatica, più o meno lunga, verso una società in cui il lavoro (quello convenzionale, retribuito, eteronomo, frutto dell’economia formale, ndr) sarà abolito in quanto significazione immaginaria centrale. Per rendere più sereno il passaggio dal vecchio ordine al nuovo e dare alle persone il tempo di adattarsi, si potrebbero tradurre gli aumenti di produttività, fino a quando questa nozione continuerà ad avere un senso, in riduzione del tempo di lavoro e in creazione di occupazione, senza incidere sui livelli salariali, né sul livello di produzione finale, salvo cambiarne il contenuto” (p. 68-69).

Altri (la rassegna di Colin C. Williams individua vari filoni di pensiero e vari esempi pratici: “Third Way”, “Green Vision”, “Post-Employment Work”…) pensano che il futuro del lavoro sia possibile come “multi attività” (un mix di forme di organizzazione del lavoro formale e informale, retribuito e non, socialmente predeterminato e scelto volontariamente…) nel contesto di una “economia plurale”. Su questa linea possibilista e di coesistenza si colloca il Wuppertal Insitute: “In una società delle molteplici attività il lavoro retribuito e sempre più intrinsecamente motivato non diventerà superfluo” (299). Anche Marco Deriu immagina “una società dove diverse forme di produzione, autoproduzione, riciclo, rigenerazione, scambio, condivisione e dono vivranno intrecciate l’una con l’altra e occorrerà abbastanza flessibilità nella nostra mente per sapere tenere assieme creativamente tutto questo per dargli una forma conviviale di buon vivere”.

Comunque, decrescita non deve comportare maggiore inoccupazione e più povertà, ma attività lavorative meglio distribuite e più “remunerate” (proporzionalmente parametrate ai bisogni e relativamente alla qualità dei prodotti forniti).

La strada per arrivare ad un simile risultato prevede un diverso equilibrio e una diversa sinergia tra diversi modi di produzione (per dirla secondo lo schema di Illich): quello eteronomo (dipendente dal mercato e finalizzato alla produzione delle merci) e quello autonomo (conviviale, finalizzato alla realizzazione di valori d’uso).

Serve quindi una progressiva diminuzione del lavoro procapite (media delle ore di lavoro individuale) subalterno necessitato, da una parte, e l’aumento del tempo a disposizione per attività libere e scelte, dall’altra. Senza sottovalutare il fatto che “la creazione di valori d’uso sottratta a un calcolo preciso (la produzione di merci per il mercato, ndr) pone un limite non soltanto al bisogno di ulteriori merci, ma anche ai posti di lavoro che producono tali merci e alle relative buste paga occorrenti per acquistarle” (p.69). Va quindi sinceramente riconosciuto che i due modi di produzione (chiamiamoli: capitalistico e conviviale) hanno punti di attrito perché reciprocamente limitanti. Più uno si espande, più limita il campo dell’altro. Almeno che non cambi contemporaneamente anche la qualità delle merci prodotte dal lavoro subordinato retribuito. Globalizzazione, mercificazione, mercatizzazione, commercializzazione… sono le cifre della colonizzazione capitalistica del mondo e delle persone.

Il nodo centrale è che la ripartizione equa, tendente alla diminuzione complessiva, del volume di lavoro retribuito (determinato dal mercato) e necessario ai singoli lavoratori per acquistare ciò di cui non possono fare a meno, avvenga senza perdita di reddito. Mentre sul piano macroeconomico l’operazione è del tutto concepibile e calcolabile razionalmente (la enorme produttività crescente del lavoro crea maggiore ricchezza) sul piano attuativo pratico, in una economia basata sulla competitività da prezzo tra le singole imprese globalizzate, le difficoltà sono molte. Per cui è necessario che “La riduzione della durata del lavoro senza perdita di reddito deve essere concepita non come una misura, ma come una politica sostenuta da una accurata visione d’insieme” (Gorz, p.211). Ancora: “Una riduzione della durata del lavoro concepita non solatnto come lo strumento tecnocratico di una più equa ripartizione del lavoro, ma come la via in direzione di una società diversa, che offra alla gente più tempo disponibile “ (Peter Glotz, della SPD, citato da Gorz, p. 207).

Secondo Gorz la maggiore produttività ottenuta dal sistema produttivo (attraverso le innovazioni tecnologiche e organizzative) si traduce nel mondo attuale dominato dalla razionalità capitalistica nella “estensione della sfera economica” mercificata sotto forma di servizi specializzati remunerati, inglobando progressivamente “tutte le dimensioni della vita”, tutte le attività che fino ad allora erano autonome, spontanee: “le attività della festa, della prodigalità, dell’attività gratuita che non hanno altro scopo al di fuori di se stesse” (Gorz, p.13).

L’idea del lavoro conviviale, senza scopo di lucro, utile in sé, per sé e per gli altri, per l’assistenza, la cura e la comunità (gestione dei beni comuni) è molto affascinante e sostanzia l’orizzonte della società della decrescita, ma bisognerà fare moltissima attenzione a non idealizzare un mitico preesistente stato naturale del lavoro, in particolare e precisamente del lavoro domestico, di cura e di riproduzione, storicamente e culturalmente attribuito alle donne. Un lavoro che la sfera economica capitalistica non riconosce e non paga, ma non per questo è possibile affermare che si tratti di una attività liberamente scelta. Il dominio di genere maschile (androcentrismo, patriarcato) ha imposto lo sfruttamento e la segregazione delle donne in ruoli familiari non riconosciuti socialmente. Secondo i calcoli del WI in Europa le donne impegnano 31 ore al lavoro domestico e di assistenza (l’ “economia della vita”) contro le 19,5 degli uomini. Importante è sapere che nel complesso le ore dedicate gratuitamente all’economia della vita sono 98 miliardi all’anno (casa, autorproduzione, impiego civile) contro i 56 miliardi dedicati al lavoro convenzionale retribuito. “In Europa più della metà del lavoro svolto non è a scopo di lucro e non è retribuito (59%, contro il 35%)” (p.291), ma “il valore monetario dell’economia della vita non è facilmente quantificabile” e – ovviamente – non è conteggiato nel Pil.

Lo schema che separa lavoro subordinato da lavoro conviviale – valido sul piano concettuale – incontra oggi sempre più difficoltà pratiche operative. Le nuove tecnologie informatiche, biologiche, la biologia sintetica e la miniaturizzazione delle macchine comportano un altro problema, individuato da molti (Fumagalli, Sergio Bologna e altri) e ben descritto da Luciano Gallino: “Il lavoro invade tutto, ogni spazio e ogni tempo di vita (…) è la vita intera che viene messa al lavoro, senza distinzione di tempi e di spazi” (Gallino 2008). Ogni relazione umana viene catturata, studiata, riproposta sul mercato e messa a valore. La stessa distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita (tempo di produzione e tempo di riproduzione) è superata dalla pervasività dei meccanismi di controllo produttivi e di valorizzazione delle merci. Insomma, la mercificazione dei beni e dei servizi ha varcato la soglia che teneva separate le relazioni personali più intime, i sentimenti, gli affetti, la convivialità, la cura di se stessi e dei propri interessi culturali.

Non si tratta quindi (solo) di lavorare meno nella sfera del lavoro subordinato, e nemmeno (solo) di ipotizzare una migliore e più equa ripartizione di quel poco lavoro retribuito che è rimasto nei paesi di vecchia industrializzazione (riequilibrando la “divisione del lavoro” tra generi, aree geografiche e classi sociali) per aumentare la quota procapite del tempo di vita dedicata alle attività libere e volontarie (non remunerate da denaro), ma anche e contemporaneamente di cambiare le stesse modalità produttive e i prodotti del lavoro (cosa, come, dove, quanto, per chi produrre) in tutte e due le sfere (del lavoro impiegato subordinato retribuito, come delle attività non inquadrabili in una occupazione). Nondimeno dovrà cambiare anche la “domanda”, i bisogni, i desideri, i comportamenti, gli stili di vita… delle persone. Senza mettere in discussione i modi di viti non ci sarà “conversione” ecologica.

Si può ipotizzare di diminuire progressivamente il ricorso ai mercati agendo sia sui bisogni/desideri (autoproduzione, auto-aiuto, agricoltura contadina, artigianato, ecc.), sia sull’offerta dei beni e dei servizi mercificati (cioè con prodotti più duraturi, più fruibili collettivamente, con produzioni decentrate, meno energivore, meno dipendenti da poteri concentrati, ecc.).

In una parola, la decrescita mette in discussione non solo le quantità di lavoro in gioco, ma i paradigmi stessi su cui si basano i rapporti sociali di produzione capitalistici. Anche se si riuscisse a lavorare 21 ora al giorno (come sostengono i ricercatori della NEF), rimarrebbe tottalemnte in piedi il problema di cosa produrre durante quelle ore e di cosa fare nel restante “tempo liberato”. Anzi, più precisamente si potrebbe sostenere che il raggiungimento delle 21 ore di lavoro organizzato e subordinato alla produzione di merci scambiabili sul mercato è raggiungibile solo e nella misura in cui quelle merci siano diverse (durino più a lungo, non comportino la necessità di lavori aggiuntivi per il loro smaltimento e riutilizza, ecc.) e nella misura in cui il tempo liberato serva per produrre beni e servizi con un diretto valore d’uso.

Porre al centro dello sforzo lavorativo sociale non la produzione di merci, ma la preservazione degli stock e la vitalità dei cicli naturali (altrimenti chiamati risorse, materie prime, capitale naturale, ecosystem service… secondo un ottica antropocentrica e utilitaristica) e la piena realizzazione delle capacità creative e relazionali di ogni singolo essere umano (altrimenti chiamate risorse umane, capitale umano, capitale di reputazione, beni cognitivi…), significa rovesciare fin dalle fondamenta la teoria economica convenzionale, l’architettura giuridica-istituzionale (la sovranità della proprietà) e l’impalcatura ideologica – le strutture e le sovrastrutture – del sistema economico-sociale esistente fondato sulla ricerca dell’accrescimento del valore delle merci scambiate sui mercati.

Inoltre la riconcettualizzazione della attività lavorativa in chiave di autonomia, utilità effettiva, consapevolezza e responsabilità rimette in discussione gli strumenti utilizzati dal lavoro, le tecnologie e le scienze.

 

Il tema del lavoro nel pensiero dei precursori della decrescita è ben presente:

Joseph C.Kumarappa, Economia della permanenza (1945), ora nella raccolta Economia di condivisione, Quaderni Satyagrah 2012

Ernst Friedrich Shumacher, Piccolo è bello (in particolare il capitolo “Economia buddista”) (scritto nel 1973)

Ivan Illich, Convivialità (1973), Disoccupazione creativa (scritto nel 1978) e Lavoro Ombra (scritto nel 1982)

André Gorz, Addio al proletariato (1980), Metamorfosi del lavoro. Critica della ragione economica (1988) e poi Ecologica (2007).

 

Venendo all’oggi terrò presenti i testi citai in bibliografia.  Che cos’è lavoro?

Le tipologie del lavoro sono molte (Colin Williams). Anche se la possibilità di scegliere il lavoro è sempre più limitata.

C’è chi per lavoro intende solamente e semplicemente quel “fattore” o “mezzo” che combinandosi con il capitale investito in un macchinario lo rende produttivo. Insomma, il lavoro salariato subordinato, parasubordinato… scambiabile con denaro: il “lavoro astratto”, parcellizzato, scambiabile come merce. Quella particolare forma storica di lavoro alienato che ha separato il lavoro dalla vita (Marx). Ma si tratta di una concezione tremendamente parziale ed esclude la possibilità di fare cose utili ed “essere utili a sé stessi e agli altri al di fuori di un impiego (di una occupazione retribuita ndr)” Ciò che Illich (p.69) – con la sua solita dose di provocazione – chiamava “disoccupazione utile”. Pensiamo solo al lavoro domestico e di cura, all’agricoltura contadina, all’economia di sussistenza dei villaggi, all’economia informale, all’autoproduzione, al mutuo aiuto, all’artigianato di prossimità…

Se vogliamo liberarci dalle gabbie del sistema produttivo e sociale esistente, dobbiamo quindi riuscire a ri-concepire la possibilità di svolgere un tipo di lavoro autonomo, vitale, conviviale, orientato alla creazione di valori d’uso. Partendo da questa possibilità sarà possibile immaginare una “alternativa sociale” in cui vi sia “la libertà di essere utili senza partecipare alle attività che danno luogo alla produzione di merci” (Illich p. 71).

Sul piano teorico generale va ricordata come premessa la ambiguità irrisolta che il concetto di lavoro si porta dietro da sempre: attività necessaria per l’auto-sostentamento che consiste “nello sforzo messo in essere dai vari fattori – senzienti e non senzienti – che cooperano a completare il ciclo naturale della vita”, nella visione armonica di Kumarappa che definisce la funzione del lavoro “giusto” e “degno” quella capace di “sviluppare le più alte capacità degli esseri umani”, in cui prevale l’equilibrio e la condivisione della vita con gli altri, oppure, all’opposto, come condanna biblica: “con il sudore del tuo volto mangerai il pane (Genesi, 3,19)”, così che “lavoro e fatica sono diventati sinonimi, entrambi associati a tutte le qualità indesiderabili di una maledizione divina” (Nicola e Marco Costantino). Morale biblica ed etica del lavoro socialista, collimano.

Per Kumarappa nel lavoro ci sono due componenti: “l’elemento creativo che fa lo sviluppo e la felicità delle persone e la (inevitabile, ndr) componente di fatica e di disagio”. La routine e il piacere si devono alternare, altrimenti “la routine diventa fatica e il divertimento ozio”. “Il corpo umano ha bisogno di faticare. Un lavoro completo dà al nostro corpo energia e salute, come fa del resto una alimentazione equilibrata”. Questo equilibrio viene rotto quando interviene la violenza della divisione del lavoro attraverso i “metodi occidentali” e le macchine concepite per concentrare il potere, centralizzati e standardizzati di produzione industriale. Gli “astuti” tentano di acquisire il maggiore guadagno con il minore sforzo obbligando altri a lavorare per loro. Questo è lo “stadio della produzione predatoria”. I lavoratori diventano una specie di mano, mentre testa e cuore sono poco utilizzati”.

La contraddizione forse è da ricercare in origine, per tornane a Marx che individuava la distinzione tra lavoro inteso come Werke, il lavoro come impulso innato dell’essere umano alla creatività, e Arbeit, il lavoro coatto, alienato. Per usare categorie classiche e tentare di ridefinire un vocabolario che ridia senso e pregnanza alle parole, potremmo dire (utilizzando Hannah Arendt) che nel corso della modernità l’idea del lavoro (nello “statuto antropologico” che la società si è data) ha seguito una parabola: dal lavoro come attività libera e creativa, con uno scopo intrinseco e motivazioni proprie dell’homo faber, ad una idea di lavoro meramente strumentale che riduce l’essere umano ad animal laborans, pura appendice della megamacchina tecnico-economica.

Da qui l’oscillare della sociologia tra un’etica del lavoro come dovere oppure come emancipazione (diritto di cittadinanza e dovere di contribuire alla formazione della ricchezza collettiva); come rifiuto dei condizionamenti eteronomi, alienanti (lotte di liberazione dal lavoro subalterno) o invece come accettazione di una cooperazione-collaborazione-complicità in nome del progresso delle forze produttive sociali (ideologia sviluppista che accomuna tanto la destra che la sinistra); come progetto di emancipazione dalla fatica e dal “mondo della necessità”, ovvero come sacrificio necessario da minimizzare nel tempo prestato e da compensare attraverso la retribuzione nella sfera del consumo. Questi aspetti (lotta per l’accesso al lavoro e la piena occupazione e contro il lavoro eterodiretto) – nella storia del movimento operaio socialista e comunista – si sono spesso compenetrati.

Così oggi il lavoro, nell’organizzazione sociale del processo produttivo capitalistico, viene concepito come mero mezzo finalizzato ad ottenere disponibilità monetarie in vista di consumi (homo consumans). Il lavoro è ridotto a mezzo, mero strumento di ingresso nella sfera del consumo. È la promessa del consumo, quindi, che dà un senso e rende sopportabile il lavoro. La sfera del consumo diviene l’unico possibile ambito di realizzazione individuale e della felicità umana.

“Il mito produttivistico si travasa nel mito consumistico (..) all’interno di una medesima ideologia che spinge l’umano nel circolo del produrre e del consumare. In questa situazione il lavoro si espone ad un cattivo destino, perché rimane vittima di una subordinazione strumentale di carattere complessivo, trascinando con sé l’intero vissuto personale” (Totaro 2010).

Un lavoro appiattito sulla produzione e sul consumo mortifica l’umano e la dignità soggettiva.

 

Il lavoro oggi

Oggi, nel cosiddetto post-fordismo, la fabbrica torna centrale come simbolo paradigmatico universale (vedi la Fiat di Marchionne). Il lavoro si deve piegare a tutto: semplice ingranaggio di una megamacchina la cui logica sovra-determinata e sovra-determinante diventa “naturale” mentre cancella la natura vera ridotta a risorsa da contabilizzare. Il lavoro deve diventare componente funzionale, plastica, manipolabile a piacere.

Questo non vale solo per il lavoro nella fabbrica, grande o piccola, ma invade anche il territorio e riguarda anche altre tipologie lavorative, sempre più precarie. Questo vale anche per il “popolo delle partite Iva”, il lavoro autonomo di seconda generazione, il lavoro nei servizi pubblici e quello nelle cooperative, in particolare in quelle sociali.

Il lavoro diventa invasivo, “liquido”, te lo porti dietro ovunque, nel tempo ex libero, nella testa, nell’anima, nel computer, nel cellulare. Si vorrebbe che chi lavora fosse non solo disponibile, ma anche collaborativo e legato affettivamente all’azienda. Privo di diritti propri.

Le funzioni produttive nella società contemporanea informatizzata tendono ad assorbire l’intero tempo disponibile delle persone. La riduzione a merce di ogni bene e la mercificazione di ogni scambio tendono a riempire tutti i campi delle possibili relazioni umane. Non c’è più spazio per poter svolgere attività “libere”, volontarie, autonome. Ogni gesto viene inglobato nel processo di valorizzazione economica.

Così però muore definitivamente il Werke, “Il senso antropologico del lavoro – scrive Roberto Mancini – si coglie ricordando il fatto che lavorare significa generare risposte al bisogno che sono tali da arricchire e da portare alla luce l’umanità di ognuno. Perciò colpire il lavoro significa stravolgere e bloccare il cammino dell’umanizzazione (…) Il lavoro è creazione di nuove e più umane condizioni di vita (…) Il lavoro è servizio alla società e al bene comune” (Mancini 2011).

 

Il lavoro degno e giusto

“Per poter agire nella vita, tutti abbiamo bisogno di attribuire al nostro lavoro importanza e dignità”

(Tolstoj, Resurrezione, 1899).

Ricordava Friedrich Schumacher che la funzione del lavoro è triplice: “dare all’uomo una opportunità di utilizzare e sviluppare le sue facoltà; metterlo in condizione di superare il suo egoismo unendosi ad altri in un’impresa comune; infine, produrre i beni e i servizi necessari a un’esistenza degna” (Schumacher 1973). Vediamo in dettaglio queste tre condizioni.

a) Liberazione attraverso il lavoro

Primo. Il lavoro è parte costitutiva dell’autorealizzazione dell’essere umano. Primo Levi ha scritto: “L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità in terra” (Levi 1978).

Il lavoro può definirsi un bene solo se si fonda sulla dignità del lavoratore, appartiene ad un tessuto collettivo che ha come orizzonte un ritorno di appagamento e di gratificazione in chi lo ha svolto. Un orizzonte nel quale il lavoro deve essere adeguato alle aspirazioni e alle capacità di ciascuno. Non è la produzione lo scopo del fare collettivo, ma il lavoro stesso, che contempla la dimensione produttiva e quella relazionale in un insieme inscindibile. Il prodotto, il frutto del lavoro, non può essere considerato più importante del lavoratore stesso. Il lavoro deve essere significativo di per sé, deve spingere le persone a dare il meglio di cui sono capaci, deve poter sviluppare la propria personalità, deve generare gioia. Il lavoro va umanizzato. Diceva sempre Schumacher: “organizzare il lavoro in modo che perda ogni significato, diventando noioso, degradante o una tortura per i nervi del lavoratore sarebbe poco meno che criminale”. Quello che già nel 1955 Erich Fromm chiamava “robotismo” della società moderna. “L’impossibilità di progettare il proprio futuro, condanna i lavoratori ad essere soggetti ansiosi, angosciati, smarriti: soggetti la cui esistenza è deturpata dall’incertezza permanente cui sono soggetti” (Alcano 2011). Per contro, il “lavoro buono” è quello che restituisce soddisfazione a chi lo compie bene. Nel lavoro dobbiamo poter applicare intelligenza e creatività, dal lavoro cerchiamo una “ricompensa emotiva” (Richard Sennett, 2010). Se le condizioni dell’“organizzazione tecnica del lavoro” sono come quelle descritte dal nuovo contratto di lavoro Fiat (dove gli “addetti alle linee a trazione meccanizzata con scopo di movimento continuo” sono costretti a lavorare per 40 ore settimanali suddivise in 8 ore consecutive su 3 turni diversi nell’arco della settimana, più 150 ore di straordinario obbligatorio, con pause mensa quando capitano, ecc., così da suscitare l’ammirazione del “Financial Times”: “Sergio ha inventato l’ottavo giorno lavorativo) cresce inevitabilmente la demoralizzazione e la frustrazione, che nessuna “ricompensa” nella sfera dei consumi può davvero pareggiare. (Da non dimenticare le inchieste di Loris Campetti e di Francesca Coin sul “malessere dei lavoratori contemporanei” e sul consumo di sostanze psicotrope).

Un passo di Simon Weil – riportato da Roberto Mancini – rende bene l’idea della vocazione di cura, amore e dedizione che vi è nel lavoro condotto in condizioni di libertà: “ Una giovane donna felice, incinta per la prima volta, che sta cucendo un corredino, pensa a cucire bene. Ma non dimentica nemmeno un momento il bambino che porta dentro di sé. Nello stesso momento, in qualche laboratorio carcerario, una condannata cuce pensando anche lei a cucire bene perché teme altrimenti di venire punita. Potremmo immaginare che le due donne facciano nello stesso momento lo stesso lavoro e che siano attente alla stessa difficoltà tecnica. E nondimeno esiste un abisso di differenza fra l’uno e l’altro lavoro. Tutto il problema sociale consiste nel far passare gli operai dall’una all’altra di queste situazioni” (Weil 1980).

b) Il lavoro è un bene relazionale

Secondo. Il lavoro è un bene comune se viene svolto in cooperazione virtuosa, corresponsabile, in mutua, creativa, solidale e affettuosa collaborazione (non con rivalità, né in condizione di subordinazione) tra tutti coloro che in un modo o in un altro concorrono alla realizzazione dei prodotti, alla loro progettazione, alla loro distribuzione, al recupero e alla rigenerazione dei materiali contenuti, fino al loro smaltimento (ciclo di vita delle merci). Il lavoro continua ad essere lo spazio principale di socializzazione di gran parte degli individui. Anche il lavoro autonomo di un singolo artigiano, in realtà, è sempre inserito in una filiera lunga di attività svolte da più e più persone. Le diverse mansioni, le diverse abilità, le diverse competenze sono utili e devono essere riconosciute per concorrere ad uno sforzo comune dove l’apporto di ognuno è ugualmente necessario allo scopo collettivo condiviso. Il rapporto tra i diversi lavoratori, quindi, deve essere pear to pear, senza gerarchie di potere, ma liberamente organizzato.

Si apre qui tutto il campo teorico e sperimentale delle forme di co-decisione e di partecipazione dei lavoratori alle decisioni economiche e aziendali.

c) Il lavoro è un bene utile

Terzo. Il lavoro ha una funzione sociale e diventa un bene comune se è finalizzato alla produzione di manufatti e artefici, beni e servizi capaci di soddisfare i bisogni vitali degli individui, quindi davvero utili (con un loro valore d’uso autentico) al miglioramento della vita e delle condizioni della vita su questo pianeta. Il consumo della merce prodotta, non può essere considerato importante a prescindere dagli effetti che produce.

La liberazione del lavoro passa attraverso l’orgoglio di produrre qualcosa di utile per la collettività nel rispetto della sostenibilità ecologica dei luoghi. Per costruire questo nuovo modo di intendere il lavoro occorre una consapevolezza degli stessi lavoratori, che può essere raggiunta solo con il superamento della precarizzazione e la riconquista del significato complessivo del proprio lavoro, oggi parcellizzato e mistificato.

Scriveva Kumarappa: “Quando un produttore lavora per soddisfare i bisogni di una comunità, egli reagisce al senso dell’arte e della bellezza dell’acquirente. Questa interazione mentale tra produttore e cliente crea la cultura di una nazione. Invece (…) realizzando un fossato invalicabile tra chi produce e chi consuma, non ci può essere cultura” (p57).

Fino ad oggi, nella società opulenta dei consumi, anche questa relazione (produttore-consumatore) è stata sussunta nel processo produttivo per mezzo di una ben definita branca specializzata: il marketing e la pubblicità. Infatti il principale vettore della “cultura” della civiltà dei consumi è la pubblicità. E il medium che relazione senso comune prevalente e sistema produttivo è il marketing attraverso la demoscopia.

L’utilità effettiva di un prodotto-merce non è quasi mai determinata dal gioco del mercato. Valgono le innumerevoli controprove fattuali: c’è bisogno di cibo, ma il mercato preferisce produrre biocarburanti per i Suv; c’è bisogno di lavoro, ma il mercato privilegia tecnologie capital intensive, a risparmio di occupati; c’è bisogno di salvaguardare le risorse primarie, ma il mercato spinge a saccheggiarle, ecc. La logica del mercato risponde solo alla domanda solvibile e porta alla follia (l’obsolescenza programmata), all’ingiustizia sociale e al collasso ecologico. Le attività lavorative devono far proprie e devono essere orientate a risolvere le sfide epocali che l’umanità ha di fronte: la sostenibilità ambientale, la lotta alla povertà, l’equità e l’eguaglianza, soprattutto fra i generi. Ancora ha scritto Alcano: “La cura, ossia la protezione amorevole e l’espansione della vita – della prima natura come della seconda natura degli umani – deve essere l’idea regolativa, l’elemento normativo, la guida nell’orientamento dell’agire politico e nell’opera di trasformazione dello stato presente delle cose. Prendersi cura del vivente in quanto tale; orientare l’organizzazione sociale, istituzionale e politica verso la conservazione della vita e del mondo (…) sono questi i compiti della pratica politica e su cui costruire un modello di società alternativa” (Alcano 2011).

 

La tecnoscienza al servizio del lavoro o del capitale?

«La produttività gigantesca della tecnoscenza deve servire ad economizzare il tempo di lavoro e il dispendio di energie necessarie al fiorire della vita» André Gorz

Il lavoro è inevitabilmente, intimamente legato, condizionato e plasmato dagli strumenti tecnici che usa, dai mezzi di produzione da cui fa dipendere la propria “capacità produttiva”.

Scrive Umberto Galimberti: “Gli uomini sono ridotti a funzionari degli apparati tecnici (Heidegger dice ‘im-piegti’, ossia piegati alla razionalità degli apparati)”. La tecnica non è più un mezzo, ma il primo scopo. “La tecnica, che in nome dell’efficienza e della produttività comprime il mondo della vita, nel momento in cui si propone non come uno dei tanti modi di ordinare una società, ma come in assoluto l’unico modo, in quel momento anche la tecnica diventa ideologia, la più terribile dal momento che mette ai margini il sentimento perché irrazionale e comprime il pensiero in quell’unica forma che è il calcolo, il far di conto”.

La stessa ambiguità che c’è nel concetto di lavoro la troviamo anche nella tecnica.

Anche Serge Latouche (che pure è giunto a formulare la necessità di una “moratoria” dell’innovazione tecnoscentifica) afferma che “E’ possibile ed auspicabile che in futuro si sviluppino delle scienze e delle tecniche non prometeiche, come è già il caso per l’eologia” (p.45). “E’ tempo di riorientare la ricerca scientifica e tecnica sulla base di nuove aspirazioni” (p.44).

Scriveva Gorz: “Illich distingueva due specie di tecniche: quelle che chiamava conviviali, che accrescono il campo dell’autonomia, e quelle, eteronome, che lo restringono o lo sopprimono. Io le ho chiamate ‘tecnologie aperte’ e ‘tecnologie chiavistello’. Sono aperte quelle che favoriscono la comunicazione, la cooperazione, l’interazione, come il telefono o attualmente le reti e i software liberi. Le ‘tecnologie chiavistello’ sono quelle che asserviscono l’utente, ne programmano le operazioni, monopolizzano l’offerta di un prodotto o di un servizio” (André Gorz, L’ecologia politica, un’etica della liberazione, in Ecologica, pag.19).

Scriveva Kumarappa: “Le invenzioni riflettono l’atteggiamento mentale con il quale si affrontano i problemi. Negli ultimi due secoli le macchine sono state concepite per concentrare il potere. Dobbiamo scoraggiare il ricorso a questo genere di strumenti e speriamo con il tempo di poterli sostituire con strumenti che riducono la fatica senza però concentrare il potere” (p.58).

Le innovazioni tecnologiche (dopo la finanza e gli armamenti) sono lo strumento principale della tenuta dell’egemonia del capitale su tutte le forme di relazione sociale. Tecniche sopraffine di “messa al lavoro” di ogni ganglio della vita (fino al genoma umano) consentono di sfornare in continuazione nuove mercanzie da collocare sui mercati. E’ stato chiamato “biocapitalismo” e si fonda sul controllo e sullo sfruttamento dei saperi e delle conoscenze.

Ricorda Mario Pezzella che “Benjamin nelle Tesi sul concetto di storia non è un nemico della tecnica in quanto tale: nella stessa tesi, all’idea di un illimitato sfruttamento della natura, che si ritorce contro la sopravvivenza dell’umano, si oppone l’immagine di una tecnica, che, invece di distruggere il cosmo o usarlo come un inerte materiale di dominio, lo considera come un grembo in cui sono in germe inedite creazioni”. La Terra madre nutrice, non matrigna ostile. Alla tecnica come sfruttamento si oppone la tecnica come liberazione di forze latenti, che attendono l’intervento dell’uomo per nascere e liberarsi. Benjamin pensava a un lavoro capace di sgravare la natura delle creazioni “sopite nel suo grembo”, senza esaurirne le risorse in modo estremo e distruttivo.

Sempre Pezzella: “Nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin distingue due forme di tecnica: una è dominata da un’intenzione arcaica, simile a quella della magia, diretta al dominio della natura e alla volontà di potenza su di essa. Essa era giustificata fin quando la natura era percepita come una potenza ostile sovrastante e invincibile; diviene tuttavia sempre più unilaterale e rischia di esaurire le risorse elementari della vita. Esiste invece una seconda forma di tecnica, che tende a sviluppare un rapporto armonico tra l’umanità e la natura; essa tende a un gioco armonico, a un “jeu armonien”, che riguarda anche il rapporto reciproco degli uomini, e questo termine è ispirato direttamente dalle utopie di Fourier.

Esso sospende dunque l’intenzione magica della volontà di potenza, caratteristica della ‘prima tecnica’, e si realizza grazie a una ‘seconda tecnica’, non più finalizzata necessariamente alla crescita e all’incremento delle quantità prodotte, ma alla qualità delle relazioni umane fra produttori. Questa è fondata su un limite accettato nel rapporto con la natura, che non viene cancellata, ma intensificata, rispettandone le energie primarie ed elementari. Di qui le conseguenze fantastiche che Fourier attribuiva a questo tipo di tecnica: ‘Tutto ciò illustra un lavoro che, ben lontano dallo sfruttare la natura, è in grado di sgravarla delle creazioni, che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo.

Nell’ultimo aforisma di A senso unico, Benjamin mette in rilievo il pericolo estremo che l’umanità corre restando legata alla “prima tecnica”. In effetti la logica dello sviluppo e dell’incremento illimitato di potenza conduce alla violenza e alla guerra, che di essa rappresenta l’intensificazione inevitabile (…). In effetti il passaggio dalla “prima” alla “seconda” tecnica, dalla necessità alla libertà, non ha in se stesso nulla di necessario; ed anzi le due concezioni possono allontanarsi in modo irrimediabile l’una dall’altra. L’opzione per la “seconda” tecnica è compito proprio della decisione politica, ed essa dipende dai rapporti di forza, dallo stato della lotta di classe, e dal prevalere – o meno – del principio d’uguaglianza su quello di asimmetria e di padronanza. Per queste ragioni, Benjamin descrive l’accettazione dello sfruttamento della natura operata dalla socialdemocrazia e dal marxismo ortodosso come un tradimento e come la premessa per la tecnicizzazione e la burocratizzazione della società stessa. Il dominio della “prima tecnica” induce infatti alla trasformazione in macchina funzionale e burocratica del corpo sociale, alla costituzione di un “apparato incontrollabile”, che prolifera in tutte le forme di totalitarismo. Benjamin rifiuta una concezione semplicisticamente progressiva delle forze produttive; certo, esse contengono in sé una possibilità di liberazione della percezione e delle facoltà umane, purchè si operi il salto e la discontinuità tra la prima e la seconda forma di tecnica. Nessun progresso automatico e necessario porta dallo sviluppo delle forze produttive, quali sono attualmente, alla liberazione dal lavoro e dallo sfruttamento, neppure nell’ipotesi di un regime che abolisca la proprietà privata dei mezzi di produzione.

L’ ‘arresto’ di una tecnica asservita al profitto, alla quantità del valore di scambio, allo sfruttamento del lavoro salariato, diviene così la premessa di una ‘svolta’ verso un diverso consumo basato sulla qualità e sull’intensità vitale dei produttori e dei prodotti. Perdere qualcosa nella quantità del consumo, esaltando invece la qualità di ciò che si consuma, dell’ambiente, e dei soggetti che vivono insieme in un ‘comune’: così occorre intendere il termine decrescita, in un modo di produzione che non ha niente di sacrificale o di regressivo, ma che intensifica il ‘vivere bene’”.

 

Il lavoro nella prospettiva della decrescita: dare al lavoro uno scopo: il benessere collettivo esistenziale oltre che economico

 

Diritto alla vita e tempi di lavoro

Superre la divisione tra lavoro produttivo e di riproduzione sociale, svolto soprattutto dalle donne.

La distinzione fra lavoro produttivo e lavoro domestico e di riproduzione sociale sta soprattutto nell’essere riconosciuto socialmente ed economicamente (il primo) o non riconosciuto (il secondo). Qui viene alla luce “la faccia oscura del lavoro” (Picchio 2011), una faccia arbitrariamente rimossa, oscurata e con essa anche ciò che si può considerare “il senso di un’esperienza femminile in materia di sostenibilità del vivere”.

Stiamo parlando di tutti quei lavori di cura necessari alla sopravvivenza ed al benessere della specie umana che in quanto necessari non sono surrogabili (il cibo cotto, la casa in ordine, i vestiti puliti…) e ai lavori di riproduzione sociale (l’accrescimento dei piccoli, l’assistenza alle persone anziane e/o non autosufficienti…). Eppure garantire la sostenibilità del vivere diventa per le donne, in ogni parte del mondo, elemento di freno e di ostacolo al loro ingresso nel mondo del lavoro retribuito. (vedi i dati della Nef)

Per pensare un lavoro nuovo, svolto da donne e uomini – diversamente produttivo perché produttivo anche di socialità, rapporti interpersonali, rispetto e cura della dimensione naturale dell’esistenza – è necessario prestare “attenzione ai corpi, alle rappresentazioni simboliche di sé e della società e alle relazioni sociali che creano le condizioni per una vita sostenibile” (Picchio 2011) e quindi porre il tema del fondamento del valore economico del lavoro che non può restare legato solo alla dimensione salario/profitto, o a quella utilitaristica di produzioni di merci, ma poter essere inteso anche come misura in grado di “produrre benessere collettivo”.

Contemporaneamente è necessario riproporre il tema del significato del lavoro di riproduzione sociale come bene comune, pratica dell’agire solidale, recupero della relazione interpersonale nella dimensione collettiva del “prendersi cura”. La privatizzazione dei servizi insieme alla cosiddetta “internalizzazione” del lavoro di pulizia e di assistenza attraverso l’utilizzo di donne immigrate (figura della badante) hanno prodotto una profonda trasformazione di struttura dei sistemi pubblici. Essi si stanno trasformando da “welfare della parità” (che, sia pure in modo imperfetto, aveva comunque alluso ad una socializzazione dei lavori di riproduzione sociale) in “welfare materno” che riattribuisce ai due sessi ruoli specifici e stereotipati, si struttura su un familismo.

Tornare ad agire in un positivo conflitto fra generi per far crescere una migliore consapevolezza sulla qualità e sul senso del vivere potrebbe essere un buon antidoto ai processi in atto.

 

Un reddito come supporto al diritto alla vita

Il WI riassume così la proposta in campo più radicale: “Occorre pensare seriamente che nei prossimi decenni lo sviluppo dei sistemi sociali si dirigerà verso un reddito di base garantito o reddito di cittadinanza (…) senza previa valutazione dell’effettiva necessità, né obbligo di lavoro (…) come una sicurezza sulla quale puoi strutturare una multiforme vita di lavoro e di attività (…) un indiscutibile diritto di cittadinanza”.

Un reddito sociale, di cittadinanza, di esistenza, è una misura auspicabile per compensare l’assenza di un salario derivante dal lavoro. Sarebbe una risposta alla precarizzazione, alla cancellazione di sicurezza e futuro. Sarebbe anche una possibile ricostruzione di forza contrattuale dei lavoratori e delle lavoratrici, non più così spudoratamente ricattabili nella scelta fra una vita da schiavi o una non vita. Di fronte allo sviluppo della precarizzazione, il reddito sociale diventa uno strumento di protezione, uno strumento in grado di promuovere conflitto per ottenere il riconoscimento del diritto al lavoro.

Rimane in piedi il quesito su come finanziare nel presente una tale proposta, in una economia che va verso un futuro senza pensioni e con più disoccupazione. Anche per questo il reddito sociale va pensato non solo in termini monetari, ma anche in servizi. Già Gorz pensava che il “secondo assegno”, il “conguaglio salariale” necessario al lavoratore per raggiungere un “reddito sociale” minimo garantito, potesse essere tratto da un “fondo specifico” alimentato da “una imposta sugli incrementi di produttività legati alla robotica” (p.221) e più in generale all’innovazione.

 

Una buona economia: cosa, dove, per chi produrre

E’ sempre più evidente il bisogno di una diversa economia che disegni nuove relazioni e nuovi modi di produzione funzionali alla costruzione di una nuova società.

Aumentare la produzione delle merci attuali con i medesimi processi produttivi – magari spruzzandoli un po’ di verde – ci fa restare dentro un orizzonte comunque insostenibile. Per uscire davvero dalla crisi dobbiamo inaugurare un’altra via: cominciare a progettare interventi pubblici nell’economia. Un cambiamento che è nel contempo lavoro e crescita di beni relazionali, tempi, spazi, paesaggi di vita, messa in sicurezza della natura.

La “conversione ecologica” dell’economia (che non è la green economy) può essere la leva per una rivoluzione di senso con un progetto che investa l’intero sistema produttivo. Il primo passo da compiere è la messa in discussione del concetto di crescita. La crescita infinita è una mistificazione, un inganno. Il pianeta Terra è sull’orlo di un baratro dovuto all’eccessivo consumo di risorse naturali. Crisi economica e crisi ambientale sono indissolubilmente legate. È necessario un cambiamento elaborato dal basso, partecipato, nel rispetto delle vocazioni territoriali.

La stessa lotta per la difesa dell’occupazione e dei salari sui luoghi di lavoro può essere più efficace se mette in discussione ciò che si produce, come si produce, dove e per chi si produce, in una prospettiva di riconversione della struttura produttiva e dei modelli di consumo vigenti.

Chi studia il metabolismo delle nostre società ( Martinez Allier, Giorgio Nebbia), cioè i bilanci energetici e materici dei cicli produttivi e di consumo, sa bene che il conto non torna: per ogni miglioramento di efficienza che si ottiene a scala ridotta si genera un effetto rimbalzo (“rebound” o paradosso di Jevons) a scala globale. O, più semplicemente ancora, si sposta un problema da una matrice ambientale ad un’altra.

Si tratta di passare da un modello di economia per cui la natura e il lavoro umano, la madre e il padre di ogni generazione di ricchezza (come ricordava Marx e prima di lui William Petty, 1623-1687: “il lavoro è il padre della ricchezza, mentre le terre sono la madre”), sono ridotti a materie prime e a forza lavoro, mezzi e strumenti di produzione, risorse da sacrificare nei processi di produzione e da consumare nei cicli di produzione, ad un altro modello in cui il bene del lavoro umano e della natura diventano lo scopo stesso della cooperazione sociale. Nel nuovo modello sociale che proponiamo la preservazione di buone condizioni di vita dell’umanità, l’accrescimento delle facoltà intellettive e creative del genere umano e la rigenerazione dei cicli vitali naturali sono la ragione stessa dell’esistenza del lavoro sociale e delle istituzioni pubbliche.

Il lavoro – se vuole sottrarsi al deprezzamento e alla marginalizzazione – deve farsi carico di una riconversione generale dell’economia. Ri-orientare gli apparati produttivi, i prodotti e i processi. Liberare l’immaginario collettivo dalla colonizzazione dei bisogni e dei desideri indotta dai condizionamenti pubblicitari e culturali. Riformulare gli statuti del sapere e della ricerca scientifica. Ri-finalizzare le applicazioni tecnologiche.


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