Ambientiamoci.
Racconti di ecologia
di Giorgio Nebbia


Stampa Alternativa Collana: Ecoalfabeto – I Libri di Gaia, Roma 2011

Stralci tratti da www.tecalibri.it


Ambientiamoci. Il libro di un pioniere dell’ecologia. Colloquio con Giorgio Nebbia
di Edgar Meyer


Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” Greenews.info publica un estratto da
“Ambientiamoci. Racconti di ecologia” di Giorgio Nebbia 


Stralci tratti da www.tecalibri.it

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Da pagina 5
Introduzione, di Edgar Meyer
L'ecologia e' una disciplina scientifica - o forse una maniera di vedere il mondo - che si occupa dei rapporti degli esseri viventi fra loro e col mondo circostante.
Giorgio Nebbia, pioniere dell'ecologia, scienziato, giornalista e lucido divulgatore delle tematiche ambientali, propone in questo libro una serie di riflessioni - che abbiamo voluto chiamare "racconti" perche' hanno il fascino e la scorrevolezza delle narrazioni - tra le piu' argute della sua vasta produzione intellettuale e saggistica. Attraverso gli articoli, divisi in capitoli tematici, si spazia su (quasi) tutto lo scibile della sostenibilita' ambientale: dalle origini del termine "ecologia" ai ritratti di alcuni pionieri, dalle considerazioni sull'importanza dell'acqua e del sole alla necessita' della riciclo-logia.
In questi articoli, in questi "racconti", in queste "lettere" Nebbia (collaboratore di Gaia, l'associazione che in partnership con Stampa Alternativa promuove questa collana: altri suoi gustosi scritti si possono trovare nella sua rubrica all'interno del portale www.gaiaitalia.it ) si rivolge agli insegnanti, agli studenti, alla classe dirigente, ai cittadini attenti ai destini del nostro piccolo pianeta. Con parole semplici. Ricordando fatti e persone. Avanzando proposte. Unendo analisi scientifica e buonsenso.
(...) In Ambientiamoci si ritrova tutta la verve ma anche la profondita' del pensiero di Nebbia, la densita' delle riflessioni eppure la leggerezza di lettura, il rigore scientifico eppure la capacita' di raccontare e appassionare. Spero che ai lettori questo libro faccia lo stesso effetto che fa a me: la sensazione di aver ascoltato le parole di un maestro saggio e paziente.
Edgar Meyer, presidente Gaia Animali & Ambiente
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Da pagina 27
Georgescu-Roegen, padre dell'economia ambientale
Se qualcuno mi chiedesse quale testo leggere per imparare qualcosa di economia dell'ambiente, un insegnamento che da alcuni anni a questa parte si sta diffondendo fra le discipline economiche anche in Italia, suggerirei un libro il cui titolo in italiano potrebbe essere "La legge dell'entropia e il processo economico", anche se il libro in italiano non e' mai stato tradotto. L'autore e' un professore di origine romena, Nicholas Georgescu-Roegen (1906-1990); in italiano sono comunque disponibili vari altri suoi libri che spaziano dall'economia agraria, al comportamento dei consumatori, a varie rielaborazioni delle idee contenute nel libro fondamentale prima ricordato. Una raccolta dei saggi piu' "ambientalisti" fu pubblicata da Bollati Boringhieri nel 1998 col titolo Energia e miti economici, con una breve biografia. Georgescu-Roegen ha avuto una lunga vita avventurosa; nato a Costanza, in Romania, vinse giovanissimo una cattedra di statistica nell'Universita' di Bucarest e, come brillante professore, visito' varie universita' in Inghilterra e negli Stati Uniti nei turbolenti anni Trenta del secolo scorso. Nel 1937 rifiuto' una cattedra negli Stati Uniti e ritorno' in Romania con l'idea di essere utile al suo Paese. Oltre all'insegnamento, diresse il Ministero del Commercio estero in un periodo in cui la Romania era corteggiata dai sovietici e dai nazisti per le sue ricchezze petrolifere. Nell'agosto 1944 Bucarest fu occupata dall'esercito sovietico e nel 1944-45 Georgescu-Roegen fu segretario generale della commissione romena per l'armistizio; nel 1948 si trasferi' negli Stati Uniti e ottenne una cattedra di economia nell'Universita' Vanderbilt di Nashville, nel Tennessee, una sede abbastanza decentrata rispetto al circuito delle grandi facolta' economiche americane.
Georgescu-Roegen e' stato un economista dissidente, eterodosso; non lo sentirete mai nominare dagli "economisti seri" ufficiali, perche' e' andato a esplorare dei territori di confine fra l'economia, la fisica e l'ecologia e perche' da tale esplorazione ha tratto la sua critica, appunto, ai "miti" dell'economia tradizionale. Nella seconda meta' dell'Ottocento, e nella prima meta' del Novecento, vari studiosi hanno messo in evidenza alcune analogie fra fenomeni biologici e fisici e fenomeni economici. L'economia e' la scienza di come soddisfare i bisogni umani di cibo e di merci, in un mondo, in una societa', in cui sono limitati lo spazio, le risorse energetiche e minerarie, la fertilita' dei campi, limiti descritti esattamente proprio dalla biologia e dalla fisica. Come e' possibile allora far crescere continuamente il benessere, il numero e la massa dei beni materiali, come richiede l'economia, quando esistono degli oggettivi limiti fisici e biologici nelle risorse naturali? Gli "economisti seri" rispondono che e' possibile perche' le risorse dell'ingegno, della scienza, della tecnica, sono illimitate: basta investire denaro ed energia per dilatare i beni che la Terra puo' offrire.
Georgescu-Roegen non e' d'accordo e ha elaborato una sua teoria, che ha chiamato di "bioeconomia", mettendo in evidenza i vincoli imposti all'economia dalle ineluttabili leggi fisiche della termodinamica, quelle che descrivono la contabilita', la ragioneria, delle trasformazioni dell'energia. E' infatti l'energia che tiene in moto tutti i fenomeni economici e produttivi, e' il flusso dell'energia che sta alla base del flusso di denaro. L'energia, quella del Sole e quella richiesta per fabbricare i concimi e per muovere i trattori, fornisce i raccolti agricoli; l'energia occorre per trasformare i pomodori nella conserva che arriva nei negozi; l'energia occorre per trasformare i minerali in acciaio e per far muovere le automobili e i treni e per far funzionare i computer.
Possono cambiare i prezzi del petrolio o dell'elettricita', ma la quantita' di energia necessaria per produrre una tonnellata di grano o di plastica o per tenere accesa una lampadina, pur variabile a seconda della tecnologia dei processi o dei prodotti, non puo' scendere al di sotto di una soglia, fissata dalla fisica. E, una volta usata per un processo, l'energia non si recupera piu', non torna piu' disponibile per rifare lo stesso processo; se ne perde sempre un poco. Si dice che ogni processo trasforma l'energia a bassa entropia in energia a piu' alta entropia, e l'economia deve fare i conti con questa continua perdita e dissipazione di energia utile, con questo continuo aumento dell'entropia.
Georgescu-Roegen ha ampliato questa visione sostenendo che si deve tenere conto non solo dell'energia, che si degrada sempre, ma anche della materia. Si ha un bel dire del riciclo dei materiali usati; raccogliere separatamente la carta usata e' certamente virtuoso perche' si evita di tagliare nuovi alberi per fare nuova carta, ma non ci si illuda del riciclo illimitato. L'atto stesso di usare la carta, o un qualsiasi altro bene, ne altera e peggiora la qualita'; un giornale usato e' fatto di carta ma e' anche "contaminato" con inchiostri e additivi; quando si ricicla un chilo di giornali si puo' stare certi che la carta riciclata recuperata sara' sempre meno di un chilo; la differenza e' costituita da inchiostri, sporcizia, eccetera. Insomma, nel produrre e nell'usare una merce "si perde" sempre un poco, sia dell'energia, sia della materia utili. Il messaggio non e' di disperazione: e' possibile soddisfare i bisogni materiali di cibo, merci, servizi, conoscenza, mobilita', se si tiene presente che le quantita' e il tipo dei beni necessari devono essere scelti tenendo conto della disponibilita' non solo di denaro, ma di risorse naturali e di energia. La legge dell'entropia stimola, non frena, innovazione e progresso.
Molti ritengono che, per la sua opera, Georgescu-Roegen avrebbe meritato il premio Nobel per l'economia. Non l'ha avuto, ma in compenso ancora oggi e' riconosciuto come padre dell'economia ambientale e viene letto e discusso.
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Da pagina 31
Barry Commoner: chiudere il cerchio della natura
Nel 1972, in coincidenza con la prima conferenza "ecologica" delle Nazioni Unite, quella di Stoccolma sull'"Ambiente umano", apparve un libro del biologo americano Barry Commoner (nato nel 1917) intitolato Il cerchio da chiudere. Il libro ebbe un successo mondiale grandissimo, fu pubblicato subito in italiano dall'editore Garzanti e una seconda edizione italiana, ampliata, apparve nel 1986. Il "cerchio" e' quello della natura, nella quale i fenomeni della vita vegetale e animale si svolgono secondo cicli chiusi; nella natura non esistono rifiuti perche' le spoglie dei vegetali e degli animali e gli escrementi riportano in ciclo gli elementi chimici che essi contengono e che diventano fonti di vita per altri vegetali; si puo' dire che nella natura non esiste la morte perche' la materia di qualsiasi essere, alla fine del suo ciclo vitale, ritorna ben presto materia per altri. La vita e' il fine unico della natura e della vita stessa.
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Da pagina 52
Sprecare meno natura
Il primo decennio del 2000 e' stato caratterizzato da eventi meteorologici (apparentemente) fuori dal comune: siccita' seguite da alluvioni, avanzata dei deserti e allagamento di pianure fertili, diminuzione della superficie e del volume dei ghiacci considerati "permanenti". Ciascuno di questi eventi ha destato chiacchiere senza fine, ma ben poco si e' fatto per dare una risposta a tre domande: si tratta di eventi veramente fuori dal comune? In caso affermativo, qual e' l'origine? Se le alterazioni derivano da azioni antropiche, ce la fara' la Terra a sopportare il "peso" di una popolazione umana crescente e di un crescente impoverimento delle risorse naturali?
La "vita", quella vegetale e animale e quella "economica" (cioe' l'insieme della produzione e dell'uso di beni materiali e di servizi), e' resa possibile da una grande circolazione di materia e di energia dai corpi della natura - l'aria, le acque, il suolo, il sottosuolo - agli esseri viventi, umani compresi, e da un ritorno, negli stessi corpi della natura, dei prodotti di trasformazione della vita: gas della fotosintesi, delle respirazioni e delle combustioni, rifiuti solidi, eccetera. Mentre i cicli della vita vegetale e animale comportano l'emissione di "rifiuti" che vengono riassorbiti dalla natura e addirittura diventano nuove materie "utili" - gli escrementi animali diventano concime per le colture vegetali, l'anidride carbonica emessa dalle respirazioni animali diventa materia prima per la fotosintesi dei vegetali -, i cicli della vita "economica", la produzione di alimenti industriali, di metalli, macchine, edifici, eccetera, comporta una sottrazione di materie dalla natura - sabbia e ghiaia e argilla per i cementi e i laterizi, minerali, sostanze nutritive per i vegetali asportate dal suolo - che non si rigenerano mai piu', e un ritorno nei corpi naturali di scorie spesso non assimilabili, che alterano la qualita' delle acque e dell'aria, rendendole meno utilizzabili dalla vita. Producono cioe' inquinamento.
Tutto comincia dal Sole che, attraverso la fotosintesi, "fabbrica" ogni anno sui continenti circa cento miliardi di tonnellate di biomassa vegetale secca: amido, cellulosa, proteine, grassi, eccetera. Di questa biomassa, circa cinque miliardi di tonnellate ogni anno sono utilizzati come materie prime commerciali dall'industria agroalimentare, dalla zootecnia, dalle industrie del legno e della carta, della gomma, dei tessuti, eccetera. Gran parte dei "prodotti" alimentari e industriali ritornano abbastanza presto nella natura, ma per lo piu' come scarti che vengono sepolti nelle discariche o bruciati.
La grande macchina "economica" che fornisce prodotti di "consumo" - sia pure in quantita' e di qualita' molto diverse da Paese a Paese - ai quasi 7.000 milioni di abitanti del pianeta Terra, all'inizio del secondo decennio del 2000, richiede inoltre, per il suo funzionamento, circa 12 miliardi di tonnellate ogni anno di carbone, petrolio, metano, eccetera. Anche questi derivano dal Sole e dal ciclo del carbonio, ma si sono formati centinaia di milioni di anni fa e la natura ce li ha tenuti da parte nel sottosuolo, per ere geologiche lunghissime: riserve che le nostre societa' umane stanno svuotando in pochi secoli per far funzionare macchine e industrie. E con questo siamo ad una sottrazione di circa 17 miliardi di tonnellate all'anno di materiali organici.
Gli "alimenti" derivati dal ciclo del carbonio attuale e quelli fossili, necessari per l'economia, restituiscono nell'atmosfera gran parte del loro carbonio sotto forma di anidride carbonica. Nel caso dei prodotti derivati dall'agricoltura si tratta dell'anidride carbonica sottratta pochi mesi o pochi anni prima, ma nel caso dei combustibili fossili - carbone, petrolio, metano - l'anidride carbonica immessa "oggi" nell'atmosfera e' quella sottratta dall'atmosfera milioni di anni fa. Da qui, il graduale aumento della concentrazione dell'anidride carbonica nell'atmosfera, con conseguente lento graduale riscaldamento della superficie terrestre per effetto serra e modificazione del clima planetario. La costruzione di macchine, strade, edifici, abitazioni, eccetera, richiede altre materie tratte dalla natura sotto forma di rocce e minerali in quantita' che si puo' stimare di circa venti miliardi di tonnellate all'anno. Gran parte di questi materiali resta immobilizzata negli edifici, nelle fabbriche, nelle strade, per tempi lunghi o lunghissimi.
Da questo conto e' esclusa l'acqua che attraversa la "tecnosfera" - case e citta', fabbriche, campi, eccetera - in ragione di circa mille miliardi di tonnellate all'anno, prelevata dal flusso continuo di acqua che scorre sulla superficie della Terra. L'acqua che esce da ogni casa, fabbrica o campo coltivato e ritorna alla natura e' piu' o meno nella stessa quantita' dell'acqua entrata, ma e' stata addizionata con agenti chimici, residui di concimi, pesticidi, scorie alimentari, polveri, escrementi e la sua qualita' - la sua possibilita' di utilizzazione a fini biologici, e non solo umani e commerciali - peggiora. Ogni persona del peso medio di sessanta chili "pesa" sulla Terra, movimentando ogni anno quasi sei tonnellate di materiali (acqua esclusa, come si e' detto).
Ce la fara' la Terra a sopportare una tale pressione umana sulle risorse naturali? Le societa' umane potranno soddisfare le proprie necessita' di beni, di progresso, di sviluppo individuale e sociale, di liberazione dalla poverta', di maggiore giustizia distributiva, a condizione che tengano conto dei precedenti numeri e che modifichino i modi di produrre e di consumare, adattando i cicli economici a quelli della natura, utilizzando energie e materie rinnovabili che il Sole ricostruisce continuamente, depurando i rifiuti prima che tornino nei corpi riceventi naturali. Un compito non facile, ma che alcuni Paesi stanno gia' adottando; la storia mostra che quando le societa' umane hanno dovuto cambiare le proprie abitudini, non sono diventate piu' povere, ma anzi hanno migliorato le proprie condizioni, con minore "spreco di natura". Un compito che richiede ai governanti e ai cittadini lungimiranza, coraggio e solidarieta'.
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Da pagina 63
La virtu' della solidarieta'
La sete in Italia e nel mondo aumenta sempre per la concomitanza di vari eventi.
Da alcuni decenni sono in corso mutamenti climatici che hanno fatto diminuire le piogge; apparentemente la quantita' totale di pioggia diminuisce di poco, ma il carattere delle piogge, spesso intense ma concentrate in brevi periodi, impedisce la ricarica con acqua dolce delle falde sotterranee e dei laghi artificiali. Un secondo importante evento riguarda le migliorate condizioni di vita delle popolazioni, un evento da salutare con gioia, senza dubbio, ma che comporta crescenti richieste di acqua che deve essere sottratta da riserve - fiumi, falde sotterranee, laghi naturali e laghi artificiali - che sono limitate. Un terzo aspetto riguarda la svolta culturale e politica degli ultimi anni: la diffusione della cultura degli affari finanziari e del libero mercato fa guardare con fastidio ad una pianificazione da parte dello Stato, anche quando si tratta di risorse naturali collettive ed essenziali come l'acqua. Anzi, "pianificazione" e' diventata una parolaccia.
Il libero mercato puo' andare bene per le imprese che producono merci e servizi, le quali possono acquistare materie prime - agricole, energetiche, minerarie, forestali, mano d'opera, tecnici - dove si trovano abbondanti (finche' durano) e a basso prezzo, in qualsiasi parte del globo, ma il libero mercato fallisce quando una comunita' puo' fare i conti soltanto con le risorse locali, come l'acqua. Le imprese possono acquistare plastica o petrolio o pellami in Russia, nel Sud Africa o in Argentina, ma la comunita' italiana puo' trarre acqua soltanto dalle riserve che la natura gli assicura nel suo territorio o a non grande distanza.
Questo lo sapevano gia' nell'Ottocento, quando i governi nazionali decisero, con una pianificazione nazionale, di chiedere alla Campania di rinunciare ad una parte delle sue acque per dissetare la Puglia attraverso il gigantesco Acquedotto Pugliese; lo sapevano gli economisti di mezzo secolo fa quando hanno deciso di creare in Puglia, Basilicata e Molise, una serie di laghi artificiali che avrebbero dovuto essere collegati fra loro per raccogliere razionalmente ogni goccia di pioggia utilizzabile per le citta' e i campi. Lo sapeva il Parlamento, negli ultimi anni prima della trionfale pressione del libero mercato, quando varo', nel 1989, la legge n. 183 che stabiliva l'amministrazione delle acque secondo i bacini idrografici.
L'acqua di ciascun fiume non e' di proprieta' delle regioni attraversate dal fiume, ma di tutti gli abitanti che gravitano nel bacino idrografico del fiume, dalle sorgenti al mare, valli e affluenti compresi. La "183" era basata sul principio di solidarieta': le autorita' di ciascun bacino idrografico, dopo aver redatto degli accurati inventari (che non sono mai stati fatti) delle disponibilita' idriche, avrebbero dovuto stabilire come distribuire quest'acqua, come renderne disponibili le eccedenze ai bacini idrografici vicini. La "183" stabiliva inoltre che ciascuna autorita' di bacino avrebbe dovuto realizzare opere per regolamentare il deflusso (irregolare nel tempo e scarso) delle acque attraverso la pianificazione (sono parole di tale legge) di opere per la difesa del suolo e per il rimboschimento.
Non si potra' mai cancellare la sete dalle case, soprattutto del Mezzogiorno, fino a quando non si fara' un "piano" basato sulla conoscenza di quanta acqua e' disponibile, di come viene usata, di come si possono aumentare (sia pure di poco) le disponibilita', almeno regolando la corsa delle piogge verso il mare, piano basato su una coraggiosa compartecipazione delle risorse idriche esistenti fra regioni vicine.
La solidarieta' e' la chiave per la soluzione del problema. Solidarieta' significa, intanto, revisione e correzione degli errori compiuti, dei laghi artificiali lasciati abbandonati e diventati depositi di fango, significa volonta' delle autorita' di governo, locali e nazionali, di superare le logiche municipali e di decidere di lavorare con gli enti vicini o lontani in un comune servizio civile per la comunita'. Solidarieta' significa spiegare a tutti i cittadini, cominciando nelle scuole, che l'acqua e' scarsa non solo nei villaggi sperduti o nei mesi estivi; che bisogna consumare meno acqua possibile: ogni metro cubo sprecato nelle case, nei bagni, nelle fontane a perdere, e' acqua tolta a qualche altra persona, da qualche parte. Perche' l'acqua circola nel corpo fisico di ciascuna regione e dell'intero Paese come il sangue circola nel corpo umano; ogni rubinetto, ogni persona, e' legato alla vita di un'altra persona.
Oggi, in una societa' basata sull'ideologia del consumo e dello spreco, puo' sembrare fuori luogo parlare di un'etica del "consumare di meno", del limitare i consumi, eppure chi visita molti Paesi della Terra, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, vede spesso avvisi o pubblicita' o francobolli che ricordano che l'acqua e' scarsa e preziosa e se ne deve consumare il meno possibile. "Save water", risparmiate l'acqua, avverte un dirigibile che percorre il cielo di alcune grandi citta' americane. Senza contare che la progettazione di rubinetti, docce, gabinetti, capaci di svolgere la stessa funzione consumando meno acqua, potrebbe stimolare invenzioni, innovazioni e nuove attivita' produttive e occasioni di lavoro.
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Da pagina 80
Di chi la colpa?
L'acqua amica e nemica: anche il primo decennio del XXI secolo e' stato caratterizzato, in numero crescente, da frane e alluvioni che spazzano via vite umane, povere case e le loro suppellettili e ricordi. Qualcuno dice che non e' colpa della natura, ma dell'"uomo", quasi genericamente malvagio e nemico della natura; in realta' la colpa e' della forza del denaro e della speculazione e di un potere politico attento agli interessi degli affari e dei soldi, anche a costo del disprezzo della vita umana e della natura.
L'acqua fa il mestiere per il quale e' stata predisposta dall'inizio del pianeta, come fonte della vita, non di morte: cade ogni anno sulla superficie della Terra in quantita' abbastanza costante e abbastanza prevedibile da luogo a luogo, da stagione a stagione. L'acqua raggiunge il terreno e scorre verso il piano lungo i pendii, e poi nei canali e nei torrenti e poi nei fiumi piu' grandi fino al mare; nel cadere sulla superficie della Terra, l'acqua viene a contatto con le rocce e il terreno e ne sposta le parti piu' leggere che diventano sabbia e limo, che scendono per gravita', depositandosi nelle parti piu' basse, creando quei beni utili agli esseri umani come le fertili pianure alluvionali e le spiagge. In questo suo istancabile e provvidenziale andare, l'acqua da' vita ai vegetali, disseta gli animali, assicura la vita umana. E la vegetazione, in tutte le sue forme, dai prati agli alberi, alla macchia spontanea, e' anche fondamentale nel regolare la forza che l'acqua esercita nel disgregare e spostare il terreno. Le foglie sono state inventate dal Padreterno proprio perche' attenuano la forza erosiva dell'acqua. Nel corso dei millenni e dei secoli, le acque si sono assicurate lo spazio in cui muoversi a seconda della loro velocita', cambiando talvolta il loro corso e riservandosi degli spazi in cui adagiarsi nei periodi di piogge piu' intense e di piene dei fiumi.
"Purtroppo", le pianure e le zone lungo i torrenti, i fiumi e i laghi sono quelle piu' pregiate per gli insediamenti umani; i terreni agricoli si sono estesi anche sulle rive dei fiumi, nelle zone che la natura aveva riservato a se stessa per far espandere le acque di piena; case e villaggi e poi citta' e fabbriche hanno occupato pendii e fondovalle e le rive dei fiumi, dei laghi e del mare, creando ostacoli al moto delle acque; cosi' quando cadono piogge piu' intense, le acque aumentano di velocita' e di forza erosiva e cercano con violenza uno spazio per scendere a valle, spostando masse di terra, alberi e addirittura edifici e ponti e strade.
Tutto qui. Le frane e le alluvioni e i costi e i dolori e i morti sono dovuti all'avidita' di alcuni "soggetti economici" che, nel nome del proprio interesse "economico", hanno edificato od occupato gli spazi che dovevano essere lasciati liberi per il moto delle acque, incanalando fiumi e torrenti in prigioni di cemento; altri, sempre per motivi "economici", per guadagnare spazi edificabili hanno distrutto, anche col fuoco degli incendi, gli alberi e la vegetazione spontanea e le macchie, di conseguenza le acque hanno finito per muoversi con maggiore violenza sul suolo; molte pratiche agricole intensive hanno reso il terreno piu' esposto all'erosione che sposta a valle la terra fertile.
Terra, fango, detriti, ramaglie, alberi, rocce, trascinati dalle acque sempre piu' veloci, diventano un "tappo" fisico dei corsi d'acqua e ne facilitano l'uscita dalle loro vie naturali. E' il quadro che appare dopo frane e alluvioni che da decenni divorano ogni anno in Italia miliardi di euro di ricchezza e centinaia di vite umane. L'unica nostra difesa dovrebbe essere lo Stato che, se operasse per il bene pubblico, dovrebbe impedire, con le leggi e con il loro rispetto, dal livello nazionale a quello delle amministrazioni locali, la costruzione di opere, private e pubbliche, edifici e strade e ponti, eccetera, nei luoghi da riservare al moto delle acque; che dovrebbe ricostruire la copertura vegetale, vietando la distruzione del verde e dei boschi e dovrebbe provvedere alla pulizia del greto di canali, torrenti e fiumi per assicurare il regolare fluire delle acque.
Purtroppo le leggi, che sono giustamente attente a punire la violenza ai privati, sono silenziose, talvolta compiacenti, quando si tratta di impedire la violenza di privati - e talvolta dello stesso Stato - contro la natura, cioe' contro la vita di altri cittadini. Anche se e' certo che tale violenza si manifestera' periodicamente, sotto forma di disastri e morti e dolori. Ogni volta che lo Stato dovrebbe dire a un cittadino che "non deve" costruire in una golena o in una lama o sul greto di un torrente o in una zona franosa, sta zitto, perche' bisogna "fare", costruire, anche se cio' sara' pagato da altri e da tutti, oggi e in futuro. Eppure, con leggi e con una buona amministrazione, si puo' "fare" e assicurare lavoro e case e strade, costruendo diversamente, in altri luoghi, proteggendo il suolo contro l'erosione con il rimboschimento, combattendo gli incendi.
E le leggi ci sono state: nel 1985 la legge 431 stabiliva che dovevano essere sottoposte a vincolo le rive dei torrenti e dei fiumi e del mare, la legge 183 del 1989 stabiliva regole di difesa del suolo e delle acque; e cosi' prevedevano le leggi "Sarno" (267 del 1998), e "Soverato" (365 del 2000), emanate dopo i rispettivi disastri idrogeologici. Tutte leggi non applicate o violate, o rimandate o vanificate da condoni, o abrogate. Si sentono promesse e programmi prima di ogni elezione, ma non sento nessun impegno per aggiornare e far rispettare le leggi che impediscono gli interventi sul territorio nocivi per la vita futura degli italiani.
Se proprio i governi locali e nazionali non hanno "il coraggio di dire no" alla speculazione, all'egoismo, all'avidita' che si mangiano il territorio italiano, alla violenza contro la natura, almeno abbiano il pudore di smetterla con i piagnistei sui cadaveri che sono generati dalla loro incapacita' di prevedere e prevenire le cause, che sono sotto gli occhi di tutti, delle morti e dei dolori e dei costi di ieri, di oggi, di domani e dopodomani.
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Da pagina 189
Rudolf Diesel e il motore a olio di arachide
"L'uso degli oli vegetali come carburanti per i motori puo' sembrare insignificante oggi, ma tali oli nel corso del tempo possono diventare altrettanto importanti quanto il petrolio e il carbone; la forza motrice potra' essere ottenuta col calore del Sole anche quando le riserve dei combustibili liquidi e solidi saranno esaurite". Queste parole non vengono da qualche esponente ecologista fautore dei biocarburanti, ma sono state pronunciate nel 1912 da "un certo" Rudolf Diesel (1858-1913). Fra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, l'energia per tutte le societa' industriali era fornita dal carbone, di cui esistevano grandi giacimenti in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Russia (che allora includeva la Polonia), negli Stati Uniti. Col carbone si otteneva calore e venivano alimentate le centrali elettriche; dalla distillazione del carbone si ottenevano le materie prime per l'industria chimica, il gas illuminante e dei liquidi adatti come carburanti.
La quantita' del carbone estratto dalle miniere aumentava cosi' rapidamente che un economista inglese, Stanley Jevons (1835-1882), aveva scritto un libro intitolato Il problema del carbone (1865), in cui prevedeva che un giorno le miniere di carbone avrebbero potuto esaurirsi. Davanti allo spettro di una possibile scarsita' di energia, inventori e scienziati si diedero da fare per utilizzare l'enorme energia che il Sole rende disponibile ogni anno, dovunque, sempre nella stessa quantita': una fonte di energia, come si dice oggi, rinnovabile e inesauribile.
La storia dell'energia mostra che l'attenzione e i progressi nel campo dell'energia solare sono figli dei periodi di scarsita'. Un secolo fa, alla fine dell'Ottocento, appunto, davanti al rischio dell'esaurimento del carbone e in questo inizio del Duemila davanti agli alti costi del petrolio e al pericolo del suo esaurimento. Negli anni 1880-1910, in quella che si puo' chiamare l'"eta' dell'oro" dell'energia solare, c'e' stato un fermento incredibile di ricerche. L'italiano Antonio Pacinotti ha descritto la possibilita' di ottenere elettricita' per effetto fotovoltaico (usando la radiazione luminosa del Sole) e per effetto termoelettrico (sfruttando il calore solare). L'ingegnere cileno Carlos Wilson disseto' per oltre trent'anni i minatori che lavoravano nell'assolato e arido altopiano del Cile, trasformando, per distillazione col calore solare, l'acqua salmastra, disponibile sul posto, in acqua dolce. I distillatori solari di oggi sono ispirati a quell'impianto che produceva 22.000 litri di acqua potabile al giorno.
Grandi fisici e chimici, come il tedesco Friedrich Kohlrausch (1840-1910) e l'inglese Joseph John Thomson (1856-1940), scrissero dei trattati indicando come le societa' del futuro avrebbero potuto essere alimentate per sempre dall'inesauribile forza del Sole. Il francese Augustin Mouchot (1825-1912), lo svedese John Ericsson e gli americani Aubrey Eneas (1860-1920) e Frank Shuman (1862-1918) costruirono macchine e pompe per sollevare l'acqua, azionate dal vapore prodotto concentrando con specchi l'energia solare su adatte caldaie. Nel primo decennio del Novecento, il grande chimico italiano Giacomo Ciamician, professore nell'Universita' di Bologna, descrisse gli esperimenti di fotochimica, mostrando che la radiazione solare alla base della fotosintesi clorofilliana, e quindi della produzione di tutti i vegetali, avrebbe consentito di istallare grandi fabbriche chimiche nei deserti assolati. Tutta questa multinazionale della scienza e della tecnica pensava che il Sole, disponibile in uguale maniera per tutti i popoli della Terra, avrebbe potuto diffondere benessere e sviluppo con una migliore distribuzione della ricchezza e una maggiore giustizia internazionale.
Il tedesco August Bebel (1840-1913) scrisse che l'energia solare avrebbe consentito la realizzazione di una societa' socialista e la liberazione delle donne e degli uomini dalla fatica del lavoro. Gli anni di cui stiamo parlando, fra il 1890 e il 1910, videro, oltre a molte altre invenzioni, anche la nascita di veicoli capaci di muoversi da soli, "automobili", appunto, le cui ruote potevano essere tenute in movimento dal motore a scoppio inventato dai toscani Eugenio Barsanti e Felice Matteucci. Per alimentare il suo motore a combustione interna, Barsanti utilizzo' il gas illuminante che veniva introdotto in un cilindro, insieme all'aria; la miscela era poi compressa con un pistone, bruciata mediante una scintilla elettrica e la massa di gas caldi che si formava spingeva in basso il pistone e faceva girare le ruote.
I progressi nella raffinazione del petrolio misero a disposizione la benzina con cui era possibile migliorare il rendimento dei motori a scoppio che, comunque, avevano dimensioni e potenza limitate. Arriva, a questo punto, il giovane chimico e ingegnere franco-tedesco Rudolph Diesel. Diesel penso' di costruire dei motori a scoppio che non avessero bisogno di accensione con una scintilla, che potessero essere di maggiori dimensioni e potenza e che non avessero bisogno di benzina. I suoi primi motori - poi conosciuti col nome "diesel", quello dell'inventore, e che cosi' si chiamano ancora oggi - furono presentati con successo all'Esposizione universale di Parigi del 1900 e attrassero molta attenzione, anche perche' funzionavano con olio di arachide, con un carburante ottenuto dall'agricoltura. Diesel, che guardava al futuro, come dimostra la frase citata all'inizio, era di idee progressiste e pacifiste e pensava che i suoi motori avrebbero potuto generare forza motrice per far viaggiare grandi treni e navi, capaci di trasportare merci e persone facendo progredire i commerci e l'umanita'.
L'uso di carburanti di origine vegetale avrebbe contribuito, inoltre, allo sviluppo dell'agricoltura, soprattutto nei Paesi in cui si coltivano piante oleaginose. Adesso, dopo un secolo, si riscopre la "ricetta" di Diesel e viene incentivata la produzione di carburanti a base di oli vegetali e animali e di loro derivati, quelli che si chiamano "biodiesel", e che addirittura possono essere prodotti con gli oli residui di frittura. Rudolph Diesel fu un personaggio straordinario, un teorico nel campo della termodinamica e un inventore geniale. Fu un attento imprenditore e divento' ricchissimo, giro' il mondo diffondendo, nei congressi e fra gli industriali, la conoscenza e i vantaggi del suo motore, ma poi perse tutti i propri averi e scomparve cadendo da una nave nel mare durante un viaggio verso l'Inghilterra. I motori diesel muovono oggi centinaia di milioni di automobili, treni e navi nel mondo.
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Da pagina 199
Non c'e' pace
Non c'e' pace neanche fra le fonti energetiche rinnovabili. A prima vista ci dovrebbe essere un generale accordo per passare dall'attuale dipendenza dalle fonti energetiche costituite da combustibili fossili come petrolio, gas naturale, carbone, o rifiuti, tutte inquinanti e non rinnovabili, a fonti energetiche rinnovabili, dipendenti dal Sole: calore solare, elettricita' solare, elettricita' dal vento o dal moto delle acque, calore dalle biomasse agricole e forestali ricreate ogni anno attraverso la fotosintesi solare. E invece, anche fra i sostenitori di questa transizione ci sono opinioni non solo differenti, ma spesso in vivace contrasto, quasi una volonta' di distruggere quello che si sta faticosamente facendo, quasi una conferma di quello che diceva Pogo nel famoso fumetto: "Ho scoperto il nemico e il nemico siamo noi". I giornali, per un lungo periodo, sono stati pieni di notizie sullo "scandalo dell'eolico" che avrebbe portato ad illeciti arricchimenti nella costruzione di centrali eoliche. Nel caso dell'energia solare, vengono venduti pannelli fotovoltaici, in grado di trasformare la radiazione solare in elettricita', con contratti che assicurano, oltre a elettricita' meno inquinante, un guadagno a chi li compra o agli enti o aziende che li istallano. A rigore, un utente dovrebbe spendere soldi per ottenere la merce-energia, ma adesso molti di quelli che istallano pale eoliche o pannelli fotovoltaici guadagnano dei soldi provenienti da vari incentivi finanziari, pagati da tutti i cittadini sia direttamente attraverso le tasse, sia con un sovrapprezzo nelle bollette dell'elettricita' (la componente A3 del prezzo dell'elettricita'). E' giusto che soldi pubblici o anche dei singoli cittadini siano spesi per diffondere l'uso delle energie rinnovabili non inquinanti, con vantaggio per l'economia nazionale e per la salute, ma mi sembra meno giusto che tali incentivi finiscano nelle tasche di singoli privati o di speculatori. C'e' qualcosa che non funziona.
I pannelli fotovoltaici sono venduti sulla base della "potenza di picco" (capacita' di produrre energia) corrispondente a circa un chilowatt per pannelli di circa 10 metri quadrati. L'elettricita' effettivamente prodotta da 10 metri quadrati di pannelli fotovoltaici, nel corso di un anno, ammonta a circa 1.000-1.200 chilowattore, circa un terzo del fabbisogno medio annuo di elettricita' di una famiglia. Questa elettricita' e' pero' disponibile in maniera differente nelle varie ore del giorno e nei vari mesi dell'anno, per cui, se non si dispone di grandi batterie di accumulatori, scomodissime, l'elettricita' solare, a mano a mano che viene prodotta, viene venduta alle reti elettriche "intelligenti" delle compagnie elettriche le quali si impegnano a fornire alla famiglia, o all'utente, l'elettricita' corrispondente a mano a mano che ne hanno bisogno (quindi anche quando il Sole non splende nel cielo).
L'altra tecnologia solare e' costituita dagli impianti a specchi che concentrano la radiazione solare su caldaie o tubi nei quali un fluido e' scaldato ad alta temperatura e puo', a sua volta, produrre vapore da avviare alle turbine, come avviene nelle normali centrali termoelettriche; in queste ultime, il vapore e' generato dalla combustione di combustibili (carbone, gas naturale, prodotti petroliferi, rifiuti) inquinanti, responsabili dell'immissione nell'atmosfera di gas, soprattutto anidride carbonica, che provocano mutamenti climatici. Ottenere lo stesso effetto, senza danni ambientali, con il calore di origine solare e' il fine della tecnologia del "solare termodinamico". Alcuni impianti usano specchi cilindro-parabolici, lunghe superfici riflettenti che si muovono continuamente per "seguire" il Sole nel suo moto apparente nel cielo: la radiazione solare viene concentrata su un tubo, posto nel "fuoco" della parabola, isolato con una copertura trasparente in modo che il calore cosi' concentrato non venga disperso nell'aria circostante.
Le superfici riflettenti possono anche essere lunghi specchi piani che concentrano il calore solare su un solo tubo centrale sopraelevato, secondo una proposta fatta gia' mezzo secolo fa dell'italiano Giovanni Francia (1911-1980), come ricorda un articolo di Cesare Silvi pubblicato nella rivista "Energia Ambiente Innovazione".
Il calore solare concentrato nel tubo ricevente dagli specchi scalda, a centinaia di gradi, un olio sintetico o una miscela di sali come nitrato di sodio e nitrato di potassio. In questo caso, i sali fusi caldi vengono avviati ad un deposito in cui restano caldi anche di notte, quando il Sole non c'e'. Giorno e notte il calore solare "immagazzinato" nei sali fusi viene gradualmente trasferito al vapore acqueo che aziona una turbina, in modo simile a quanto avviene nelle centrali a combustibili fossili. Le centrali termoelettriche solari a specchi sono macchine ingegnose, ma delicate e complicate.
La citata rivista "Energia Ambiente Innovazione" fornisce i dettagli del piu' recente impianto solare a specchi costruito a Priolo, vicino Siracusa (simbolicamente chiamato "Archimede"), costituito da specchi cilindro-parabolici della superficie di 30.000 metri quadrati. La potenza e' di 4.700 chilowatt elettrici e la produzione di elettricita' e' prevista in 9.200.000 chilowattore all'anno, corrispondenti a circa 300 chilowattore all'anno per metro quadrato di superficie di raccolta del Sole. Il principale limite del "solare termodinamico" sta nel fatto che e' possibile utilizzare soltanto la radiazione solare "diretta", quella che si ha quando il cielo e' limpido. Se il cielo e' nuvoloso, la radiazione solare non viene concentrata dagli specchi.
Il Sole e' un'affascinante, ma scomoda, fonte di energia. Energia che puo' fornire agli esseri umani soltanto se gli si chiede di fare le cose che sa fare bene: produrre raccolti agricoli e alberi, scaldare corpi a bassa temperatura, dissalare l'acqua marina e produrre elettricita' con i sistemi fotovoltaici o per effetto termoelettrico, per i quali sono possibili ancora grandi perfezionamenti.
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Da pagina 227
Pace e ambiente
Ogni anno comincia con le autorita' politiche, morali e religiose che invocano la pace. Una pace che e' indispensabile per salvare vite umane ed evitare dolori umani, ma anche per salvare il pianeta e l'ambiente. E' la tesi di un dimenticato libro di Barry Commoner, Far pace col pianeta (Milano, Garzanti, 1990) e il tema e' ripreso in un libro, Ambiente e pace: una sola rivoluzione (Milano, Edizioni Punto Rosso, 2008), di Carla Ravaioli, autrice di molti altri libri sul lavoro, sull'economia e sull'ambiente. Anche per tutto il primo decennio del XXI secolo, i cannoni e le bombe hanno fatto sentire la loro voce in tante parti del mondo: in Palestina, in Iraq, in Afghanistan, nel Myanmar, in Indonesia, nel Pakistan, in India, nel Darfur, nel Congo, in Nigeria, nello Sri Lanka, eccetera, uccidendo insieme persone e foreste, inquinando le acque e distruggendo abitazioni e campi coltivati.
Quante volte si e' ripetuta la stessa storia! Sodoma e Gomorra, le ricche citta' sul Mar Morto in Palestina, sono state messe a ferro e fuoco (lo racconta il capitolo 13 della Genesi) da chi voleva impadronirsi dei loro giacimenti di sale (materiale strategico prezioso, quattromila anni fa, come oggi il petrolio). Ogni popolo invasore ha reso sterili le terre e i pascoli del nemico e anche in tempi piu' vicini a noi le stesse ricchezze della natura, che la pace e un'equa distribuzione potrebbero far utilizzare e godere da tutti i popoli della Terra, sono diventate la fonte della violenza e delle guerre. Gli europei del Cinquecento, con la scusa di portare la civilta' cristiana ai "selvaggi", miravano a conquistare materie prime preziose - le spezie, l'oro, l'argento - per le quali non esitarono a sterminare i nativi che avevano la pretesa di ritenere che tali beni naturali fossero loro. La stessa cosa avvenne nel Nord America, dove i coloni bianchi distrussero pascoli e boschi e sterminarono i nativi, quelli che noi chiamiamo "indiani" o pellirosse. Distruzione della natura per la conquista di materie preziose hanno caratterizzato le guerre, nella meta' dell'Ottocento, fra Cile e Bolivia per il salnitro (1879-1883), fra Brasile e Bolivia per la gomma (1899-1903) e la prima guerra mondiale (1914-1918) per la conquista dei ricchi giacimenti di carbone, di minerali di ferro e di sali potassici dell'Alsazia-Lorena. Durante la seconda guerra mondiale (1939-1945), le violenze ambientali hanno accompagnato la spinta dei giapponesi alla conquista del petrolio e della gomma del Sud-est asiatico e dei nazisti alla conquista dei giacimenti petroliferi sovietici del Mar Caspio.
I perfezionamenti tecnici hanno offerto sempre piu' "efficaci" mezzi di distruzione di vite umane e dell'ambiente: dalle armi chimiche usate nella prima guerra mondiale, fino alle bombe atomiche, la superarma che puo' avvelenare persone e natura in tutto il pianeta per decenni e secoli. Durante la guerra del Vietnam (1959-1975), gli erbicidi usati dagli americani per distruggere la giungla in cui trovavano rifugio i partigiani Vietcong, non solo fecero scomparire centinaia di migliaia di ettari di foresta tropicale, ma contaminarono grandi estensioni di campi e terreno e il corpo degli abitanti e degli stessi soldati americani con la diossina, una sostanza tossica e cancerogena che era presente come impurita' nei prodotti sparsi dagli aerei. La diossina, entrata con la guerra nel vocabolario mondiale, si sarebbe poi trovata nelle fabbriche di sostanze clorurate, come quella che avveleno' i campi di Seveso (1976), nei fumi degli inceneritori di rifiuti, e in molti altri luoghi.
Durante la lunga guerra Iran-Iraq (1980-1988) e nelle due guerre del Golfo (1990-1991 e 2003) i cieli furono invasi dai fumi degli incendi dei pozzi petroliferi, il petrolio ricopri' larghi tratti del Golfo Persico, il delicato ecosistema dello Shatt al-Arab, l'estuario del Tigri-Eufrate, fu sconvolto e sulle terre furono sparse polveri contenenti uranio impoverito. Durante le lunghe guerre nella ex-Jugoslavia (1991-1993), le esplosioni e gli incendi delle fabbriche bombardate sparsero veleni nei terreni e nei fiumi. Le guerre e guerriglie in Africa, nel Sud-est asiatico, in Afghanistan da anni provocano la distruzione delle foreste, immettono milioni di tonnellate di gas dannosi nell'aria, fanno finire i rifiuti tossici nei fiumi; la mancanza e l'inquinamento dell'acqua peggiorano le condizioni igieniche di milioni di persone e facilitano la diffusione di epidemie.
Ciascuna delle guerre per le materie prime si lascia alle spalle terre desolate, montagne di scorie tossiche e radioattive. Il valore monetario delle perdite di ricchezze economiche e ambientali che la pace avrebbe potuto e potrebbe evitare sono stimate in 2000 miliardi di euro all'anno, quasi una volta e mezzo il Prodotto interno lordo dell'Italia, a parte le perdite di vite umane e di beni della natura che non hanno prezzo. Mentre nei Paesi sviluppati ci si sforza, bene o male, di ridurre l'inquinamento dell'aria, di costruire depuratori, di salvaguardare e proteggere alcune zone di boschi e vegetazione, in molti Paesi sottosviluppati le guerre, in cui direttamente o indirettamente sono stati e sono coinvolti, lontano da casa propria, gli stessi Paesi sviluppati arrecano continui danni ad ecosistemi delicati e irriproducibili.
Sembra che i Paesi progrediti si sforzino di tenere pulita la propria casa contaminando la casa altrui, facendo finta di non accorgersi che l'ambiente e' tutt'uno, che l'aria e' la stessa, nei cieli di Londra o di Bassora, che il mare e' lo stesso, sia esso il Mediterraneo o il Golfo Persico. Mentre a Roma o a Milano i laboratori giustamente controllano se la concentrazione delle polveri microscopiche sospese nell'aria urbana superano le soglie di sicurezza, nel qual caso scattano doverosi provvedimenti di limitazione del traffico, a Bagdad nel marzo-aprile 2003 cinque milioni di persone, donne e uomini come noi, hanno respirato per giorni interi aria carica non solo di polveri, ma di ossidi di zolfo, mercurio, diossine, furani, sostanze cancerogene. Non ci sara' mai pace con l'ambiente naturale se non ci sara' pace fra gli esseri umani che tale ambiente abitano, e non ci sara' mai pace fra gli abitanti della Terra senza un'equa distribuzione dei beni che la Terra offre. La pace e' figlia della giustizia, lo diceva anche il profeta Isaia, tanti anni fa, e, parafrasandolo, si puo' ben dire che l'ambiente e' figlio, a sua volta, della pace.

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Ambientiamoci. Il libro di un pioniere dell’ecologia. Colloquio con Giorgio Nebbia
di Edgar Meyer

E’ uscito da pochi giorni, per i tipi di Stampa Alternativa, un nuovo libro di Giorgio Nebbia, scienziato, giornalista e grande divulgatore delle tematiche ambientali. Attraverso le pagine, divise in precisi capitoli tematici e di estrema godibilità, si spazia su tutto lo scibile della sostenibilità ambientale: dalle origini del termine ecologia ai ritratti di alcuni pionieri della disciplina, dalle considerazioni sull’importanza dell’acqua e del sole alla necessità della “riciclo-logia”. Scorrendo le pagine di Ambientiamoci si impara ad amare la robinia e la ginestra, si incontrano Garrett Hardin e la sua parabola della mucca, si scoprono le radici (italiane) dell’energia geotermica, si ripercorre per qualche attimo la vicenda di Seveso, si comprende perché la scelta nucleare è errata. L’autore ci prende gentilmente per mano e ci racconta storie di inquinamenti, di scoperte scientifiche, di uomini del futuro. Ma anche di escrementi (l’oro nelle fogne), della vicenda dell’intossicazione delle operaie di una oscura fabbrica americana, dei meccanismi dell’energia osmotica. Insomma: attraverso storie e aneddoti ci parla di acqua, di energia, di merci, di rifiuti, di lavoro e ambiente, di pace. In una parola: di ecologia. Per conoscere e capire l’ambiente che ci sta attorno. E rispettarlo. Per “ambientarci”.  

L’occasione è insomma ottima per fare una chiacchierata con uno dei più arguti studiosi della produzione delle merci e dell’energia, dell’ambiente e dei movimenti per un mondo migliore.

Caro Nebbia, come nasce questo libro? 
Negli oltre 40 anni in cui ho insegnato questi argomenti all’Università, preparavo le mie lezioni in forma di racconti di storie, di persone e di cose. A 85 anni, professore emerito, ho voluto raccogliere alcuni di questi racconti in un libretto con l’obiettivo di stimolare fantasia e passione nei lettori, immaginari ascoltatori di lezioni che non tengo più.

Come si riesce ad appassionare il lettore, a scrivere “racconti di ecologia”, come recita il sottotitolo, su una materia seriosa come quella ecologica, che viene “seguita -ahinoi- solo da pochi?
L’ecologia è una austera disciplina scientifica che studia i rapporti fra gli esseri viventi e l’ambiente circostante, l’economia della natura; come tale è una avventura piena di persone e di cose, di piante e di animali, di campi coltivati e di fabbriche che producono beni utili o rifiuti inquinanti, piena di invenzioni e di inventori, di successi e sconfitte. La storia dell’ecologia è affascinante come e più di un romanzo.

Fra i protagonisti di questi racconti si trovano alcuni giganti dell’umanità… 
Come la fragile chimica polacca Marie Curie, che ha scoperto le origini della radioattività ottenendo due premi Nobel, e l’economista quacquero americano Kenneth Boulding, che ha ironizzato sul “prodotto interno lordo”, la divinità adorata dai suoi colleghi come (falso) indicatore del benessere; si trova un altro chimico: Linus Pauling, pacifista che ha contestato le bombe nucleari, anche lui due premi Nobel, e ha marciato per protesta davanti alla Casa Bianca prima di entrarci invitato a cena da Kennedy (che ordinò la cessazione dei test nucleari nell’atmosfera). Ma si trova anche qualche italiano: Girolamo Azzi, il primo a insegnare ecologia in Italia nel 1923, è stato dimenticato nel suo paese benché fosse noto e apprezzato nell’Unione Sovietica e nell’America Latina.

In questi “racconti di ecologia” si fa la conoscenza anche di persone che hanno conosciuto enorme successo in vita. Ne citiamo qualcuno? 
Uno su tutti è il chimico tedesco Justus von Liebig, che ha gettato le basi delle leggi della nutrizione vegetale (ed ha anche inventato l’“estratto di carne liebig”), grande divulgatore delle novità scientifiche nei quotidiani tedeschi del suo tempo. Oppure l’altro chimico Fritz Haber, che ha sconfitto il monopolio cileno dei concimi azotati, ma ha anche fornito i nitrati per gli esplosivi che hanno distrutto milioni di vite. Però si trovano anche gli sconosciuti operai che sono morti nelle miniere di carbone, nelle cave di amianto, nelle fabbriche del radio, negli incidenti industriali e anche il povero Francesco Bossi, il primo industriale chimico che nella Milano napoleonica, nel 1800, “si abbruciò” versandosi addosso un grande vaso pieno di acidi caldi.

Fra i “personaggi” del libro ci sono anche alcune piante. 
Come la robinia e la ginestra, umili ma utilissime per la difesa del suolo contro l’erosione.

A proposito di acqua: un intero capitolo è dedicato a questo elemento. 
L’acqua, amica e nemica, col suo gigantesco ciclo naturale rende fertili i campi e le foreste, disseta le città, ma disgrega anche le rocce dei continenti provocando frane e alluvioni, per finire poi il suo cammino nel mare, “grande e immenso”, ricco di sali, di esseri viventi, capace di disegnare, col suo moto ondoso, le spiagge e le coste, ma anche triste ricettacolo dei rifiuti che gli sprovveduti umani versano dovunque e che vanno a finire nelle acque e infine nel mare…

E al centro dei racconti di ecologia si trova l’energia del Sole…
Certo. L’energia del Sole che tiene in moto il ciclo dell’acqua, che scalda e raffredda l’aria e genera i venti e le onde, che fa crescere le piante, e tiene in moto gli elettroni che producono elettricità commerciale. E anche qui si erge un altro chimico, Giacomo Ciamician, che oltre un secolo fa aveva immaginato che grandi macchine alimentate dal Sole avrebbero portato sviluppo economico e avrebbero sconfitto la miseria dei paesi poveri del mondo.

Tutto il potere all’ecologia.

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Per la rubrica “Racconti d’Ambiente” Greenews.info publica un estratto da
“Ambientiamoci. Racconti di ecologia” di Giorgio Nebbia 

Se uno cerca le radici dell’economia ambientale, della disciplina che cerca di capire come è possibile compensare i danni economici arrecati dalla violenza all’ambiente, deve andare a cercare Arthur Cecil Pigou, economista inglese, nato nel 1877, allievo, all’Università di Cambridge, di Alfred Marshall (1842-1924), a cui successe, nel 1908, nella cattedra di Economia.

Pigou scrisse, nel 1912, la sua principale opera, “Ricchezza e benessere”, di cui pubblicò varie riedizioni col titolo “Economia del benessere”, a partire dal 1920. Fra le altre sue opere si può ricordare “L’economia dello stato stazionario”, pubblicata nel 1935, in piena crisi economica, in un tempo che assomiglia sotto molti aspetti a quello odierno. Fu uno dei primi sostenitori dell’imposta sul reddito e dell’intervento dello stato per correggere i “fallimenti del mercato”, fonti di diseconomie esterne, di danni e costi per alcuni soggetti economici in seguito all’operare, anche se lecito, di altri soggetti economici.

Le anticipazioni di Pigou non solo trovano conferma negli eventi di questo inizio del XXI secolo, ma possono farci comprendere meglio quello che ci aspetta. Il contributo di Pigou all’“economia del benessere”si può così riassumere: nella vita economica le azioni di ogni soggetto economico non sono isolate, ma influenzano, nel bene e nel male, altri soggetti economici circostanti e da questi stessi sono influenzati. Se una fabbrica sta vicina ad altre (si pensi ai poli industriali) ne trae vantaggio perché tutte mettono in comune servizi, strade, aeroporti e ciascuna trae beneficio da questa integrazione; le economie integrate però possono anche essere fragili proprio perché dipendono l’una dalle altre. D’altra parte ogni attività di un soggetto economico può provocare “diseconomie esterne”, cioè danni e costi ai soggetti economici vicini.

Immaginiamo un soggetto economico, un vignaiolo, che produce uva, un bene utile, e che, vendendola, guadagna diciamo 100 lire all’anno; un giorno accanto alla vigna si insedia una fabbrica di scarpe, in modo del tutto legittimo, anzi lodevole perché produce una merce, le scarpe, di cui c’è bisogno e fa lavorare gli operai e assicura benessere alle loro famiglie. Però dal camino della fabbrica escono dei fumi che ricadono sulla vigna vicina e danneggiano l’uva al punto che il vignaiolo, dopo l’arrivo della fabbrica, guadagna soltanto 50 lire all’anno. Il vignaiolo va dal fabbricante di scarpe e gli chiede un risarcimento per il danno subito.

A questo punto possono succedere varie cose. Il fabbricante tira fuori dalle sue tasche le 50 lire perdute dal vignaiolo e il vignaiolo ritorna a guadagnare 100 lire all’anno ed è contento. Il fabbricante di scarpe può continuare ad inquinare (e la natura non è contenta) ma guadagna di meno e deve recuperare i soldi dati al vignaiolo; può farlo aumentando il prezzo delle scarpe, che vengono a costare di più e si vendono di meno, e il fabbricante deve ridurre la produzione licenziando gli operai, con danno alle loro famiglie. Oppure il fabbricante può diminuire il salario agli operai con danno alle loro famiglie.

Oppure il fabbricante di scarpe, invece di dare 50 lire al vignaiolo, con la stessa cifra compra un filtro da mettere sul camino in modo da non inquinare più, e sono così contenti la natura, il venditore di filtri e il vignaiolo che, cessato l’inquinamento, ricomincia a produrre l’uva che gli assicura un guadagno di 100 lire all’anno. Ma il fabbricante di scarpe deve recuperare le 50 lire spese per il filtro e torniamo al caso precedente. A questo punto fabbricante e operai vanno “dallo Stato”, da una autorità superiore a tutti, e chiedono che sia ristabilita una situazione di giustizia: che il vignaiolo e il fabbricante siano compensati per il loro lavoro, gli operai abbiano lo stesso salario di prima, le scarpe costino come prima e possano essere più facilmente vendute. A questo punto ”lo Stato” può dare 50 lire al fabbricante di scarpe e sono contenti tutti: vignaiolo, fabbricante di scarpe, fabbricante di filtri, operai, acquirenti delle scarpe ed è contenta anche la natura non più inquinata. Ma “lo Stato” deve recuperare le 50 lire aumentando le tasse al vignaiolo, al fabbricante di scarpe, al venditore di filtri, agli operai e agli acquirenti di scarpe, e alla fine sono scontenti tutti.

A meno che, come suggerisce Pigou, le tasse non siano applicate sulla base del reddito e pesino di meno sui redditi minori. La parabola del vignaiolo riflette eventi davanti a tutti noi ogni giorno. I fabbricanti di una merce (diciamo di oggetti di plastica) hanno un legittimo guadagno e assicurano un salario ai loro operai: purtroppo l’aumento della plastica in circolazione fa aumentare la massa dei rifiuti inquinanti e danneggia la salute degli abitanti di un paese. Si può applicare un’imposta sugli oggetti di plastica e con il ricavato pagare gli ospedali in cui ricoverare gli ammalati, ma in questo caso gli acquirenti comprano di meno la merce inquinante, diminuiscono i rifiuti e gli ammalati, ma i fabbricanti sono costretti a fabbricare meno plastica e licenziano gli operai. Lo Stato, per assicurare un reddito ai disoccupati (la cassa integrazione), deve aumentare le tasse o diminuire le pensioni e le spese per gli ospedali.

Un altro caso: il consumo di carbone, petrolio, gas naturale e elettricità fa aumentare l’inquinamento atmosferico dovuto all’anidride carbonica che provoca mutamenti climatici e costi; per diminuire queste diseconomie esterne gli stati fanno pagare qualche soldo a chi usa combustibili e elettricità (la cosiddetta “carbon tax”) per indurlo a consumarne di meno; i minori danni al clima comportano però minori guadagni per chi vende energia e merci dipendenti dall’energia e per i lavoratori dei relativi settori.

Che fare ? I governanti si arrovellano su questi problemi nelle innumerevoli conferenze sul clima: forse farebbero bene a rileggere Pigou per far sì che le diseconomie esterne, sociali e ambientali che ci sono sempre, non ricadano sulle classi meno abbienti e che anche i ricchi paghino.

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