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21 gennaio 2015

Le metamorfosi della democrazia
di Daniele Lorenzini

Dopo il successo di Pourquoi désobéir en démocratie?, Albert Ogien e Sandra Laugier tornano a riflettere sulle profonde trasformazioni contemporanee del rapporto tra governanti e governati nelle democrazie occidentali. Per loro, il principe démocratie consiste innanzitutto nel valorizzare le esperienze dei “dominati”, ovvero di coloro che tendono ad essere sistematicamente esclusi dal “gioco” democratico.

Nel primo libro nato dalla loro collaborazione, Pourquoi désobéir en démocratie? (Paris, La Découverte, 2010), ora disponibile anche in traduzione italiana[1], Albert Ogien e Sandra Laugier riflettevano sulle forme contemporanee della disobbedienza civile, proponendo una ridefinizione della democrazia nei termini di una “democrazia radicale” fondata – come lo era (o meglio, come avrebbe dovuto esserlo) la democrazia americana nelle concezioni di Ralph Waldo Emerson e di Henry David Thoreau – sulla possibilità per tutti i cittadini, ad ogni momento, di dire “no”, di rifiutare di obbedire a una legge o a una disposizione giudicata ingiusta. Lungi dal costituire un’eccezione, una minaccia o una negazione della democrazia stessa, la disobbedienza si configurerebbe quindi come il suo fondamento più autentico, contro ogni prospettiva che, appellandosi a un presunto contratto sociale indefinitamente vincolante, vorrebbe privare i cittadini dell’opportunità di esprimere il proprio dissenso nei confronti di un governo che è chiamato a parlare anche a loro nome[2].

Le principe démocratie. Enquête sur les nouvelles formes du politique (Paris, La Découverte, 2014) si inscrive in una continuità rivendicata con il precedente lavoro, ma si propone di esplorare le conseguenze dell’estensione contemporanea del campo e del senso della disobbedienza a movimenti di protesta più importanti e massivi: le occupazioni di piazza, le insurrezioni civili, le mobilitazioni transnazionali, il cyber-attivismo, e così via. La tesi dei due autori è che questa ondata mondiale di manifestazioni e di proteste extra-istituzionali che rappresentano, ai loro occhi, una nuova forma assunta dal politico nelle nostre società, sia cominciata nel gennaio del 2011 a Tunisi, e che si sia poi diffusa su scala globale, testimoniando – pur nella specificità irriducibile di ogni situazione e di ogni contesto sociopolitico – la medesima volontà dei cittadini di esercitare direttamente un controllo sulle decisioni e sull’azione di coloro che li governano e li rappresentano (p. 7). Questo risveglio della “politica della strada” contribuirebbe, del resto, a smentire definitivamente la retorica della presunta depoliticizzazione delle società contemporanee: il “politico”[3], in un certo senso, non è mai stato così vivo come lo è oggi – soltanto, esso si è trasformato, si sta trasformando sotto i nostri occhi.

La tesi di Albert Ogien e Sandra Laugier è che, in queste nuove forme assunte dal politico, sia possibile riconoscere i contorni di un inedito principe démocratie. Tuttavia, lungi dal voler così innalzare la democrazia a principio intangibile, gli autori si propongono in realtà semplicemente di cogliere e analizzare, al di là delle differenze innegabili, gli usi che i cittadini possono fare della nozione di democrazia nel momento stesso in cui rimettono in discussione la legittimità dei poteri che li governano (pp. 10-11). E la democrazia, in questo senso, più che come un “principio”, si configura come una vera e propria “forma di vita”. Ma che tipo di forma di vita?

Il problema è che le rivendicazioni che possiamo raggruppare sotto la medesima parola d’ordine – “democrazia!” – sono in realtà estremamente varie e talvolta perfino contraddittorie: dignità delle persone, onestà dei governanti, trasparenza dell’azione pubblica, soppressione dei privilegi di una “casta”, indipendenza dei mezzi d’informazione, aiuti sociali ai meno abbienti, libertà individuale, ma anche, sovente, ritorno alla tradizione, necessità di un’autorità forte, rifiuto dell’uguaglianza e limitazione dei diritti delle persone. Il termine stesso di democrazia mostra quindi di possedere un’estensione semantica senza precedenti, caricandosi di un’inevitabile ambiguità. Vi è però un modo per fare chiarezza che può essere desunto dalle analisi di Albert Ogien e Sandra Laugier: i movimenti che davvero stanno contribuendo a trasformare la nostra idea e la nostra pratica della democrazia non si caratterizzano solo per uno (sterile, retorico) appello alla democrazia, ma anche e soprattutto perché la loro azione si colloca deliberatamente al di fuori delle organizzazioni politiche tradizionali, e perché essi al contempo ricercano l’unanimità nelle proprie rivendicazioni, rifiutano di darsi un leader unico e un programma, e optano per la scelta (strategica) della non-violenza (p. 20)[4]. Insomma, i movimenti di protesta sui quali gli autori vogliono attirare la nostra attenzione rivendicano, certo, un principe démocratie, ma nel farlo affermano in realtà due cose: da una parte, che non viviamo davvero in una democrazia, in una società democratica; e, dall’altra, che è dunque un compito urgente, fondamentale, per tutti i cittadini, riflettere collettivamente su cosa significhi vivere in una democrazia, su cosa sia veramente una democrazia.

Domanda alla quale, come sottolineano Albert Ogien e Sandra Laugier, non vi è una risposta definitiva, ma che costituisce (o meglio, dovrebbe costituire) il fondamento stesso di ogni forma di vita democratica. Stanley Cavell lo aveva affermato già più di venticinque anni fa, in un libro recentemente tradotto anche in italiano: la pratica della disobbedienza – così come, potremmo dire, tutte le nuove forme di rivendicazione politica che possiedono le caratteristiche sopra citate – non va confusa con un rifiuto della democrazia o con la volontà di porsi al di fuori del “gioco” democratico. Al contrario, vi è sempre, in queste pratiche e in questi movimenti, una parte inevitabile di compromesso, un consenso (per quanto minimale) alla società nella sua forma attuale, non solo perché un “fuori” assoluto non esiste, ma anche e soprattutto perché «lo spazio che ci separa collettivamente dalla giustizia perfetta, pur essendo a volte doloroso al punto da risultare insopportabile, è comunque abitabile, e perfino necessario come luogo in cui portare avanti il cambiamento»[5].

In questa affermazione si può già riconoscere l’idea di una democrazia “radicale” – o meglio, “perfezionista” – della quale Albert Ogien e Sandra Laugier si fanno promotori. Al cuore del principe démocratie, infatti, è inscritta a loro avviso una tesi essenziale, spesso considerata ingiusta o eccessiva, ma che testimonia in realtà del carattere perfezionista di tale concezione della democrazia:

[L]a democrazia è sempre una democrazia a venire, il passo successivo che siamo chiamati a fare per realizzarla pienamente, e così via all’infinito. In altri termini, bisogna ammettere che la democrazia è […] uno stato condannato a non essere mai del tutto raggiunto; o un’idea condannata a non realizzare mai tutte le promesse che contiene (p. 277).

Con una simile operazione teorica, ardita e per certi versi scandalosa, Albert Ogien e Sandra Laugier tentano dunque di spostare il problema della politica dalle strategie di governo, dalle leggi e dalle campagne elettorali dei partiti in vista delle elezioni, alle modalità attraverso le quali i cittadini cercano di riappropriarsi del diritto di esprimere un rifiuto che è, in sé, già politico. Si tratta, in fondo, dello stesso tipo di rifiuto che Michel Foucault, nel 1978, ha definito nei termini di un “atteggiamento critico”, ovvero della volontà di non essere governati così, in questo modo, da queste persone e a questo prezzo[6]. Ma è attraverso una discussione problematizzante delle concezioni dell’“azione politica” e della “capacità critica” che emergono dalle prospettive di Alain Badiou, di Toni Negri e Michael Hardt, di Jacques Rancière, di Pierre Bourdieu e di John Dewey, che i due autori fotografano in modo più preciso l’«esigenza al contempo radicale e ordinaria» contenuta nel principe démocratie (p. 116). Un principio che, sostengono, si fonda su un’idea semplice, ma rivoluzionaria: «i problemi pubblici sono inestricabilmente avviluppati in ciò che costituisce il quotidiano della vita di una società, e coloro che ne fanno l’esperienza sono i più qualificati a definirli e ad elaborare nei loro confronti le soluzioni più appropriate» (p. 119). Per questo, ogni cittadino è responsabile quanto ogni altro del destino della collettività nella quale vive; per questo, i manifestanti e gli “occupanti” di oggi «non si accontentano di “volere” un altro mondo, da ottenere con ogni mezzo, ma lo creano, qui ed ora, irreversibilmente, nel cuore stesso del mondo esistente» (p. 225).

NOTE

[1] Cfr. A. Ogien e S. Laugier, Perché disobbedire in democrazia?, Pisa, ETS, 2014.

[2] Cfr. Intervista a Sandra Laugier e Albert Ogien su Pourquoi désobéir en démocratie?, in «materiali foucaultiani», disponibile online: <http://www.materialifoucaultiani.org/it/materiali/altri-materiali/55-intervista-a-sandra-laugier-e-albert-ogien/113-laugier-ogien-intervista-1.html> (consultato il 13-01-2015).

[3] Per la distinzione tracciata dagli autori tra la politica e il politico, cfr. A. Ogien e S. Laugier, Le principe démocratie. Enquête sur les nouvelles formes du politique, Paris, La Découverte, 2014, pp. 23-26.

[4] Per la discussione del carattere strategico della scelta della non-violenza, cfr. ibidem, pp. 222-225.

[5] S. Cavell, Condizioni ammirevoli e avvilenti. La costituzione del perfezionismo emersoniano, Roma, Armando, 2014, capitolo 3.

[6] Cfr. M. Foucault, Illuminismo e critica, Roma, Donzelli, 1997.

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