PATTO MAFIA-STATO


Vent'Anni di Trattativa; guarda la videocronistoria


Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra


“Borsellino ucciso dallo Stato”. Enrico Deaglio racconta “Il vile agguato”


All'Origine del Patto


Il 2011 in Cinquanta Inchieste


Il Fatto Quotidiano
13 Marzo 2012

Fate schifo
di Marco Travaglio

Ma interessa ancora a qualcuno sapere perché vent’anni fa è morto Paolo Borsellino con gli uomini di scorta? Sapere perché l’anno seguente sono morte 5 persone e 29 sono rimaste ferite nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze, altre 5 sono morte e altre 10 sono rimaste ferite in via Palestro a Milano, altre 17 sono rimaste ferite a Roma davanti alle basiliche? Interessa a qualcuno tutto ciò, a parte un pugno di pm, giornalisti e cittadini irriducibili? Oppure la verità su quell’orrendo biennio è una questione privata fra la mafia e i parenti dei morti ammazzati?

È questa, al di là delle dotte e tartufesche disquisizioni sul concorso esterno in associazione mafiosa, la domanda che non trova risposta nel dibattito (si fa per dire) seguìto alla sentenza di Cassazione su Marcello Dell’Utri e alle parole a vanvera di un sostituto Pg. O meglio, una risposta la trova: non interessa a nessuno. A parte i soliti Di Pietro e Vendola, famigerati protagonisti della “foto di Vasto” che va cancellata o ritoccata come ai tempi di Stalin, magari col photoshop, non c’è leader politico che dica: “Voglio sapere”. Anzi, dalle dichiarazioni dei politici che danno aria alla bocca senza sapere neppure di cosa parlano, traspare un corale “non vogliamo sapere”.

Forse perché sanno bene quel che emergerebbe, a lasciar fare i magistrati che vogliono sapere: il segreto che accomuna pezzi di Prima e Seconda Repubblica, ministri e alti ufficiali bugiardi e smemorati, politici, istituzioni, apparati, forze dell’ordine, servizi di sicurezza. Quel segreto che viene violato solo quando proprio non se ne può fare a meno perché mafiosi e figli di mafiosi han cominciato a svelarlo. Quel segreto che ha garantito carriere ai depositari e ai loro complici. Già quel poco che si sa – che poi poco non è – è insopportabile per un sistema che si ostina a raccontarci la favoletta dello Stato da una parte e dell’Antistato dall’altra, l’un contro l’altro armati. La leggenda del “mai abbassare la guardia”, delle “centinaia di arresti e sequestri”, “della linea della fermezza”, del “tutti uniti contro la mafia”, mentre dietro le quinte si tresca con quella per venire a patti, avere voti, usarla come braccio armato e regolare i conti sporchi della politica, rimuovendo un ostacolo dopo l’altro: da Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, giù giù fino a Falcone e Borsellino.

Ora, nel ventennale di Capaci e via D’Amelio, prepariamoci a un surplus di retorica, nastri tagliati, cippi, busti e monumenti equestri, moniti quirinalizi, lacrime tecniche e sobrie, corone di fiori delle alte cariche dello Stato (anche del presidente del Senato indagato per concorso esterno che spiega all’Annunziata la sua teoria di giurista super partes sul concorso esterno senza neppure arrossire). Sfileranno in corteo trasversale quelli che -come da papello – han chiuso Pianosa e Asinara, svuotato il 41-bis facendo finta di stabilizzarlo come da papello, abolito i pentiti per legge, tentato di abolire pure l’ergastolo, regalato ai riciclatori mafiosi tre scudi fiscali.

Quelli che han detto “con la mafia bisogna convivere” e ci sono riusciti benissimo. Casomai interessasse a qualcuno, i disturbatori della quiete pubblica riuniti nell’Associazione vittime di via dei Georgofili, guidata da una donna eccezionale, Giovanna Maggiani Chelli, hanno appena reso noto la sentenza con cui la Corte d’assise di Firenze ha mandato all’ergastolo l’ultimo boss stragista, Francesco Tagliavia. “Una trattativa – scrivono i giudici – indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Dopo il concorso esterno, se ci fosse un po’ di giustizia, la Cassazione dovrebbe abolire anche la strage. Oppure unificare i due reati in uno solo, chiamato “schifo”.

Il Fatto Quotidiano
 7 agosto 2012

Persecuzione
di Antonio Padellaro

È bene dirlo con la massima chiarezza che le notizie sull’azione disciplinare avviata dal Pg della Cassazione contro i vertici della Procura di Palermo ci parlano ormai di una vera e propria strategia persecutoria scatenata da alcuni organi dello Stato contro altri organi dello Stato preposti alla ricerca della verità nella lotta ai poteri criminali. Che poi questa strategia finisca per scardinare e delegittimare gli uffici giudiziari siciliani è pura constatazione che nasce dall’osservazione dei fatti.

Prima la campagna forsennata condotta (con l’ausilio di giornaloni e giornalacci compiacenti) contro il pm Antonio Ingroia, colpevole di avere sfidato chi tenta dall’alto di imbavagliare l’indagine sulla trattativa fra pezzi delle istituzioni e mafia a rivendicare la “ragion di Stato” e festosamente accompagnato in Guatemala dopo essere stato lasciato solo “in una stanza buia”.

Poi la pratica aperta presso il Csm per il trasferimento d’ufficio di Roberto Scarpinato, Pg a Caltanissetta, reo di aver ricordato, pochi giorni fa, nel ventennale della strage di via D’Amelio, l’impegno di Paolo Borsellino per ripristinare la credibilità dello Stato minata da quanti, pur ricoprendo cariche pubbliche, conducevano (e magari ancora conducono) vite improntate a quello che egli definì “il puzzo del compromesso morale che si contrappone al fresco profumo della libertà”.

Tocca ora al pur prudentissimo capo della Procura palermitana Francesco Messineo e al sostituto Nino Di Matteo assaggiare la frusta del sinedrio degli scribi e dei farisei, posti a guardia di una inesistente sacralità del Quirinale e del suo inquilino. Sembra infatti che a Di Matteo venga rimproverata l’intervista a Repubblica in cui parlava delle intercettazioni indirette di Giorgio Napolitano a colloquio con Nicola Mancino (notizia peraltro già rivelata da Panorama); Messineo invece dovrebbe discolparsi per una sorta di omessa vigilanza sul suo pm.

Un clima cupo, insomma, a cui hanno già dato una vigorosa risposta i 320 magistrati firmatari dell’appello in favore di Scarpinato. E a cui sicuramente, con la Procura di Palermo sotto attacco trasversale, si uniranno altre voci. A cominciare dalla nostra.

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