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31 Ottobre/07 Novembre 2014

Trattativa Stato-mafia.
di Sergio Cararo

Indagine su una trattativa al di sopra di ogni sospetto
prima parte

Appare quasi disperato il tentativo dei giudici palermitani di fare luce sulla trattativa tra Stato e mafia nei primi anni Novanta. La stessa costruzione politica e mediatica della deposizione di Napolitano nelle stanze del Quirinale – deposizione osteggiata da tutti i megafoni della sacralità dello Stato ma inevitabile sul piano procedurale –, viene oggi stumentalizzata per depotenziare ogni tentativo di ricostruire sul piano giudiziario, le responsabilità politiche di chi scelse la strada degli “indicibili accordi” con le organizzazioni mafiose per far cessare gli attentati ed evitare scostamenti eccessivi nel passaggio tra la prima e la seconda repubblica.

E' uno snodo decisivo nella storia recente di questo paese ma, come in altre vicende niente affatto dissimili come furono le stragi di stato dal '69 all'84, nutriamo serissimi dubbi che queste possano trovare nella sentenza di un tribunale una verità da consegnare al paese.

Anche in questo caso, come per Piazza Fontana, Brescia, l'Italicus etc., dovremo agire, cercare, fare le connessioni per portare alla luce una verità storica e politica più che una verità giudiziaria. I giudici palermitani, tra cui c'è gente seria come Scarpinato o lo stesso De Matteo, saranno via via costretti, come avvenne per Salvini su Piazza Fontana, ad arrendersi di fronte alla mancanza di prove dimostrabili, a silenzi, a reticenze, a mezze verità, alla morte biologica di tanti testimoni e protagonisti. Non è un caso che alcuni processi si aprano o si riaprano dopo venti anni rendendo la memoria “labile”, gli episodi lontani e alcuni protagonisti passati a miglior vita, vuoi per l'età, vuoi per le malattie.

Quando il giudice Salvini consegna alla Commissione Parlamentare di inchiesta sulle stragi le sue conclusioni, depone sul piatto tutto quello che lui come magistrato poteva mostrare: alcuni riscontri, qualche prova, le connessioni accertate. Ma affidava alla Commissione – quindi alla politica – il compito di riempire i buchi e trarre le conclusioni che la verità giudiziaria non poteva accertare. Ma è proprio in quel momento che l'intervento della “politica” chiude il libro, annebbia contesti e responsabilità e nega al paese una verità storica e politica sulla stagione delle stragi che sarebbe stata quantomeno imbarazzante.

L'esito del processo sulla trattativa tra Stato e mafia, subirà probabilmente la stessa sorte consegnando al paese e alla storia una verità sufficientemente nebulosa e inafferrabile per poterne trarne delle conclusioni da cui far derivare responsabilità accertate e certificate da una sentenza.

Diventa allora necessario, quanto inevitabile, mettersi al lavoro sul piano della ricostruzione storica e politica per lasciare in dote alle nuove generazioni una conoscenza, una visione e una memoria di quanto accaduto, del perchè e delle sue conseguenze.

In tal senso va dato atto a Sabina Guzzanti di averci cominciato a provare con un film coraggioso che le creerà tanti detrattori e nemici. Ma anche in questo caso occorre superare alcuni schemi depistanti, uno tra questi è il fatto che Berlusconi – ad esempio – si riveli più burattino che burattinaio nei movimenti reali che portarono ad un cambio di classe dirigente nei primi anni Novanta. Per venti anni, una parte dei poteri forti – e il gruppo De Benedetti/La Repubblica è tra questi – hanno fatto di tutto per farci credere il contrario, fuorviando e depistando la mobilitazione sociale e politica del paese. Un depistaggio durato venti anni e che dopo ripetuti "tentativi ed errori" alla fine ha prodotto Renzi, ad esempio.

Indagine sulla trattativa
seconda parte

E' il 3 novembre del 1993 quando il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro pronuncia il suo “Non ci sto!”  . Scalfaro in quel discorso parla di “gioco al massacro” e denuncia come quelle accuse fossero una “rappresaglia” della classe politica travolta da Tangentopoli. E' una denuncia pubblica dello scontro frontale ormai in corso nel paese tra poteri forti, quelli che andavano declinando, quelli che venivano affermandosi e all'interno di entrambi.

Alcuni mesi prima, a maggio, erano esplose le bombe a Roma e Milano. Altre ne esploderanno a luglio di nuovo a Roma e a Firenze. Le massime autorità dello Stato – Ciampi premier, Spadolini presidente del Senato, Napolitano presidente della Camera – concordano nel ritenere che le bombe (e i morti) hanno un carattere ricattatorio e che la matrice sia mafiosa. Eppure tutti e tre, anzi quattro con Scalfaro, quantomeno “intuiscono” che non può essere solo la componente corleonese della mafia ad avere organizzato una operazione di queste dimensioni e sul piano nazionale. Nelle memorie di Campi e, in modo più sfumato, nella deposizione di Napolitano ai giudici di Palermo si accenna alla preoccupazione per un colpo di stato. Ma potevano essere solo delle azioni dei clan mafiosi corleonesi a far parlare di colpo di stato? Oppure, con maggiore probabilità, dentro e non parallelamente allo Stato era iniziato un processo di profonda scomposizione e ristrutturazione del suo apparato?

Una nota del Sismi del 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), segnalava che: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”.

Il 6 agosto ’93, ci fu un vertice del Cesis (il comitato di coordinamento dei servizi segreti militare e civile). Oltre ai capi dei servizi sono presenti il capo della polizia Parisi, il capo della Direzione Investigativa Antimafia (Dia) Gianni De Gennaro, il vicecomandante del Ros dei carabinieri Mori e il vicecapo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (Dap) Francesco Di Maggio. Le conclusioni sull'analisi degli attentati sono piuttosto generiche, molto generiche : si va dalla matrice mafiosa, al terrorismo serbo, o palestinese, al narcotraffico internazionale. Nebbia e depistaggio totale dunque. Formalmente nessuno evoca il pressing delle organizzazioni mafiose per la revoca del 41bis nelle carceri. Ma, segnala giustamente Marco Travaglio, perchè mai alla riunione c'era anche il vicecapo del Dap Di Maggio se la questione del 41bis non era tra le piste prese in esame? Non solo. A giugno, il superiore di Di Maggio, Capriotti aveva scritto al ministro della Giustizia Conso sollecitando un taglio delle misure di 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. Quattro giorno dopo il vertice al Cesis, è il 10 agosto, il capo della Dia, Gianni De Gennaro firma un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. La parola “trattativa” comincia però a comparire negli atti ufficiali. E' un rapporto del Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato (guidato allora da Antonio Manganelli, deceduto non molto tempo fa) e destinato alla Commissione Antimafia presieduta da Violante a scrivere: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Il 5 novembre, due giorni dopo il “non ci sto” di Scalfaro, il ministro della Giustizia Conso (con una decisione che afferma di aver preso tutta da solo) non rinnova le misure di 41bis a 334 detenuti di mafia nelle carceri italiane.

Sul piano politico, a novembre del 1993 ci furono le prime elezioni dirette per i sindaci a Roma, Napoli e Milano. Al ballottaggio, il 3 dicembre, per la prima volta, vanno due fascisti: Fini a Roma, la Mussolini a Napoli. Berlusconi annuncia che voterebbe per i due candidati sindaci fascisti per “fermare la sinistra”. I candidati sindaci del centro-sinistra vincono i ballottaggi evocando la possibilità che il Pds possa essere il partito in grado di "capitalizzare" politicamente la crisi emersa con Tangentopoli. L'operazione Forza Italia comincia a palesarsi per bloccare tale scenario.

Se a Roma una buona parte della vecchia Dc si schiera con Fini, a Napoli, secondo il pentito di camorra Domenico Bidognetti (fratello del boss Francesco), i clan giocano trasversali. Da una parte c’erano i Casalesi che appoggiavano Alessandra Mussolini, dall’altra i Moccia, che invece erano per Antonio Bassolino, il quale uscì vincente al turno di ballottaggio.

I giochi politici e le vecchie alleanze vengono dunque completamente rimescolate. Il biennio 1992-1993, con la crisi politica conosciuta come Tangentopoli, riscrive lo scenario delle classi dominanti e ridisegna la geografia politica del paese. I blocchi di potere consolidatisi dal dopoguerra agli anni Ottanta si dividono e si ricompongono sulla base della nuova situazione internazionale (fine della guerra fredda con l'Urss, varo del Trattato di Maastricht e accelerazione nel processo che porta all'Unione Europea) e in un contesto in cui in Italia esplode la prima crisi del debito pubblico (1992) che spiana la strada alle “terapie d'urto” (la stangata del governo Amato) e ai governi “tecnici” (Ciampi). Il Pds, il principale partito sorto dallo scioglimento del Pci, dovrebbe approfittare della situazione ed invece dà la netta idea di “camminare sulle uova”, anzi di adeguarsi completamente al nuovo contesto. C'entrano qualcosa in questo atteggiamento gli "accordi indicibili"?

L'esigenza della politica
terza parte

Nel dicembre del 1991, i capi delle principali famiglie mafiose siciliane si incontrarono in una località della provincia di Enna. Erano preoccupati. A gennaio era prevista la sentenza della Corte di Cassazione sul maxi processo che aveva visto, per la prima volta, pesanti condanne contro decine di esponenti mafiosi siciliani. Quella che si incontra nelle campagne di Enna, non è solo il gotha della mafia, ma è gente abituata a fiutare l’aria, a capire quando c’è qualcosa che non quadra. I contatti nella politica e nella magistratura questa volta non danno le garanzie del passato sull’aggiustamento del processo. Il rischio è che decine di mafiosi stavolta in carcere debbano rimanerci per molti anni.

La sentenza della Corte di Cassazione arriva il 31 gennaio 1992 e conferma le condanne contro gli imputati mafiosi del maxiprocesso. Il procedimento questa volta non è finito tra le mani del dott. Corrado Carnevale, conosciuto come “l’amazzasentenze”. Il quale, solo per parlare del 1991, a marzo, alla Corte di Cassazione aveva annullato il provvedimento di custodia cautelare relativamente all' accusa di associazione camorristica, a carico di Francesco Schiavone, il boss della camorra conosciuto come Sandokan e il 29 ottobre aveva annullato la custodia cautelare ordinata dalla corte d' assise per alcuni capi dei clan Moccia e Magliulo, della camorra di Afragola.

Subito dopo la sentenza del 31 gennaio, in compenso, il 17 febbraio 1992 la prima sezione penale della Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, annulla la custodia cautelare per Bruno e Claudio Carbonaro, pluripregiudicati, accusati di essere stati tra i killer della strage di Gela che provocò otto morti: non valgono le dichiarazioni di un pentito che li accusava di aver fatto parte del commando assassino. Il 27 febbraio 1992: la prima sezione penale della Cassazione, presieduta dal giudice Corrado Carnevale, annullò la sentenza con cui la Corte d' assise d' appello di Torino aveva inflitto tredici ergastoli e ottanta altre condanne agli uomini di alcuni clan della mafia catanese trapiantata nel torinese. Niente associazione di stampo mafioso.  Il 19 marzo 1992: la Cassazione annulla quattro ergastoli nel grande processo contro le cosche mafiose di Reggio Calabria.  Il 24 giugno 1992: nel maxiprocesso-ter. La Cassazione annulla quattro ergastoli confermando l' assoluzione per i mafiosi Michele Greco. Paolo Alfano, Salvatore Montalto, Salvatore Rotolo e Vincenzo Sinagra, che dovranno essere riprocessati. I1 settembre 1992: la Cassazione annulla l' ordinanza di rinvio a giudizio del maxiprocesso, la sentenza di condanna a 18 anni di primo grado e la condanna d'appello ad otto anni a carico del boss Alfredo Bono.

Il dott. Carnevale nel 1998 venne rinviato a giudizio per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Secondo alcuni pentiti di mafia Carnevale era il "referente" di Cosa nostra in Cassazione, dove molti processi a boss e gregari di Cosa nostra sarebbero stati "aggiustati". In primo grado venne assolto. La successiva condanna in appello fu poi annullata in Cassazione senza rinvio. Assolto perchè le deposizioni dei suoi colleghi che denunciavano le sue pressioni per aggiustare i processi riferivano fatti accaduti in Camera di Consiglio, quindi coperte da segreto, trascurando che alcuni fatti erano accaduti all'esterno del Tribunale. Grazie all’assoluzione il dott. Carnevale è rimasto in servizio fino al 2013.

Fra il 1991 e il 1992, il rapporto tra i vecchi garanti politici e i capi di Cosa Nostra era completamente saltato e doveva essere ricostituito sulla base dei nuovi equilibri – sia internazionali che interni – che si andavano ridefinendo dopo l’affondamento della precedente classe dirigente con Tangentopoli. Sono anni significativi. Cosa Nostra si contrappone frontalmente alla politica perché si ritiene “tradita” dalla conferma delle condanne al maxi processo nel gennaio del 1992. Ed è in questo contesto che vengono decise azioni come l’uccisione del dirigente siciliano della DC Salvo Lima, le stragi di Capaci (Falcone) e via D’Amelio (Borsellino).

La fine della DC come interlocutore e garante politico di Cosa Nostra, costringe i gruppi mafiosi a guardarsi intorno e, in qualche modo, a orientarsi nel crearsi la propria rappresentanza politica, a questo punto anche autonomamente dai vecchi partner politici. Il 4 dicembre 1992, dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino, il pentito Leonardo Messina, interrogato dalla commissione Antimafia, ebbe a dire: “Cosa Nostra sta rinnovando il sogno di diventare indipendente, di diventare padrona di un’ala dell’Italia, uno Stato loro, nostro... In tutto questo Cosa Nostra non è sola è aiutata dalla massoneria... Ci sono forze alle quali si stanno rivolgendo”. “Quali?”, chiese il presidente della commissione Violante? La risposta di Messina fu la seguente: “Sono formazioni nuove... e non vengono dalla Sicilia”.

In quel periodo, in tutto il Meridione, fra il 1991 e il 1993, in Italia si comincia a parlare e respirare un clima secessionista. Se al Nord cresce la Lega, al Sud era stato tutto un fiorire di leghe regionalistiche: la prima fu Sicilia Libera, poi ci furono Campania Libera, Lega Lucana, Calabria Libera, Abruzzo libero, eccetera. Il denominatore comune, scaturito dalle indagini, è  l’alta concentrazione in questi movimenti di esponenti mafiosi e della criminalità organizzata del Sud, di massoni e di esponenti neofascisti. Ma verso la metà del 1993, in tutto il Sud non se ne fece più  niente, l'opzione secessionista si spegne. Si opta per guardare – politicamente – a “formazioni nuove e che non vengono dalla Sicilia”. Se la vecchia struttura politica, economica e istituzionale si è indebolita, qualcuno offre la possibilità di inserirvisi direttamente, di "fare sistema".

Il 29 giugno 1993 viene costituita "Forza Italia! Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Il 10 novembre 1993 nascerà l’Associazione nazionale dei club di Forza Italia. Il 15 dicembre 1993 viene inaugurata la sede centrale di Forza Italia a Roma, in via dell’Umiltà. Il 18 gennaio 1994 nasce il movimento politico Forza Italia e a marzo - in alleanza con i leghisti al nord e con i fascisti al centro-sud - stravincerà le prime elezioni a cui si presenta. In Sicilia e nel sud poi sarà un plebiscito.

In Sicilia sono singolari le coincidenze della data con cui nasce il partito di Forza Italia e la data in cui si organizzano i primi clubs a Palermo e dove si tengono le prime riunioni del nascente partito. Una di queste  viene tenuta, non a caso, all’Hotel San Paolo di Palermo. Ll’Hotel San Paolo, è stato costruito dai costruttori Ienna per conto della famiglia mafiosa dei Graviano, una di quelle che al vertice nelle campagne di Enna di fine 1991 c'era.

Il progetto di Forza Italia, infatti, è precedente alla data ufficiale di fondazione (1993). Un ex alto dirigente di Publitalia, Ezio Carlo Cartotto così racconta ai magistrati:  "Nel maggio-giugno 1992 sono stato contattato da Marcello Dell'Utri perché lo stesso voleva coinvolgermi in un progetto da lui caldeggiato. In particolare Dell'Utri sosteneva la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso "entrasse in politica" per evitare che una affermazione delle sinistre potesse portare prima ad un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi”. Siamo dunque nella primavera del 1992. Pochi mesi dopo la sentenza tombale della Corte di Cassazione contro i mafiosi,  è il periodo dell’attentato mortale a Falcone, siamo in piena Tangentopoli, siamo a poche settimane dall’esplosione della prima crisi del debito pubblico italiano e degli attacchi speculativi alla lira.

La prima fase, quella delle bombe
quarta parte

Come abbiamo visto nelle puntate precedenti, una parte delle famiglie di Cosa Nostra decide di rompere gli indugi. Nel 1992 suoi interlocutori politici di sempre si stanno disgregando, le garanzie dentro la magistratura si affievoliscono e la struttura del businness viene “sollecitata” dai nuovi processi che avvengono nell’economia del paese, dell’Europa e del mondo. Una parte delle famiglie mafiose – i corleonesi e qualche altro – pensano che occorra intervenire per far sì che tutto resti come prima, altre intuiscono che i suggerimenti che gli arrivano dai colletti bianchi e dai nuovi interlocutori politici chiedono un cambio di passo e di metodo.

In questa prima fase del 1992 prevalgono i vecchi metodi e i vecchi interessi delle organizzazioni mafiosi e dei loro interlocutori. I rapporti costruiti negli anni d’oro consentono di mettere in campo una operazione in grande stile: l’attentato al giudice Falcone del 23 maggio 1992. Ci avevano provato anche tre anni prima alla villa dell’Addaura, ma qualcosa era andato storto. Due agenti di polizia vicini ai servizi - Nino D’Agostino ed Emanuele Piazza - che sapevano troppo su quell’attentato fallito del 20 giugno 1989 alla villa di Falcone, morirono in tempi brevissimi. Il primo ucciso nella sua casa il 5 agosto del 1989, il secondo è scomparso il 30 maggio del 1990 e non è più stato trovato. Prima di Falcone vengono mandati altri due segnali pesanti alle autorità politiche e statuali: l’omicidio del dirigente democristiano Salvo Lima il 12 marzo 1992 e l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli il 4 aprile 1992.

Per uccidere clamorosamente Falcone si mette in moto una operazione complessa dal punto di vista militare che produrrà l’attentato e la strage di Capaci nel maggio del 1992. “Non penserà mica che fu opera soltanto di quattro mafiosi?” dice un ex membro di Gladio a Stefania Limiti, autrice del libro “Doppio livello”. Le informazioni di cui dispongono gli attentatori, la logistica e il materiale esplosivo effettivamente sembrano andare piuttosto al di là dei killer di mafia. Ad esempio, secondo il giudice Tescaroli, l'articiere dell'attentato di Capaci è un esperro di esplosivi: Piero Rampulla. Si tratta di un fascista che ha militato in Ordine Nuovo. Di lui come possibile artificiere di Cosa Nostra parla anche il pentito/collaboratore dei carabinieri Luigi Ilardo (la fonte Oriente del capitano dei carabinieri Riccio), ucciso senza alcuna protezione nel 1996. Rampulla non è un fascista qualsiasi, ha rapporto con i servizi e con gli emissari mafiosi "saliti al Nord".

E’ dopo questo attentato che si mette in moto il processo che porterà alla prima parte della trattativa Stato-mafia. Dalle risultanze processuali, emerge che i primi contatti tra il capitano dei carabinieri Di Donno e Vito Ciancimino vengano avviati ai primi di giugno 1992, due settimane dopo l’attentato a Falcone. Il generale dei Carabinieri, Mori, è informato di questo ed è informato anche dei contatti avviati da un altro ufficiale dei carabinieri, Roberto Tempesta, con il boss di Altofonte Antonino Gioè (trovato morto impiccato nel carcere di Rebbibia il 29 luglio 1993). Ma mentre qualcuno tratta, altri spingono per una linea dura contro la mafia: il Consiglio dei Ministri, l’8 giugno 1992, approva il decreto Scotti-Martelli che introduce il 41bis nelle carceri. Il giudice Borsellino sostiene questa posizione e si configura come un ostacolo alla trattativa. Sembra che Riina disse a Brusca che la trattativa si era improvvisamente interrotta e c'era "un muro da superare”. Questo muro, questo “ostacolo” venne rimosso con l’attentato mortale del 19 luglio 1992 in via D’Amelio e l’uccisione di Borsellino.

La trattativa, o meglio la prima fase della trattativa, adesso può cominciare e viene affidata sul campo ad un gruppo di ufficiali del Ros dei carabinieri con forti legami con e nei servizi segreti. La politica ovviamente “finge” di non sapere, ma in realtà anela di sapere come stanno andando le cose e se la prima offensiva delle stragi contro uomini dello Stato si fermerà o meno.

Il processo in corso a Palermo, sta affrontando sostanzialmente questa prima fase della trattativa. L’indagine della procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia è durata quattro anni e ha preso il via dalle dichiarazioni e dalle produzioni documentali di Massimo Ciancimino, figlio del più noto Vito.

Gli indagati dalla procura di Palermo sono in tutto dodici. Ci sono i padrini di Cosa Nostra Totò Riina, Giovanni Brusca, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà che avrebbero condotto la trattativa per conto di Cosa Nostra.  Poi ci sono ben tre alti ufficiali dei carabinieri come Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, personaggi di vertice del ROS dei Carabinieri, protagonisti secondo la ricostruzione dei pm per aver agevolato “un canale di comunicazione finalizzato a sollecitare eventuali richieste di Cosa Nostra”, così come il “protrarsi della latitanza di Provenzano, principale referente mafioso della trattativa”.  Nel processo che ha coinvolto per questo specifico caso, il gen. Mario Mori è stato assolto in primo grado. Ma nuove prove contro il generale Mario Mori sono state presentate dal pg di Palermo, Roberto Scarpinato all'apertura del processo d'appello per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. Scarpinato ha chiesto la riapertura dell'istruzione dibattimentale e l'acquisizione di numerosi documenti, tra cui atti «classificati» dei servizi segreti, sulla carriera di Mori e su vari episodi dai quali emergerebbero pratiche investigative «opache». Tra i nuovi episodi contestati dall'accusa anche una condotta depistante che nel 1993 impedì la cattura a Terme Vigliatore, nel Messinese, del boss catanese Nitto Santapaola. Il criterio ispiratore dell'acquisizione delle «nuove prove», fa riferimento al fatto che, secondo Scarpinato, Mori avrebbe operato per «finalità occulte», per «disattendere doveri istituzionali» come ufficiale di polizia giudiziaria e venendo meno «all'obbligo di lealtà» nei confronti dell'autorità giudiziaria. Nel processo di primo grado il generale Mori e il suo braccio destro Mauro Obinu sono stati assolti «perché il fatto non costituisce reato».

Nel processo palermitano per la prima fase della trattativa Stato-mafia, come impuitati ci sono poi i personaggi della politica, ma è poca roba.  C’è Calogero Mannino, all’epoca ministro e secondo l’accusa apripista dei primi contatti con i boss e per aver esercitato, dopo le stragi del ’93 «indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all'articolo 41 bis dell'ordinamento penitenziario». C’è poi l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza,  e c’è poi il burattinaio di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri. Dei tre forze è il piùimportante.

Infine c’è Massimo Ciancimino accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, per il ruolo di ‘postino’ tra il padre e i capimafia, e di calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, perché avrebbe prodotto un biglietto contraffatto attribuito al padre Vito, secondo cui il misterioso signor Carlo/Franco che sarebbe stato il contatto dei servizi segreti per la trattativa con Cosa Nostra avrebbe risposto al nome dello stesso De Gennaro.

Dunque, sulla base di quello che fino ad oggi c’è a disposizione sul piano giudiziario, si potrà, nella migliore delle ipotesi, fare luce sulla prima fase della trattativa Stato-mafia. Ma è la seconda fase della trattativa quella che ha portato ai risultati consolidati che hanno caratterizzato la vita politica, economica ed istituzionale del nostro paese fino ad oggi. E’ quello che abbiamo ancora sotto gli occhi attraverso i sistemi criminali. Per farci capire useremo le parole assai chiare del procuratore Scarpinato in una intervista del febbraio 2009 ad Antimafia Duemila: “I sistemi criminali sono una sorta di tavolo dove siedono figure diverse, non tutte necessariamente dotate di specifica professionalità criminale: il politico, l’alto dirigente pubblico, l’imprenditore, il finanziere, il faccendiere, il portavoce delle mafie. Ciascuno di questi soggetti è referente di reti di relazioni esterne al network ma messe a disposizione dello stesso. Il sistema è modulare nel senso che, a secondo della natura degli affari e delle necessità operative, integra nuovi soggetti o ne accantona altri. I diversi tavoli di lavoro pianificano la divisione dei compiti per conseguire il risultato del controllo di ampi settori delle istituzioni, dei centri di spesa, e della spartizione delle opere e dei fondi  pubblici”.  E’ una fotografia che ci scorre sotto gli occhi piuttosto frequentemente.

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