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19 agosto 2014

Socialismo?
di Michael Albert
traduzione di Andrea di Carlo e Chiara de Santis

Per alcuni, con la parola “socialismo” si intende un’economia che include proprietà di stato o collettiva, una pianificazione dello stanziamento di risorse fortemente centralizzata oppure decisa in base a logiche di mercato e una suddivisione strettamente gerarchica delle mansioni nei luoghi di lavoro all’interno delle aziende.

Per altri, la parola “socialismo” indica solo il fatto che lavoratori e consumatori siano adeguatamente responsabilizzati e ricevano in cambio redditi giusti ed equi, senza entrare nel merito di come ciò sia effettivamente realizzato.

Alcuni, infine, usano il termine “socialismo” per riferirsi ad un modello ideale di società, intendendo non solo l’uno o l’altro dei due tipi di economia sopra descritti, ma anche un nuovo tipo di politica, di rapporti tra gli individui, di rapporti culturali, e di altro tipo, anche se raramente o mai seriamente descritti.

Riferiamoci a queste tre opzioni chiamandole Socialismo 1, 2 e 3.

Socialismo1

Il Socialismo così com’è  inteso nell’opzione Socialismo1 è esistito (o esiste) nella vecchia Unione Sovietica, in tutta la vecchia Europa dell’est, nella vecchia Cina, ecc. Esso ha funzionato/funziona piuttosto bene per gli standard economici tipici, anche se con una propria serie di pro e contro. Sia il reddito che la ricchezza sono in genere più equamente distribuiti nel Socialismo1 che nelle economie capitalistiche comparabili e vi è anche una maggiore attenzione alle condizioni sociali di coloro che vivono in situazioni di maggiore difficoltà.

Volendo effettuare un confronto per trarne conclusioni comparative tra il Socialismo 1 e il Capitalismo, è necessario prendere in considerazione paesi con dimensioni e risorse comparabili che, trovandosi nel 1917 in uno stato di sviluppo paragonabile, abbiano successivamente adottato nello stesso periodo l’uno il modello socialista e l’altro quello capitalista.

Non sarebbe ad esempio corretto paragonare l’Unione Sovietica del 1985 con gli Stati Uniti del 1985, o la Cuba del 2000 con gli Stati Uniti del 2000. È invece più esatto, paragonare la vecchia Unione Sovietica ad un paese capitalista di analoghe dimensioni e dotato di risorse comparabili. In questo senso un termine di paragone adeguato per l’Unione Sovietica potrebbe essere il Brasile, mentre un confronto corretto per Cuba potrebbe essere fatto col Guatemala o con un qualsiasi altro paese dell’America Latina di dimensioni approssimativamente paragonabili, con risorse e condizioni simili a Cuba 40 anni fa, considerando anche l’embargo statunitense contro Cuba.

Da questi confronti calibrati di società con punti di partenza simili, si evince che rispetto al modello capitalista, il modello Socialista1 è tutt’altro che mal ridotto. Al contrario, a differenza del capitalismo, il Socialismo1 centra se non altro gli elementi di base degli obiettivi economici di una società ideale, ferma restando la possibilità di realizzare meglio molti di questi, sotto vari punti di vista.

Il vero motivo per cui il Socialismo1, detto anche Socialismo del Novecento, dovrebbe essere escluso dall’agenda umana è lo stesso oggi come lo era venti, trenta, cinquanta, o 75 anni fa. Non è per la concorrenza militaristica della Guerra Fredda o per la dittatura politica interna, la corruzione, e la scarnificazione che hanno sbriciolato l’economia sovietica. Non è neanche perché le élite sovietiche hanno pensato di prosperare maggiormente in un sistema trasformato in senso capitalistico, a prescindere dalle conseguenze dannose che questo avrebbe avuto per gli altri cittadini. No, il motivo per cui si dovrebbe rimuovere il Socialismo1 dall’agenda dell’umanità, è che non è – e non è mai stato – compatibile con la piena realizzazione e il pieno sviluppo dei produttori e consumatori alla base dell’economia. Anche al suo massimo splendore, il Socialismo1 è sempre stato un sistema autoritario, caratterizzato dal dominio di una classe economica di pochi sui molti e con una propensione – che per evitare disastri deve essere costantemente combattuta – a un autoritarismo parallelo e peggiore nel suo sistema di governo. In breve, nonostante presenti molti vantaggi, il Socialismo1 anche al suo massimo splendore non può perseguire in modo ottimale i valori e gli obiettivi desiderabili.

Il Socialismo 1, inteso come sistema economico, è basato sulla proprietà statale dei mezzi di produzione ed ha un forte centralismo nella pianificazione dei mercati, degli stanziamenti di risorse, e delle suddivisioni delle mansioni aziendali all’interno delle unità produttive. Questa combinazione di istituzioni genera un sottoinsieme di attori della scena economica (tra cui pianificatori economici, manager e soggetti altamente qualificati e delegati in generale, che nell’insieme io definirei classe coordinatrice) che si trovano al di sopra di tutti gli altri soggetti economici, relegati a svolgere mansioni “meccaniche” e, sotto diversi aspetti, deresponsabilizzanti).

Pertanto se nel caso di un sistema capitalistico si ha una classe dirigente privilegiata che possiede i mezzi di produzione, nel Socialismo 1 la classe dirigente diventa quella che monopolizza le condizioni di lavoro, garantendosi il controllo complessivo di come tutto il lavoro viene svolto, di quale sia la produzione e di chi ne gode i benefici. Il Socialismo 1 è perciò un modello economico che per le sue istituzioni e per le loro inesorabili implicazioni produce necessariamente quella che io chiamo la “classe coordinatrice” alla dirigenza, anche quando questa non è l’intenzione di quelli che hanno combattuto per un cambiamento. La classe lavoratrice è subordinata al suo nuovo capo, il quale non sarà come il vecchio, ma certamente continua a essere un capo.

Sbarazzarsi della proprietà privata dei mezzi di produzione come fa il Socialismo1, a suo merito, elimina le fonti più eclatanti delle differenze ingiustificate di ricchezza e di potere. Ma sebbene elimini la proprietà privata e la ricerca indiscriminata del profitto, il Socialismo1 continua a conservare purtroppo i mercati ed amplifica la pianificazione centralizzata e questo è assolutamente negativo, poiché mantiene il vecchio stile gerarchico di suddivisione del lavoro che porta circa il 20% della popolazione al controllo delle decisioni economiche. Queste scelte organizzative di assegnazione delle mansioni di lavoro cancellano ogni speranza di raggiungere livelli ottimali di solidarietà, di equità, di diversità e di autodeterminazione, anche quando molti desiderano raggiungere tali fini. Queste particolari scelte istituzionali invece agevolano e arricchiscono pochi sopra molti per quanto riguarda il reddito, il prestigio e il potere, e tendono anche a creare un autoritarismo che tende a permeare tutti gli ambiti della vita sociale. Quindi, per questi motivi la nostra risposta dovrebbe essere che sì, il Socialismo1 dovrebbe essere rimosso dall’agenda del genere umano.

“Socialismo 2”

Il socialismo2, ricordate, non propone istituzioni specifiche per un progetto di economia, ma cerca invece di far sì che produttori e consumatori insieme autogestiscano i proventi dell’economia in modo da godere entrambi di un’equa remunerazione, non assoggettata alla proprietà privata, al potere, né a qualsiasi altra discriminante sociale o personale, come potrebbero essere il razzismo, il sessismo, o differenze innate nella capacità produttiva.

Se ci si pensa, si vede che il Socialismo2 è potenzialmente raggiungibile, e dire che dovrebbe essere fuori dagli obiettivi del genere umano sarebbe dire che l’umanità dovrebbe smettere di progredire e accontentarsi di un sistema economico privo di queste virtù. Questo avrebbe senso solo se realmente desiderassimo avere un numero limitato di persone – diciamo l’1% – che possiede i mezzi di produzione di massa e matura profitti giganteschi, mentre circa un altro 4% è proprietario della maggior parte delle rimanenti attività produttive, così da diventare anch’esso immensamente ricco e potente e, infine, un altro 15% o 20% che detiene le piccole attività produttive residue, monopolizzando sostanzialmente quelle posizioni economiche che nella società determinano in gran parte i risultati economici e le circostanze quotidiane, con il risultato di godere del prestigio e del potere associati a tali circostanze e, naturalmente, di redditi esageratamente sproporzionati (rispetto al restante 75-80%).

È difficile per me immaginare una persona in pieno possesso delle proprie facoltà mentali e non depravata moralmente, che affermi che minore solidarietà sia preferibile a maggiore solidarietà, che minore eguaglianza sia preferibile a una maggiore uguaglianza, che minore giustizia e democrazia siano preferibili a maggiore giustizia e democrazia e che un minor controllo da parte nostra delle nostre vite sia preferibile ad un maggiore controllo da parte nostra delle nostre vite. Questo è quello che significa affermare che il Socialismo 2 deve essere escluso dai nostri obiettivi nonostante sia potenzialmente ottenibile. In questo senso, perciò, non dovremmo rimuoverlo volentieri dalla lista delle nostre priorità.

C’è, però, un’altra logica che molte persone usano per sostenere che il Socialismo2 dovrebbe finire “nel secchio della spazzatura” della storia. Essi sostengono che il Socialismo2 è semplicemente impossibile e che il tentativo di raggiungerlo è un’illusoria chimera che distoglie l’attenzione dal perseguimento di obiettivi utili. Qualcuno potrebbe anche essere certo che il Socialismo2 sarebbe meraviglioso, essendo perciò una persona moralmente sana e ragionevole, ma comunque sentire che purtroppo non vi è nessun modo per ottenerlo. Ogni sforzo per migliorare a livello economico la solidarietà, l’equità, la giustizia, l’autogestione, la diversità, ecc, sarebbe (a) inferiore alle nostre intenzioni, e (b) causerebbe perdita di produttività e/o di altri esiti desiderati (come la privacy, per dire) poiché i guadagni che si raggiungerebbero nell’uguaglianza o nell’autogestione o in qualsiasi altra cosa sarebbero superati dalle enormi perdite in produttività, in privacy, ecc.

Questa è la cosiddetta “logica TINA” (There Is No Alternative)-famosa affermazione di Margaret Thatcher secondo la quale appunto “non c’è alternativa” – in verità meglio definita TINBA (There Is No Better Alternative), per cui “non c’è alternativa migliore.”

La prima obiezione a TINA o TINBA è la seguente: perché mai qualcuno sano di mente dovrebbe pronunciare una simile frase allegramente? Immaginate ad un certo punto della storia qualcuno proclamare che “non c’è (migliore) alternativa” riferendosi alla schiavitù, al lavoro minorile, all’analfabetismo diffuso, alla durata media della vita negli anni 20, 30, 40 or 50, o riguardo la dittatura e così via. Qualsiasi persona sana di mente e sana moralmente che affermasse che non c’è migliore alternativa a proposito di queste cose, lo farebbe presumibilmente solo piangendo, e anche solo se le sue speranze fossero state deluse da una serie di argomenti molto ma molto forti con relative prove associate. Per quale motivo qualcuno dovrebbe erigere un “divieto d’accesso” davanti a domini nei quali ogni persona dotata di morale naturalmente vorrebbe entrare?

Sarebbe patologico o grottescamente egoista da parte dei pochi che beneficiano della schiavitù, del lavoro minorile, dell’analfabetismo dilagante, della breve durata della vita delle persone, della dittatura o, nel caso moderno, delle grottesche disuguaglianze di ricchezza economica e di potere, proclamare che niente di meglio è possibile ed essere felici nel dichiararlo.

La seconda obiezione a quelli che proclamano che “non c’è alternativa” è che non c’è nulla di convincente a sostegno della loro posizione, non vi è alcun argomento di sorta per conto di TINA (o TINBA) se non le dichiarazioni di settori forti della popolazione che avidamente beneficiano di tali convinzioni. Non ci sono evidenze operative né argomenti analitici che dimostrino che sia impossibile avere istituzioni economiche che diano la possibilità ai lavoratori e ai consumatori di avere un impatto sulle decisioni in maniera proporzionale a quanto queste incidono su di loro.

Non ci sono neppure evidenze operative né argomenti analitici che dimostrino che istituzioni economiche che responsabilizzino i lavoratori spingendoli ad influenzare le decisioni in maniera proporzionale a quanto queste impattano sulle loro esistenze, o che ricompensino le persone in proporzione al loro impegno e ai loro sacrifici piuttosto che in base alle loro proprietà, al potere che esercitano, o alla loro produttività, o che permettano di suddividere le responsabilità economiche in maniera tale da riequilibrare il peso che l’emancipazione e la qualità di vita hanno nelle nostre vite economiche, siano o impossibili da realizzare o piene di problemi così annosi da controbilanciarne i pregi – o comunque di problemi in generale. Piuttosto è vero il contrario: studi preliminari su tali istituzioni hanno dimostrato che queste possono essere molto promettenti, sebbene i sostenitori di TINA (o TINBA) abbiano prevedibilmente ignorato queste analisi.

Come minimo, quindi, finché qualcuno non fornisca una schiacciante e inattaccabile dimostrazione che (a) equità, giustizia, autodeterminazione, rispetto della diversità, e altri auspicabili valori attualmente insoddisfatti dalle istituzioni economiche vigenti non possano essere ottenuti attraverso istituzioni economiche diverse, o che (b) nel caso questi valori venissero raggiunti porterebbero per contro una serie di mali orribili che ne annullerebbero i benefici, il Socialismo2 dovrebbe assolutamente rientrare tra gli obiettivi dell’umanità. Vorrei inoltre ricordare che un particolare modello di economia (chiamato Economia Partecipativa) che potrebbe realizzare tutti i fini del Socialismo 2, ed altri, già esiste, senza che esso manifesti nessuna delle tanto temute conseguenze negative. Tale modello di economia può perciò diventare un punto di partenza plausibile per la realizzazione delle nostre aspirazioni.

Solo una breve discussione su questa reale alternativa, poiché uno dei modi più ovvi e convincenti per sostenere che qualche obiettivo dovrebbe essere nella nostra agenda- in questo caso il Socialismo2 – è quello di indicare come potrebbe risultare, perché funzionerebbe bene, e quali potrebbero essere le sue diverse proprietà.

L’Economia Partecipativa si basa su alcuni principi di base: assemblee democratiche e autogestite di lavoratori e consumatori in luogo delle autocratiche gerarchie aziendali; remunerazione proporzionale all’impegno e agli sforzi in sostituzione alla retribuzione in base alla proprietà di mezzi di produzione, al potere, o alla produzione; lavoro multiplo e bilanciato che responsabilizzi ugualmente tutti i lavoratori nelle loro attività economiche invece delle suddivisioni competitive del lavoro e del monopolio dell’ informazione, della conoscenza e dell’ accesso alle leve decisionali per un’élite ristretta; pianificazione partecipata al posto di una pianificazione centralizzata o dettata dalle leggi di mercato.

Questo breve saggio non offre spazio sufficiente per spiegare appieno queste strutture e la loro logica e le implicazioni, ma i lettori interessati possono facilmente trovare interviste, saggi, e anche libri disponibili on-line su questi temi. L’Economia Partecipativa è una risposta positiva alla logica TINA (o TINBA che dir si voglia). Si tratta di una specifica alternativa esposta in linguaggio accessibile e in modo sufficientemente dettagliato da consentire una convincente valutazione dei valori e dei risultati che il modello favorirebbe.

Socialismo inteso come più grande dell’Economia – ovvero la semantica dell’etichetta “Socialismo”

E che dire, infine, riguardo alle persone che usano la parola socialismo per riferirsi a un’intera e presumibilmente migliore società? Questo tipo di socialismo dovrebbe rientrare tra gli obiettivi dell’umanità come Socialismo 3?

Beh, questo dipende dal modello economico che costituirebbe il nucleo della società proposta. Se prendessimo le mosse dal Socialismo1 per l’economia, apportando per gli altri ambiti ulteriori modifiche autoritarie con esso compatibili (quali, ad esempio, l’adozione di una dittatura politica, l’impostazione più o meno attenuata in senso patriarcale della società, e l’omologazione culturale) allora il Socialismo3 sarebbe ovviamente non auspicabile. D’altra parte, se potessimo avere per l’economia le caratteristiche del Socialismo2 e in aggiunta in altri aspetti della vita altre caratteristiche con esso compatibili, allora il socialismo3 sarebbe senz’altro una buona idea. Questa è la conseguenza immediata di tutti gli argomenti di cui sopra.

Il vero dilemma per quanto riguarda il socialismo3, è il seguente: dovremmo (a) usare questo termine per riferirci a qualcosa che va oltre l’economia, o dovremmo (b) usarlo in senso lato?

Tendo a pensare che la risposta alla domanda (a) dovrebbe essere no. In primo luogo, la parola socialismo non significa nulla di specifico al di fuori della sfera economica,  per cui usarla al di fuori dell’economia non significherebbe nulla di convincente o, più probabilmente, proprio un bel nulla. Non vi è alcuna visione pratica, almeno credo, di una società “socialista” che sia stata illustrata seriamente in ogni dettaglio, come ad esempio dal punto di vista dei rapporti di parentela, delle istituzioni politiche o dell’appartenenza culturale. Inoltre allo stato attuale l’esperienza storica nei paesi che si sono definiti socialisti (che erano in realtà del tipo Socialista1 o, nella terminologia che preferisco, che erano Coordinatoristi per quanto riguardava le loro economie) non merita di essere lodata, per dirla in maniera gentile. Chi festeggerebbe come traguardo un patriarcato leggermente attenuato (o addirittura peggiorato), una democrazia ridotta fino al grottesco Stalinismo o addirittura cancellata, modificando appena i problemi culturali che affliggono le comunità, siano essi religiosi, etnici o razziali, o peggio ancora la loro spaventosa omologazione? Poco sorprendentemente data l’inadeguatezza del socialismo1 (o coordinatorismo) c’è in questo mix molto poco a cui si possa aspirare come traguardo finale.

Abbiamo infatti bisogno di una visione femminista e chi aspira al socialismo2 dovrebbe senza dubbio aspirare ad una visione femminista positiva. Lo stesso vale per il bisogno di una visione politica e culturale: per chi aspira al socialismo 2 sostenere questi obiettivi deve essere una priorità. E sì, questo significa che il Socialismo 2 (a mio avviso, Economia Partecipativa) deve essere reso compatibile con i propedeutici e non ancora completamente articolati concetti di parentela, di politica, e di rapporti culturali – così come deve essere presa in considerazione anche la relazione inversa.

Ma è un errore, credo, usare un’etichetta concettuale che si riferisce principalmente a una sfera della vita sociale, per indicare tutte le nostre aspirazioni di libertà in tutte le sfere della vita sociale. Così, la mia risposta ad (a) è no, non dovremmo usare il termine socialismo (né l’etichetta Economia Partecipativa) per fare riferimento a settori al di là dell’economia, se non per il fatto di osservare che questi altri settori dovranno essere compatibili con una economia desiderabile e viceversa.

Ma per quanto riguarda (b) dovremmo usare il termine socialismo in senso lato? Abbiamo detto che il Socialismo2 dovrebbe essere ancora all’ordine del giorno, e ho suggerito che penso che il modello economico dell’Economia Partecipativa sia effettivamente un’implementazione degli obiettivi del Socialismo2. Allora perché non chiamarla Economia Socialista2, o forse Socialismo Partecipativo?

Si potrebbe obiettare che la parola “socialismo” non ha un gran valore comunicativo. Per molte persone, a causa della storia del secolo scorso, il socialismo significa Socialismo1. Per me e te, spero, significa Socialismo2, dove il Socialismo1 è invece un sistema economico che noi rifiutiamo. A volte è necessario intraprendere una guerra di parole, perché nel perdere una parola qualcosa con un grande valore viene rimosso dal dibattito pubblico. Il fatto è che, questa parola, “socialismo”, è stata persa molto tempo fa, quando sia i blocchi orientali e occidentali hanno deciso di attribuirla al modello economico sovietico, o alla socialdemocrazia. L’Occidente ha fatto questo per delegittimare la parola socialismo, attribuendola al Socialismo1. Il blocco orientale l’ha fatto per cercare di attribuire al modello di Socialismo1 una qualche legittimità, facendo sembrare che esso includesse qualunque speranza di raggiungere il Socialismo2. In entrambi i casi la parola socialismo è stata derubata della sua connotazione di Socialismo2.

Qualcuno non desideroso di usare il termine socialismo sarà probabilmente in dubbio che la parola socialismo possa essere districata da questo pasticcio. Questa stessa persona potrebbe inoltre pensare che la posta in gioco non sia rilevante.

Abbiamo davvero bisogno di questa parola per essere in grado di lottare per una vera autodeterminazione, per una vera equità e una vera giustizia sociale? Se la risposta fosse negativa potremmo semplicemente scegliere di mantenere il Socialismo 2 tra i nostri obiettivi ma chiamarlo, ad esempio, Economia Partecipativa. E potremmo scegliere di eliminare il Socialismo1 dal nostro ordine del giorno, magari sotto il nome di coordinatorismo. E dal momento che non abbiamo la più pallida idea di cosa significhi Socialismo 3, potremmo decidere di non inserire neppure questo nei nostri piani, pur sperando vivamente di essere in grado di dedicarci con lealtà alla causa di giustizia in politica, nei rapporti di parentela, e nelle visioni culturali nel prossimo futuro, se questi fossero impressi alla gente in una forma praticabile e sostenibile.

Certo, se pensiamo di aver davvero bisogno del termine, allora potremmo optare per il socialismo partecipativo come la nostra visione economica, e cercare di trovare anche un termine per l’intera società che cerchiamo di realizzare

Ecco un altro fondamento logico rilevante. Tutto questo sarà sembrato un po’ astratto, austero, e accademico? Se così fosse, perché tutto diventi più vivo e impegnato, suggerirei di smetterla di parlare di termini vaghi o addirittura fuorvianti come “socialismo”, e cominciare a parlare di obiettivi economici, politici, parentali, e culturali ben precisi utilizzando termini comprensibili che non necessitino di un ampio bagaglio culturale per essere compresi. Se lo facessimo, allora forse il tono astratto, austero, e accademico potrebbe dare vita ad un linguaggio di ampio respiro che riuscirebbe ad accendere le fantasie, le speranze e le lotte.

Per l’economia vorrei che lavoratori e consumatori avessero la possibilità di controllare in maniera autogestita la propria vita economica. Vorrei che tutti avessero condizioni eque nelle quali i loro talenti e loro potenzialità possano essere pienamente sfruttate. Vorrei che i redditi fossero coerenti con gli sforzi che le persone fanno nel loro lavoro, in modo che il guadagno sia proporzionale al tempo impiegato, alla difficoltà dell’incarico, e all’onerosità delle condizioni sopportate. Vorrei che cosa viene prodotto, per chi, in quali condizioni e da chi viene consumato il risultato finale, tutto ciò fosse stabilito in modo da promuovere lo sviluppo dell’umanità e ottenere un generale miglioramento delle condizioni di vita delle persone, e che tutto sia deciso dalle persone coinvolte e interessate in modo cooperativo e autogestito. Vorrei che fossero eliminate le logiche basate sulle gerarchie di potere, di ricchezza e di divisione di classe in base alle quali la maggior parte delle persone è subordinata a una piccola élite.

Per realizzare tutti questi obiettivi sono favorevole alle istituzioni di un’economia partecipativa–alle assemblee di lavoratori e consumatori, alla remunerazione basata sull’impegno e sugli sforzi, al lavoro multiplo e bilanciato e alla pianificazione partecipata.

E se qualcuno dovesse mai dimostrare che tali istituzioni in qualche modo sarebbero fallimentari nell’assolvimento delle funzioni economiche necessarie o genererebbero sottoprodotti sociali o personali tanto negativi da superare i loro benefici, vorrei semplicemente ritornare al punto di partenza. Sfruttamento, alienazione, povertà, deresponsabilizzazione, frammentazione del lavoro e lavoro debilitante, produzione per il profitto di pochi, e tanto meno indigenza fame, degrado, guerre e distruzione del nostro pianeta non sono come la gravità. Essi derivano da rapporti istituzionali stabiliti da esseri umani. Nuove istituzioni, anch’esse stabilite dagli esseri umani, possono essere in grado di generare risultati di gran lunga migliori. Lavorare per definire e raggiungere tali nuove istituzioni dovrebbe essere tra i nostri obiettivi economici prioritari.

Infine la stessa logica dovrebbe essere diffusamente applicata anche per concepire, condividere, valutare, e quindi lottare per ottenere nuove strutture politiche, di genere, di parentela e di relazioni culturali.


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Originale:  http://zcomm.org/znetarticle/socialisms/

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