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Venerdì 30 Gennaio 2015

Le ragioni della democrazia e della sua crisi
Giulio Azzolini intervista Alessandro Ferrara e Stefano Petrucciani

Proprio dopo essere diventata la forma di governo legittima per eccellenza, la democrazia è sempre più spesso percepita come un regime politico in grave crisi. A partire dai loro ultimi lavori – The Democratic Horizon (Cambridge University Press) e Democrazia (Einaudi) – Ferrara e Petrucciani affrontano in chiave filosofico-politica questo paradosso e molti altri problemi: dalla critica delle concezioni procedurali e competitive della democrazia alla proposta di un approccio normativo deliberativo, dal rischio di una deriva oligarchica e tecnocratica transnazionale fino alle conseguenze della crisi economica. Nella convinzione che oggi, per difendere la democrazia, riflettere sulle sue ragioni sia più utile che coniare nuovi slogan

Esprimere un giudizio sugli ultimi mesi di “grande trasformazione” della nostra democrazia è forse prematuro. Di sicuro, però, il 2014 è stato un anno particolarmente fecondo per la riflessione italiana sulla democrazia. Vi hanno contribuito, tra gli altri, un sociologo e politologo del calibro di Ilvo Diamanti (con Democrazia ibrida, Laterza-la Repubblica), uno scienziato politico di fama internazionale come Leonardo Morlino (con Democrazia e mutamenti, Luiss University Press) e la teorica politica della Columbia University Nadia Urbinati (con Democrazia sfigurata, Egea). All’esercizio di studio della metamorfosi democratica non poteva dunque sottrarsi la filosofia politica italiana, che partecipa al dibattito grazie agli originali lavori diAlessandro Ferrara, The Democratic Horizon. Hyperpluralism and the Renewal of Political Liberalism (Cambridge University Press, pagg. 257, euro 72), e di Stefano Petrucciani, Democrazia (Einaudi, pagg. 260, euro 22). Educati rispettivamente alla tradizione liberal statunitense e alla teoria critica francofortese, i due hanno trovato nell’opera di Jürgen Habermas – del quale il primo è stato allievo e al cui pensiero il secondo ha dedicato un’importante Introduzione[i] – l’occasione di stabilire un linguaggio comune e di intendersi su molti temi, primo dei quali la democrazia. Così le differenze non emergono tanto sugli orientamenti teorici di fondo, quanto piuttosto sugli accenti: oggi Ferrara è attento soprattutto alle sfide della democrazia liberale, mentre Petrucciani è interessato in particolar modo alle patologie della democrazia rappresentativa.

Quali sono i motivi che vi hanno spinto a dedicare il vostro ultimo libro a una questione classica del pensiero politico, come la democrazia?

Petrucciani  «Il fatto è che oggi, secondo me, la democrazia è la questione centrale della teoria politica. E lo è per tre ragioni. Prima di tutto, perché è l’unico concetto politico normativo che sia rimasto in piedi dopo la crisi dei socialismi, dei comunismi e anche di molti liberalismi e neoliberalismi. In secondo luogo, perché la democrazia è uno straordinario strumento di legittimazione, nel senso che ormai, se viene presa democraticamente, ogni decisione politica va rispettata. E il terzo punto è questo: nell’ambito della filosofia politica normativa ci sono state tante e interessanti teorie della giustizia, però ciascuna di queste, per poter essere eventualmente implementata, deve passare attraverso il vaglio delle procedure democratiche. La democrazia è diventata quindi una sorta di meta-dimensione con la quale non si può evitare di fare i conti».

Ferrara «Anch’io muovo dall’idea che la democrazia sia l’unico concetto filosofico-politico normativo rimasto in piedi, ma lo faccio con una maggiore sfumatura di pessimismo. Soprattutto nel nostro universo intellettuale e politico, infatti, si percepisce fortemente una “crisi della democrazia”, per usare un’espressione che sento continuamente ripetere fin da quando ero studente. Nel libro mi interessava fare il punto su questa storia: da un lato, l’affermarsi della democrazia come orizzonte, cioè non come una ma come la forma di governo legittima per eccellenza; e dall’altro lato, contemporaneamente, la percezione di una sua crisi, almeno nelle società industriali avanzate. E l’asse centrale del libro non propone di smontare le condizioni inospitali per la democrazia, perché queste sono in larga parte al di là della politica, ma suggerisce di ripensare la democrazia stessa confrontandosi con quello che ritengo il paradigma più fertile dell’offerta teorica contemporanea, il liberalismo politico di Rawls».

Se Democrazia presta una grande attenzione alla teoria e alla storia di processi, istituzioni e soggetti democratici, The Democratic Horizon adotta un registro filosofico-politico molto più analitico e centrato sul presente. Quali sono le ragioni delle rispettive scelte?

Petrucciani  «Io ho provato a scrivere un libro introduttivo alla democrazia. Perché teoria e storia? Non solo per i banali motivi che bisogna sempre conoscere quello che abbiamo alle spalle, ma perché, a mio modo di vedere, teoria e storia sono i due poli coi quali la filosofia politica deve sempre fare i conti. La filosofia politica è una filosofia strana, difficile, particolare, perché ha una doppia faccia: nei suoi grandi classici attinge a una purezza quasi geometrica e, tuttavia, è sempre ancorata ai processi storici, il che ovviamente allontana dalla possibilità di fare filosofia in senso puramente teoretico. Prendiamo ad esempio Thomas Hobbes: grandioso ragionamento logico, ma naturalmente incomprensibile senza le guerre di religione e i conflitti nell’Inghilterra del suo tempo. L’ideale che mi sono posto, dunque, è quello di una ricostruzione razionale dei grandi temi e dei grandi testi della democrazia, cercando di mostrare come attraverso processi che sonolargamente casuali, conflittuali e indeterminati, emergano delle strutture e delle istituzioni che hanno una loro logica, una loro razionalità».

Ferrara «Sì, io condivido la notazione sull’ancoramento dei concetti centrali della filosofia politica a un contesto storico. Un conto è parlare di governo legittimo, libertà, potere, giustizia nell’ambito di una polis e un altro è riferirsi a un impero, un conto è lo Stato-nazione e un altro il mondo di oggi, che è globalizzato economicamente ma molto meno da un punto di vista politico. La mia scelta metodologica, però, è stata confrontarsi con un paradigma, quello di Liberalismo politico, collocandolo nel contesto in cui viviamo oggi, che è già diverso da quello di Rawls. Nella fase di maturazione che porta al libro del ’93, infatti, egli ha ancora in mente la classica domanda su che cosa sia una società giusta, su come sia possibile che in una società democratica di liberi ed eguali conviva secondo giustizia gente che la pensa tanto diversamente. In altre parole, Rawls non ha di fronte a sé un orizzonte globale e, perciò, tutta la costruzione di Liberalismo politico poggia sulla possibilità di mettere d’accordo lockeani e rousseauiani. Ma se fosse questa la gamma di differenze su cui trovare un “consenso per intersezione”[ii], saremmo a cavallo: la realtà è tutt’altra e si può riassumere in quello che chiamo ‘iperpluralismo’. Perciò la sfida è rendere il paradigma di Liberalismo politico – che, ripeto, nasce come indagine sulle condizioni di possibilità di una società giusta in un contesto di pluralismo –  una traccia per pensare la possibilità che tutti i Paesi della terra intraprendano un processo di democratizzazione, senza perciò snaturarsi. E, in questo senso, propongo di de-enfatizzare l’idea rawlsiana di “ragione pubblica”[iii] ed enfatizzare invece quella di “discorso congetturale”[iv]».

Petrucciani «Sandro, mi sembra che il problema dell’iperpluralismo sia proprio quello posto in modo radicale dalla nascita del califfato islamico. Come ci può aiutare la teoria rawlsiana a riguardo? Ricordo che in Liberalismo politico Rawls distingue tra concezioni “ragionevoli” e “irragionevoli” di pluralismo[v]. Quello dell’Isis sembrerebbe un tipico caso di “irragionevolezza”. Che cosa ne pensi?».

Ferrara «Secondo me bisogna evitare due estremi. Non si deve interpretare Liberalismo politico come una teoria della mediazione alla Andreotti, per cui, dato un qualsiasi tavolo negoziale, alla fine un punto di accordo si trova sempre e comunque. Per Rawls ci sono dei requisiti minimi cui tutte le visioni politiche devono corrispondere per poter accedere alla mediazione democratica, che a sua volta si riflette in una costituzione. E questi requisiti, che l’Isis sicuramente non soddisfa, vanno sotto il titolo di “ragionevolezza”. Detto ciò, non bisogna cadere nell’eccesso opposto, come fa una certa scolastica post-rawlsiana (penso, ad esempio, all’ultimo libro di Jonathan Quong[vi]): se si stringe la vite in modo tale per cui “ragionevole” diventa sinonimo di “liberale”, infatti, la teoria parlerà solo ai già convinti e bandirà come “irragionevoli” tutti coloro che sottoscrivono solo parzialmente l’universo dei constitutional essentials di un regime democratico. Chi abbia riserve motivate religiosamente, per esempio, sull’uguaglianza di genere o sulla eguale libertà di culto religioso, non dovrebbe essere considerato come “irragionevole”, ma come “non completamente ragionevole”. Ed è qui che diventa centrale la nozione rawlsiana di “congettura”, in cui l’argomentazione non parte da premesse condivise, come invece nell’idea di “ragione pubblica”, ma serve a mostrare all’interlocutore politico come, sulla base della sua stessa concezione morale, sia possibile arrivare a conclusioni compatibili con la democrazia. Quest’operazione, d’altronde, è stata portata avanti da una micro-tradizione di “congetturalismo” della scuola rawlsiana: penso in particolare a Andrew March[vii]».

Dopo aver evidenziato scopi e metodi, veniamo alle concezioni della democrazia. Entrambi i volumi contengono una critica esplicita alle teorie cosiddette “procedurali”: se però Petrucciani appoggia la tesi della «democrazia procedurale-sostanziale» e richiama l’attenzione sulle «finalità» della democrazia, Ferrara sviluppa un articolato e originale discorso sulla peculiare apertura dell’«ethos democratico». Che cos’è dunque la democrazia: procedura, sostanza, finalità, cultura?

Petrucciani  «A mio modo di vedere, la tradizione democratica ha conosciuto una sorta di progressivo arricchimento. Si parte da una visione puramente procedurale come quella kelseniana, in parte ripresa da Bobbio, benché il suo sia un proceduralismo in movimento perché il Bobbio delle “condizioni minime della democrazia”[viii] non è quello delle “promesse non mantenute della democrazia”[ix]. Superando questa linea, è vero, io mi riconosco in ciò che ha scritto Ferrajoli sulla “democrazia procedurale-sostanziale”[x]: egli mostra molto bene l’ulteriore passo in avanti delle democrazie costituzionali moderne, che richiedono sì una serie di procedure ma anche una serie di contenuti sostantivi, dall’istruzione generalizzata alla sanità pubblica. Ma io andrei anche oltre, tenendo conto che negli ultimi trent’anni una gran parte della riflessione politica (pensiamo in particolare a Nussbaum e a Sen) ha posto il problema della democrazia come “sviluppo umano”. Si oltrepassa progressivamente una visione per la quale la democrazia consiste fondamentalmente nella garanzia di diritti e procedure e si va verso una visione per la quale si ripensano gli stessi diritti fondamentali che, ereditati dalle rivoluzioni americana e francese, ritroviamo ancora in capo alle nostre costituzioni. E quindi un tema come la centralità dello sviluppo umano diventa prioritario sia a livello statale sia a livello macro-regionale o sovranazionale. In breve, una concezione larga ed espansiva della democrazia è richiesta dal fatto stesso che un pensiero nato con le rivoluzioni di fine Settecento si è molto evoluto, al punto che anche la migliore riflessione liberale mette al centro i temi dello sviluppo umano e della crescita delle capacità. Una teoria democratica oggi non può farne a meno».

Ferrara «La critica del mio libro al proceduralismo punta in una direzione leggermente diversa: più che le finalità indaga infatti i presupposti di funzionamento del regime democratico. Assumendo per ‘proceduralismo’ un approccio alla democrazia come a un sistema politico identificabile attraverso certe procedure (è stato citato Kelsen, ma molti altri nomi si potrebbero fare), io mi domando perché per la prima volta nel 2008 e per la seconda nel 2012 gli Stati Uniti hanno eletto un presidente di etnia afro-americana, considerando che soltanto nel 2000 l’Alabama aveva abrogato le leggi contro il matrimonio misto. In nessuno dei grandi Paesi europei potremmo neanche lontanamente ipotizzare un evento del genere – lasciando stare l’Italia, non in Francia un presidente di origini algerine, non in Germania un cancelliere di origini turche, non in Inghilterra un primo ministro di origini pakistane. E allora mi domando: qual è la magica formula procedurale presente nell’ordinamento degli Stati Uniti e assente in tutti gli ordinamenti europei che consente un’applicazione così radicale del principio di eguaglianza? Siccome io questa risposta non la vedo, penso che vada cercata in un’altra direzione, cioè nello sfondo etico, morale, culturale su cui le regole poggiano. Le stesse procedure, infatti, funzionano in un contesto e non in un altro, a seconda dell’ethos diffuso, che ha delle radici storiche e certamente non è immutabile, ma si trasforma con una tempistica che non è a disposizione della politica. Non c’è decreto o legge che lo possa cambiare».

Proseguiamo nella pars destruens. I due libri condividono anche una critica alla concezione “competitiva” della democrazia. Quali sono le ragioni di tale posizione? E che cosa pensate della tesi secondo cui il rischio maggiore per le democrazie occidentali oggi non consisterebbe tanto in un’eccessiva competizione tra élites partitiche, quanto piuttosto nell’assenza di grandi alternative tra i programmi presentati all’elettorato?

Ferrara «La concezione economica o elitistico-competitiva della democrazia prevede che i partiti offrano come prodotti i loro programmi politici e i cittadini-consumatori li comprino con il voto. Il limite di questa visione è che assume le preferenze degli individui e, quando si aggregano, le preferenze degli elettorati come dati immediati, non riflessi. Viene dunque a mancare il punto di forza delle concezioni “deliberative” del processo politico, fotografato già a metà del Settecento da Rousseau nell’idea di “volontà generale” come contrapposta alla “volontà di tutti”. Per la concezione deliberativa della democrazia la domanda è: che cosa è bene per noi? E non in astratto, ma per noi italiani, poniamo, data la nostra storia e quello che vogliamo. Sulla scelta del miglior sistema elettorale, per fare un altro esempio, la visione elitistica della democrazia smarrisce la differenza tra il punto di vista dell’attore e il punto di vista più generale, tra la convenienza dei singoli partiti e il bene comune del Paese, tra “volontà di tutti” e “volontà generale”».

Petrucciani «Sì, la visione elitistica rappresenta la democrazia come una competizione tra élites politiche che propongono programmi alternativi ai cittadini, i quali poi, per vari motivi, scelgono quelli che sono in maggiore sintonia con le loro preferenze. Ma effettivamente un nodo critico emerso da qualche tempo a questa parte è che non si vedono più programmi alternativi. Potremmo quantomeno dire che si è andato notevolmente riducendo il tasso di alternatività che caratterizza i programmi politici in competizione. Nella storia del dopoguerra, in Italia ma anche negli altri grandi Paesi europei, i programmi erano contrapposti quasi da una guerra di religione. Invece i processi degli ultimi vent’anni hanno trasformato completamente questo panorama: vediamo infatti che le alternative tra le principali forze politiche in campo non sono più così nette. In ragione dei molti e diversi vincoli con i quali si devono misurare, tante volte le differenze si giocano su sfumature, su delle virgole, come se le grandi linee di quello che la politica oggi può fare fossero già tracciate. Insomma, in una situazione caratterizzata da una certa prevalenza dell’economia e della finanza, la competizione tra alternative si riduce drasticamente».

Ferrara «È un processo storico in cui si sommano tante diverse componenti e che ha tante diverse sfaccettature. A valenza leggermente più positiva si può dire che nei contesti democratici, classicamente, si vince al centro».

Petrucciani «Infatti non è del tutto negativo che la politica non sia più guerra di religione e che i programmi elettorali non siano più così incompatibili. Però, certo, le conseguenze negative ci sono».

Ferrara «Secondo me, Stefano, la ragione della mancanza di alternatività consiste nella migrazione del livello di efficacia politica dalla dimensione nazionale a quella sovranazionale. Ma questo fenomeno dipende anche dalla scala con cui guardiamo alla politica, visto che nelle elezioni locali l’assenza di grandi alternative c’è già da tempo. Quello che fa impressione è vederla nelle grandi tornate elettorali nazionali, però questo dato è probabilmente figlio dello stesso vettore storico. Per cui se ci fossero delle vere elezioni europee, per cinquecento milioni di persone, con una vera sfera pubblica europea, allora la partita tra i fautori del rigore e quelli della crescita ci sarebbe. Invece oggi, in qualunque contesa politica europea, la prima domanda dell’elettorato è che il proprio Paese resti a galla nella competizione globale».

Veniamo ora alla tesi, comune ai due testi, secondo cui la democrazia vivrebbe oggi in Occidente una condizione di forte disagio. Ferrara paragona la democrazia a una pianta e le condizioni sociali, economiche, culturali al terreno in cui è radicata. La questione non può che riguardare, dunque, i motivi per i quali l’epoca contemporanea appare come un ambiente tanto inospitale per la democrazia…

Ferrara «Alcuni dei veleni che inquinano il terreno in cui la democrazia affonda le sue radici sono già stati messi a fuoco quasi vent’anni fa da un autore come Frank Michelman[xi]. Il primo fattore di “inquinamento” è l’enorme estensione degli elettorati. Un effetto paradossale del suffragio universale, infatti, è la sensazione che il proprio voto non conti più nulla. Eppure è un tratto quasi ideologico, se pensiamo che negli ultimi anni ci sono stati tre grandissimi pareggi: Bush vs. Gore nel 2000 e, sei anni dopo, Calderón vs. Obrador in Messico e Prodi vs. Berlusconi in Italia. Eppure quando si vince o perde per 25 mila voti, il proprio voto fa la differenza eccome. La seconda condizione che scoraggia la partecipazione è la complessità istituzionale che scollega il voto dalle sue conseguenze. Tutti noi abbiamo votato alle ultime elezioni, ma rintracciare in che modo abbiamo contributo alla situazione attuale sarebbe un’impresa difficilissima. Il terzo motivo è la già richiamata condizione di “iperpluralismo”. La quarta condizione è il carattere anonimo dei processi di formazione della volontà politica, radicalmente diversa dal faccia a faccia che ancora imperava nell’Ottocento. Io aggiungerei poi una quinta condizione inquinante il terreno della democrazia, ossia la stratificazione della cittadinanza. Tutta la dottrina liberaldemocratica si basa sulla fictio che le persone che vivono dentro un certo territorio geografico, poniamo da Aosta a Lampedusa, siano italiani. Questo ormai è talmente lontano dalla realtà da delineare delle forme di cittadinanza stratificata».

Fin qui le condizioni, per così dire, “storiche” di corruzione della democrazia. Quali sono, invece, i nuovi fattori di inospitalità?

Ferrara «Uno è il prevalere della finanza sulla produzione manifatturiera, e se si vuole un’immagine simbolica è quella del 3 dicembre dell’anno scorso, quando il comune di Detroit, capitale dell’industria americana, è stato autorizzato a portare i libri in tribunale come una normale Lehman Brothers che fallisce, messa in ginocchio non dall’opposizione operaia e dalla lotta sindacale ma dal capitale finanziario di Wall Street. E alla crisi della capacità del lavoro di produrre ricchezza corrisponde la perdita della capacità di aggregarsi, dotarsi di un’agenda comune e ottenere rappresentanza politica. Cresce dunque la diseguaglianza e il libro di Piketty, Il capitale nel xxi secolo [xii], illustra benissimo come questo fatto ostacoli la democrazia. Poi c’è l’accelerazione del tempo sociale, che fa sì che tutti gli avvenimenti si verifichino in “tempo reale”. Già il giornale della mattina ci sembra vecchio, perché le vere notizie sono quelle comunicate sul momento. E questa velocità ha un effetto verticalizzante: diminuendo il tempo della collegialità e della consultazione, aumenta infatti il potere di chi già occupa posizioni di responsabilità, che sia il segretario di un partito, il direttore di un giornale, l’amministratore delegato di un’azienda o il capo di una comunità religiosa. Poi c’è il citato cambio di scala, verso la dimensione sovranazionale, ove il coordinamento dell’azione politica può avvenire tramite la governance più che tramite il classico governo. E qui il deficit non è democratico ma teorico. Un’altra condizione è il modificarsi della sfera pubblica, con la crisi della capacità di orientamento dei grandi media di qualità, per cui le opinioni sono polverizzate e difficili da valutare. E l’ultima condizione, dovuta alla riflessione di Bruce Ackerman[xiii], consiste in una pratica enormemente sottovalutata nell’analisi delle difficoltà della democrazia, ovvero il sondaggio a ritmo continuo sul gradimento dell’azione di governo da parte dell’elettorato. A causa di questo strumento, la legittimità percepita dell’azione di governo non è più affidata all’ultimo risultato elettorale, ma all’ultimo sondaggio. E così la legittimità dei governi sale e scende come la borsa, con due effetti negativi per la democrazia: primo, un’enfasi “presentista” sul consenso immediato di chi c’è piuttosto che sulle future generazioni che non ci sono; secondo, uno squilibrio nella divisione dei poteri, perché il rapporto tra le varie branche cambia fortemente se il gradimento per l’esecutivo, ad esempio, supera il 70% o è in caduta libera sotto il 30%».

Petrucciani «Direi che Sandro ha tracciato un panorama condivisibile, davvero molto accurato ed esauriente. Aggiungerei soltanto che, se dovessi evidenziare due aspetti che ostacolano la buona deliberazione democratica, forse i processi più eclatanti sono la ridefinizione delle scale politiche e la spinta verso la verticalizzazione o, in termini più radicali, verso la “regressione oligarchica” della democrazia. Di recente ne hanno parlato in molti, tra i quali Canfora e Zagrebelsky[xiv]. Del resto, è un processo di cui è difficile sottovalutare la serietà. Proprio in questi giorni, per esempio, sono apparsi sulla scena pubblica due indicatori di questa verticalizzazione della politica democratica. Uno è il drammatico calo degli iscritti ai partiti. La partecipazione a un partito, che – senza alcuna idealizzazione – poteva ancora e comunque rappresentare un momento di discussione più larga, è in calo mostruoso. Ricordiamoci che nei loro periodi aurei partiti come la Democrazia cristiana o il Partito comunista hanno raggiunto vette di circa due milioni o più di iscritti, e in questi giorni abbiamo saputo che il Partito democratico è sceso al minimo storico di 100 mila iscritti. Potrà piacere o no, ma la sostanza è che tende a morire – forse irreversibilmente – il ruolo del cittadino che, iscrivendosi a un partito, diventa attivo e politicamente qualificato. L’altro aspetto molto importante è il ruolo dei parlamentari. In Italia più che altrove, i parlamentari stanno perdendo del tutto il potere di discutere effettivamente, di modificare le decisioni dei governi e quindi di rispondere a coloro che li hanno eletti, instaurando una dialettica tra rappresentanti e rappresentati. I parlamenti vengono ridotti a camere di registrazione della fiducia, nonostante volino i libri e gli iPad come forma di protesta. I processi di verticalizzazione e il calo della partecipazione camminano dunque a grandi passi, dando vita a una dinamica che si autoalimenta. Sì, perché quanto meno la partecipazione conta qualcosa, tanto meno si è spinti a partecipare e quindi il disagio accresce in qualche modo se stesso. E, a proposito di sondaggi, sappiamo che i dati sulla fiducia che i cittadini ripongono nei partiti peggiorano costantemente di anno in anno».

La regressione oligarchica potrebbe considerarsi, d’altronde, come il rovescio della nuova scalarità. Oggi è sempre più evidente come i processi di globalizzazione incidano profondamente sulla resistenza dello storico “assemblaggio”, per dirla con Saskia Sassen, tra democrazia e Stato nazional-territoriale. Senza entrare nel merito della questione su chi e cosa abbia avviato la globalizzazione, si può pensare la democrazia oltre lo Stato? E, se sì, come?

Ferrara «Per chi fa filosofia politica, il fatto che la politica raggiunga efficacia solo sulla dimensione continentale – che in Europa è necessariamente post-nazionale, mentre negli Stati uniti e in Cina è ancora nazionale – pone prima di tutto la sfida di distinguere tra governoe governance. È vero che quello di governance è un concetto slabbrato, confuso, usato spesso come sinonimo di “coordinamento” e basta, però penso che sia assolutamente esagerata la critica di quei teorici politici, come Claus Offe, che hanno sparato a zero sul concetto di governance come “significante vuoto”[xv]. La chiave, secondo me, sta nella sanzione: il governo democratico prevede la capacità di decidere sulla base di una legittimazione popolare, conservando il potere di sanzionare chi non si adegua; governance, invece, significa coordinamento di attori diversi, senza la possibilità di bacchettare coloro che non si adeguano. La differenza quindi è tra monopolio dell’uso legittimo della forza nello Stato-nazione, nel caso del governo, e monopolio dell’attribuzione di legittimità nelle strutture di governance, per cui è valida solo quell’azione che riceve l’“imprimatur” da parte di tutta la struttura di governance. Posta tale differenza, rimane però da distinguere che cosa vuol dire governance democratica e governance tecnocratica, che cos’è rappresentanza e che cos’è accountability quando le strutture sono di governance. Mario Draghi, ad esempio, occupa una posizione influentissima, che certamente non è al di sopra della legge, ma a chi risponde?».

Petrucciani  «Replicare con delle proposte è molto difficile. Mi sembra possibile più che altro scattare una fotografia della situazione, un’immagine in cui dimensione nazionale e dimensione sovranazionale si tengano, siano in qualche modo co-implicate. Sul piano nazionale è evidente la consunzione dei meccanismi rappresentativi, che in Italia è palese nello scontento sociale ed è stata sicuramente al centro del grande successo del Movimento 5 Stelle. Certo, i meccanismi della rappresentanza sono diventati meno importanti, sono stati per così dire “provincializzati” dal ruolo acquisito da altre sedi, ma restano comunque una grande articolazione, che allo stato attuale è assolutamente logora e andrebbe dunque ripensata con coraggio. A questo si lega il discorso sul sovranazionale e qui sono d’accordo con Sandro e un po’ meno con tanti autori della democrazia cosmopolitica, tra i quali Held[xvi] e Archibugi[xvii]: proprio perché il meccanismo rappresentativo già sperimentato nello Stato-nazione è così logoro, non credo che sarebbe utile trasporlosemplicemente su una scala molto più grande. Insomma, bisognerebbe fare innanzitutto una diagnosi della situazione e poi, per studiare nuove vie democratiche, ci vorrebbe tanta inventiva politica e fantasia istituzionale».

Passiamo dunque al “dover essere”. Entrambi i volumi propongono una teoria normativo-deliberativa della democrazia: sulla scorta di Calogero e Apel, Petrucciani argomenta la «giustificazione dialogica della democrazia»; nella sfida di rinnovare in senso universalista il liberalismo politico rawlsiano, Ferrara lavora invece sulle fonti estetiche della normatività e, in particolare, sulle idee di esemplarità, giudizio e immaginazione. Quali sono le ragioni di queste prospettive?

Petrucciani  «Ritorniamo un momento ai fondamenti, perché, come detto, la filosofia politica è un processo in cui si torna costantemente ai fondamenti per poi muovere verso le dinamiche della realtà. L’approccio che a me sembra più convincente rintraccia, in ultima istanza, una radice etica nella democrazia. A mio modo di vedere, la democrazia poggia inevitabilmente su basi etiche universalistiche. Dopodiché, bisogna discutere di quale sia l’etica adeguata alla democrazia e, dal mio punto di vista, l’etica che maggiormente si inquadra con una visione democratica della politica sta sulla linea delle etiche del dialogo e del discorso. I principi morali su cui si regge la democrazia sarebbero, in particolare, il pari diritto di ciascuno a far sentire la propria voce e il rispetto di tutte le persone. In questa prospettiva, dunque, l’enfasi non poggia tanto sul rispetto di leggi o regole astratte, ma punta massimamente sull’interazione discorsiva tra le persone, sulla creazione di sfere di confronto dialogico e di discorso pubblico. Tornando alla realtà, tutto ciò è naturalmente tanto un ineludibile sfondo teorico della democrazia quanto qualcosa che si pone in forte attrito con i processi reali, che in generale non sono caratterizzati da un ampio tasso di ragionevolezza, discorsività e confronto, ma al contrario da irrazionalità e da grandi correnti di manipolazione dell’opinione. Quindi, si può dire che la democrazia radicata in un’etica della discussione sia un ideale molto esigente, un punto di riferimento teorico normativo con cui guardare criticamente ai processi reali».

Ferrara «Riguardo alla teoria normativa della democrazia, penso anzitutto che, grazie al concetto del “ragionevole”, il tema delle fonti estetiche della normatività fosse già ingranato nell’impianto teorico rawlsiano. Oltre dieci anni prima di scrivere Liberalismo politico, infatti, Rawls non qualificava la pretesa di validità della sua “giustizia come equità” in termini classici: la teoria della giustizia non doveva cioè imporsi al consenso di una platea illimitata, ma doveva essere piuttosto la teoria del “più ragionevole per noi”[xviii]. Ora, se non schiacciamo nuovamente quella frase – “più ragionevole per noi” – su un’idea di normatività pratica universale, in senso kantiano o utilitarista (che è opposto a quello di Kant ma egualmente astratto), allora il “più ragionevole per noi” può derivare la sua normatività da chi noi siamo, da una certa idea di autenticità e, quindi, di esemplarità. E il vantaggio della democrazia, in quest’ottica rawlsiana, è che in ultima analisi solo in un contesto democratico possiamo soddisfare i nostri obblighi politici e abitare nelle istituzioni, rimanendo noi stessi. È proprio di regimi variamente oppressivi, invece, costringerci a “non poter essere noi stessi” se vogliamo obbedire alle leggi. Le due proposte del libro – l’idea di “regime democratico multivariato” e di “democrazie multiple” – sono solo apparentemente più tecniche e legate allo sviluppo del paradigma rawlsiano. In realtà, si collegano al tema dell’esemplarità e del poter essere se stessi in un regime democratico. La proposta di un “regime democratico multivariato” contempla fin dall’inizio l’ipotesi che gli elementi costituzionali essenziali, quelli che formano il nucleo di un consenso che legittima l’intero regime democratico, non siano sottoscritti in toto da sezioni importanti della cittadinanza. Potrebbe esserci o meno una ricaduta in termini di pluralismo legale, ma in sostanza non si avrebbe la rigidità ancora presente in Liberalismo politico, tale per cui se questo nucleo non è sottoscritto da tutti, se l’intersezione non è perfetta, allora ci troviamo di fronte a un modus vivendi, un compromesso di fatto. Mentre l’idea di “democrazie multiple”, di una pluralizzazione dell’ethos democratico, contribuisce proprio alla riflessione su che cosa voglia dire “democratizzarsi” per uno dei cento Paesi che, secondo l’ultimo rapporto di Freedom House, non sono ancora delle  democrazie. La teoria politica non deve ripetere l’errore della teoria della modernizzazione che, negli anni Sessanta, aveva in mente un unico percorso di sviluppo che avrebbe trasformato le società tradizionali nella brutta copia delle società occidentali. Sulla democrazia è una responsabilità di chi fa filosofia politica pensare in una chiave che disgiunga democratizzazione e occidentalizzazione. E se rimaniamo fedeli all’idea che democrazia voglia dire obbedire alla normatività di un ordinamento politico senza snaturarsi, democratizzarsi non potrà significare occidentalizzarsi».

Petrucciani  «Mi sembra un discorso molto interessante. Vedo soltanto un problema a margine. Tu dici giustamente di non pensare la democratizzazione come occidentalizzazione però, guardando alla vicenda tutto sommato fallimentare delle primavere arabe, secondo me si pone una questione: ci sono dei presupposti perché una democratizzazione possa riuscire? Storicamente, in Occidente, la democrazia è venuta dopo lo Stato di diritto, istauratosi sul principio dell’Habeas corpus, dopo una cultura individualistica, che si afferma già nel Rinascimento, e dopo il pluralismo delle visioni morali e religiose. Allora la domanda che ti pongo, senza conoscere la risposta, è questa: è possibile una democratizzazione se prima non si sono in qualche modo assestate quelle che per il percorso occidentale sono state le “precondizioni storiche” della democrazia? A me sembra abbastanza difficile».

Ferrara «Io distinguerei prima di tutto due piani: uno riguarda la congiuntura storica in cui un Paese si trova, che dipende dalle sue vicissitudini interne; un altro, invece, riguarda la presunta refrattarietà alla democratizzazione di grandi visioni del mondo riconducibili in ultima analisi alle religioni storiche. Ora, i limiti alla democratizzazione sono stati spesso ascritti ideologicamente ai limiti delle visioni del mondo in quanto tali. Si è posta e si pone la questione, ad esempio, se una popolazione islamica possa essere veramente democratica. E ricordiamo che meno di duecento anni fa, negli Stati Uniti, la stessa domanda riguardava il cattolicesimo: può un cattolico essere democratico? La prima cosa importante, quindi, è smontare questa costruzione. Anche perché ritengo che le “precondizioni” della democrazia, come le hai chiamate tu, si possano sintetizzare in tre elementi: una propensione alla priorità del bene comune rispetto ai beni particolari, un certo valore dell’eguaglianza delle persone e un’idea del consenso come fattore legittimante. Io penso che queste “precondizioni” siano tutte rinvenibili anche nelle religioni che a prima vista sembrano più ostili alla cultura democratica. Nel confucianesimo, per esempio, una base di eguaglianza morale c’è e deriva dalla convinzione che a nessun individuo è preclusa per principio la capacità di acquisire perfezione morale. Secondo me, le peculiarità prettamente occidentali sono essenzialmente due: la priorità dei diritti sui doveri e il valore del conflitto, del confronto, dell’agonismo. Ma anche in questo caso nel libro cerco di dimostrare che la frattura non corre tra Occidente e resto del mondo, perché la priorità dei diritti è stata fortemente contestata anche in Occidente: pensa al tradizionalismo di Burke, pensa a Hegel, alla contrapposizione tra etica della cura ed etica dei diritti nel femminismo, e, se non bastasse, all’utilitarismo, per il quale la fonte primaria di normatività non sono i diritti ma l’utilità sociale».

Petrucciani  «Ritieni però che ci siano degli stadi necessari per tutte le culture nel processo di costruzione di una democrazia?».

Ferrara «È una questione aperta. L’India, ad esempio, ha raggiunto una democrazia pluralista senza mai passare attraverso l’esperienza delle guerre di religione. Ovviamente ci sono state e continuano a esserci violenze tra gruppi, ma non c’è mai stata una guerra di religione come la Guerra dei trent’anni in Europa».

Finora abbiamo parlato dei presupposti culturali, storici e istituzionali della democrazia. Non abbiamo ancora messo in luce, però, come uno dei presupposti della democrazia sia stata, di fatto, la crescita capitalistica. Quando un Paese entra in recessione, non è forse inevitabile che lo Stato non riesca a mantenere intatte le prestazioni di assistenza sociale? E, più radicalmente, non è che forse il vero presupposto dello sviluppo della democrazia in Occidente si nascondesse nell’egemonia di una parte del mondo sul resto?

Petrucciani  «Il primo aspetto mi sembra lampante, almeno in Europa, perché forse per gli Stati Uniti il discorso è un po’ diverso: la democrazia diventa l’ordine politico legittimo soltanto quando dimostra la capacità di includere economicamente grandi strati sociali. Finché le contraddizioni economiche della società sono troppo forti, come nel primo dopoguerra devastato da crisi economiche e inflazioni catastrofiche, in Europa la democrazia non si assesta. La democrazia si impone veramente nel secondo dopoguerra, quando bene o male entrano in sinergia due fonti di legittimazione: da un lato, certo, l’eguaglianza dei diritti, l’autogoverno, la partecipazione aperta a tutti, donne e uomini; dall’altro, però, la crescita del benessere. La legittimità dell’ordine democratico, in altre parole, è data anche dal fatto che questo si dimostra capace di garantire una graduale crescita del benessere. Allora la questione diventa: quanta crisi economica è in grado di sopportare la democrazia senza collassare? Nonostante la crisi, la gente in Europa ancora mangia. Si cominciano tuttavia a vedere forti segnali di risentimento e questo è un problema enorme, che dovrebbe far riflettere anche gli apostoli dell’austerità e del rigore. Attenti, quindi, perché un ordine troppo punitivo rischia di intaccare le condizioni stesse della democrazia. Non tanto perché la gente in questo mondo opulento non abbia da abitare o da mangiare, quanto piuttosto perché così si erodono le condizioni di legittimazione della democrazia: la gente rischia di non riconoscersi più in questo assetto politico. Questo mi sembra il problema. Poi, certo, c’è anche l’altro aspetto che dicevi tu, se e come il benessere dei Paesi avanzati sia compatibile con quello dei Paesi emergenti. Però intanto bisogna stabilire quanta crisi economica la democrazia sia in grado di sopportare».

Ferrara «Il fatto stesso che si ragioni tanto sul costo della sanità, dell’istruzione, della ricerca, è riflesso del pregiudizio per il quale i diritti sociali sarebbero “meno diritti” degli altri. Ma facevi bene a reclamare un discorso diverso per gli Stati Uniti. Bisogna interrogarsi, infatti, se questa equazione tra crisi economica e crisi della democrazia non sia una rappresentazione tutta europea. Io non posso dimenticare di aver avuto la sfacciataggine, da giovane, di chiedere a un’anziana signora tedesca come avesse votato nel ’33. Lei mi disse che sì, capiva la mia curiosità e onestamente rispose di aver votato per Hitler. E alla domanda sul perché, disse: “guardi, non appena ci riprendemmo dalla grande inflazione del ’23 arrivò la crisi del ’29, io mi dovetti trasferire per cercare lavoro, c’era una fame nera e lui era l’unico a promettere di sistemare l’economia, di creare posti di lavoro…”. Ebbene, dopo aver raccontato questo episodio a un amico americano, egli commentò: “ma questa fu esattamente la stessa motivazione che negli Stati Uniti spinse l’elettore medio a votare per Roosvelt!”. L’elemento su cui riflettere, dunque, è che la crisi del ’29 ha prodotto il nazismo e rafforzato il fascismo di qua dell’oceano, mentre dall’altra parte ha portato il New Deal e una grande fioritura democratica. E oggi, di fronte a una recessione di ben minore entità, già recuperata negli Stati Uniti che sono di nuovo in crescita, questo storico contrasto è riapparso: in Europa sono ricomparsi i populismi, la chiusura nazionalistica, la regressione particolaristica con inclinazioni autoritarie, mentre sull’altra sponda dell’oceano Obama è stato tranquillamente rieletto e il Partito Democratico si avvia con fiducia alle elezioni presidenziali del 2016».

 


Alessandro Ferrara, ordinario di Filosofia politica presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, è stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Politica dal 2005 al 2010 e dal 1993 è co-direttore della Conferenza annuale Philosophy and Social Science di Praga. E’ co-fondatore e co-coordina il Seminario di Teoria Critica di Cortona. Autore di diversi volumi, fra cui Reflective Authenticity (1998), Justice and Judgment (1999), The Force of the Example (2008), tutti tradotti in italiano,  nel 2011 ha pubblicato Democrazia e apertura.

Stefano Petrucciani è professore di Filosofia politica nell’Università di Roma La Sapienza. E’ autore di numerosi libri tra cui Introduzione a Habermas (Laterza 2000), Modelli di filosofia politica (Einaudi 2003), Introduzione a Adorno (Laterza 2007), Marx (Carocci 2009), A lezione da Marx. Nuove interpretazioni, (Manifestolibri 2012).


 

NOTE

[i] S. Petrucciani, Introduzione a Habermas, Laterza, Roma-Bari 20113.

[ii] «L’idea (o meglio il termine) di consenso per intersezione», scrive John Rawls in nota a Liberalismo politico (1993, nuova ed. ampliata nel 2005), Einaudi, Torino 2012, p. 16, «è stata introdotta in Teoria della giustizia come strumento per indebolire le condizioni di ragionevolezza della disobbedienza civile in una società democratica quasi giusta. In queste lezioni io la uso […] in un senso diverso». Un senso cui Rawls accenna nel testo (ivi, pp. 15-16), quando scrive che il consenso per intersezione «è formato da tutte le dottrine religiose, filosofiche e morali ragionevoli, fra loro opposte, che hanno buone probabilità di durare di generazione in generazione e di conquistarsi un seguito consistente in un regime costituzionale più o meno giusto nel quale il criterio della giustizia sia quella stessa concezione politica».

[iii] «La ragione pubblica è tipica dei popoli democratici: è la ragione dei cittadini, di coloro che hanno in comune lo stato di uguale cittadinanza. L’oggetto della loro ragione è il bene pubblico, è ciò che la concezione politica della giustizia richiede riguardo alla struttura istituzionale di base della società, nonché agli scopi e fini di cui essi, i cittadini, devono porsi al servizio» (ivi, p. 193).

[iv] Rawls definisce il discorso congetturale come segue: «ragioniamo sulla base di quelle che crediamo siano, o ipotizziamo essere, le dottrine fondamentali, religiose o non religiose, delle altre persone, e quindi cerchiamo di mostrare loro che, qualunque cosa pensino a questo proposito, esse possono nondimeno sostenere una concezione politica ragionevole su cui fondare ragioni pubbliche» (ivi, pp. 431-432).

[v] Ivi, pp. 116-119.

[vi] J. Quong, Liberalism without Perfection, Oxford University Press, Oxford 2011.

[vii] A. March, Islam and Liberal Citizenship: The Search for an Overlapping Consensus, Oxford University Press, Oxford 2009.

[viii] N. Bobbio, Della libertà dei moderni comparata a quella dei posteri (1954) in Politica e cultura, Einaudi, Torino 2005, pp. 132-162.

[ix] Id., Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-28.

[x] L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale e la sua crisi odierna, in «Parole chiave», n. 43, giugno 2010 (fascicolo monografico dedicato a «Democrazia»), pp. 25-59.

[xi] F.I. Michelman, How Can the People Ever Make the Laws? A Critique of Deliberative Democracy, in J. Bohman e W. Rehg (a cura di), Deliberative Democracy, MIT Press, Cambridge, MA, 1997, pp. 145-171.

[xii] T. Piketty, Il capitale nel xxi secolo (2013), Bompiani, Milano 2014.

[xiii] B. Ackerman, The Decline and Fall of the American Republic, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2010, pp. 131-135.

[xiv] L. Canfora, G. Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia. Un dialogo, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2014.

[xv] C. Offe, An ‘Empty Signifier’?, in «Constellations», 2009, vol. 16, n. 4, pp. 550-562.

[xvi] D. Held, Governare la globalizzazione. Un’alternativa democratica al mondo unipolare (2004), il Mulino, Bologna 2005.

[xvii] D. Archibugi, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, il Saggiatore, Milano 2009.

[xviii] J. Rawls, Kantian Constructivism in Moral Theory, in «Journal of Philosophy», 1980, n. 88, p. 519.

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