L’uomo sta scomparendo nel suo ambiente

guarda alcuni dei suoi lavori

http://www.youtube.com/watch?v=mxEstgh6cAM
Chinese Artist Disappears
http://www.youtube.com/watch?v=6S5CkZWjJPY
Liu Bolin: The Invisble Man

http://www.corriere.it
04 maggio 2010

Liu Bolin, il camaleonte
di Francesca Pini 


Il giovane artista cinese si fa dipingere fino a mimetizzarsi completamente in un'architettura

Scarpette rosse alla Scala. Non quelle della fiaba, ma quelle da ginnastica, pennellate di vernice carminio, del giovane artista cinese Liu Bolin, molto simile a un ultras milanista, con quel suo viso spalmato di rosso e nero. Ma questo è un trucco camaleontico per mimetizzarsi, con il palco reale della Scala e con il sipario sullo sfondo, per poi realizzare una delle sue celebri foto in cui scompare nei monumenti, senza il minimo aiuto di Photoshop: è tutto vero ed è tutta finzione, secondo un’idea aristotelica dell’arte. Chi lo vede, è bravo. Occorre fisico per seguire il dietro le quinte, mentre lui passa anche sette ore, immobile in piedi, finché i pittori di cui si avvale (l’artista Andrea Facco e la restauratrice Cristina Giacalone) non riescono a dipingerlo alla perfezione seguendo le sue indicazioni.
Guardano come procedere nel lavoro osservandolo dall’obbiettivo della macchina fotografica (punto di vista obbligato per l’esecuzione materiale dello scatto, eseguito da Luca Elettri), mentre Liu Bolin continua a ripetere: «Trovate le linee!», ossia le linee guida dettate dall’architettura nella quale vuole confondersi: la balaustra, i tetti delle case, le guglie del Duomo di Milano, le verticali delle pieghe del sipario.

La valigia trolley, con dentro i colori, peserà 30 chili. Ma tra Duomo, Scala e nuovo grattacielo del governatore Formigoni – luoghi scelti personalmente dall’artista – occorre una palette di colori acrilici molto ampia per tutte queste mimesi, e trovare i toni giusti è una vera impresa. La sua performance diventa così un’opera collettiva. «Da solo non posso dipingermi, però posso farmi un autoscatto», e a volte è successo. Punto di partenza è la coloritura delle scarpe e poi della sua divisa verde, da maoista anni 60 (l’artista era anche membro del Partito comunista, che ha poi lasciato per poca frequentazione; del comunismo condivide i principi fondanti, ma non le sue deviazioni). Il marmo di Candoglia del Duomo, con parti grigio-scure erose dal tempo e altre più chiare per i rifacimenti nuovi di zecca, è davvero molto difficile da riprodurre e passano cinque ore cinque, dalle tre del pomeriggio alle 20, prima di avvicinarsi all’originale della pietra (e poi il colore cambia con la luce). E il sole non aiuta certo il lavoro: crea troppe ombre, mentre sarebbe perfetto un cielo coperto e omogeneo.

Visto da vicino, Liu è dipinto in modo grossier, ma osservandolo dall’obbiettivo della macchina fotografica tutto cambia e diventa perfetto. La terrazza del Duomo è piena di turisti, e tutti fotografano, divertiti, quello strano tipo, mentre la troupe di TwoCubed lo segue passo passo per realizzare un documentario su di lui (video in anteprima su www.corriere.it). «L’Italia ha chiese bellissime, ma questa cattedrale è davvero unica», dice Liu Bolin alla sua seconda esperienza artistica in Italia.

Maschera (Di Bellezza) - Due anni fa teatro della sua performance è stata Verona, dove ha sede anche la galleria Boxart che lo rappresenta e che ha concepito insieme a lui questo progetto (curato da Beatrice Benedetti), in collaborazione anche la fondazione Italia Cina. Giorgio Gaburro (ex imprenditore, collezionista e ora titolare della galleria), che ha portato in Italia anche i famosi Gao Brothers, l’ha scoperto insieme alla curatrice Benedetti quattro anni fa a Pechino nel quartiere 798, quello degli artisti emergenti, vedendo le sue sculture mimetiche in vetroresina. «Ce ne siamo innamorati all’istante», confida. «A ottobre faremo una sua personale da Forma, a Milano, mentre ora in galleria abbiamo le immagini del dietro le quinte, compresa la performance di Venezia in piazza San Marco, al ponte dei Conzafelzi e a Rialto».

Lavorano di pennelli, i pittori, sull’uniforme di Bolin, ma quando si tratta di passare alle mani e al viso, l’artista si cautela “indossando” una maschera di bellezza: un film protettivo per salvare la pelle dai colori acrilici dati in abbondanza anche sui capelli. Bolin dice di conservare tutte le uniformi dipinte delle sue performances, ma questa volta, di nuove, non ne ha abbastanza e allora, alla Scala, quella usata per il Duomo viene tinta di rosso. Noi entriamo alle 22, a concerto finito, l’équipe lavora fino alle 4 del mattino, e scatta il panico quando i macchinisti di turno, che preparano il palcoscenico per il giorno dopo, annunciano di voler aprire il sipario: andrebbe in fumo tutto il lavoro, non si riuscirebbe più a ritrovare la corrispondenza tra pieghe vere del velluto, e quelle dipinte sull’abito.

Ma qual è il senso ultimo di questa mimesi? «È un gesto di denuncia. Cos’è oggi lo sviluppo dell’essere umano, e dove porta? L’uomo sta scomparendo nel suo ambiente. La tecnologia ha portato molto sviluppo materiale, ma per restare umani cosa si deve fare? Io non voglio perdermi in questo labirinto, perciò scelgo questa forma di difesa», dice l’artista. «Abbiamo sottratto troppe cose alla Natura, la nube del vulcano islandese è una forza che non abbiamo potuto sottovalutare. Anche la deviazione del fiume Yangtze non è stato un bene, la Natura ci dà dei segni che l’uomo sbaglia. Io sono per un’arte di impegno civile». E lo ha dimostrato anche affrontando la strage di Tian Anmen, confondendosi con l’edificio della piazza, evitando però di esibire l’opera in Cina. Solidarizza anche con gli operai licenziati dalle industrie, dipingendoli fino a farli scomparire nei muri della fabbriche. Ma anche la sua scultura di un pugno rovesciato all’ingiù, non lascia dubbi sulla forza della repressione del potere. Rimane una curiosità legata alle sue performances. Che cosa pensa quando sta lì, immobile per ore, mentre lo dipingono? «Essere o non essere?», risponde Liu Bolin. La scelta? «Essere!».

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