The New Yorker
Internazionale, numero 914, 9 settembre 2011
6 ottobre 2011 09.50

Storia di un visionario
di Malcolm Gladwell
Traduzione di Matteo Colombo.

Il mouse, la stampante, le canzoni dei Rolling Stones. Malcolm Gladwell cerca di capire in che modo nascono le idee rivoluzionarie. E racconta di quando un imprenditore di vent’anni che si chiamava Steve Jobs visitò lo Xerox Parc nella Silicon valley e vide il primo personal computer.

Lo Xerox Parc era la divisione della Xerox Corporation dedicata all’innovazione. Si trovava, e si trova ancora, in Coyote Hill road, nella periferia di Palo Alto, ai piedi delle colline, in un edificio di cemento lungo e basso con enormi terrazze affacciate sui gioielli della Silicon valley. A nordovest c’era la Hoover tower della Stanford university. A nord, il campus sempre più grande della Hewlett-Packard. E tutt’intorno, schiere di altre aziende di software, società d’investimento e fabbriche di hard­ware. Chiunque visitasse il Parc poteva immaginare di trovarsi nel castello che dominava la valle del mondo dei computer. E all’epoca la realtà non era molto diversa. Nel 1970 la Xerox riuniva i migliori ingegneri e programmatori del mondo, che per dieci anni produssero un flusso d’innovazioni e invenzioni senza precedenti. Negli anni settanta chi era ossessionato dal futuro era ossessionato dallo Xerox Parc: ecco perché il giovane Steve Jobs andò in Coyote Hill road.

La Apple era già una delle aziende tecnologiche più interessanti del paese. Nella valley tutti ne volevano un pezzo. E così Jobs propose un accordo: avrebbe permesso alla Xerox di comprare centomila azioni della sua azienda per un milione di dollari – all’attesissima quotazione in borsa mancava solo un anno – a patto che il Parc “gli aprisse un po’ le sue stanze segrete”. Seguirono contrattazioni infinite. In fin dei conti Jobs era la volpe e il centro ricerche della Xerox il pollaio. Cosa potevano lasciargli vedere? E cosa no? Qualcuno pensava che quell’accordo fosse una follia, ma alla fine la Xerox accettò. Uno degli scienziati del centro ricorda Jobs come un tipo “esuberante”, una versione più fresca e adrenalinica dell’austero imperatore digitale che conosciamo oggi. Gli fecero fare un giro e Jobs si ritrovò davanti a uno Xerox Alto, il prestigioso personal computer del centro.

A mostrargli come funzionava fu l’ingegnere Larry Tesler. Spostò il cursore sullo schermo servendosi di un “mouse”. All’epoca dare un’istruzione a un computer significava digitare un comando sulla tastiera. Tesler si limitò a cliccare su una delle icone presenti sullo schermo. Apriva e chiudeva delle “finestre”, spostandosi velocemente tra una funzione e l’altra. Scriveva con un elegante programma di videoscrittura e si scambiava email con altre persone che lavoravano al Parc, tramite la prima rete ethernet della storia. Jobs era accompagnato da uno dei suoi ingegneri informatici, che si avvicinò il più possibile arrivando quasi a sfiorare lo schermo con il naso. “Jobs continuava a camminare avanti e indietro, come un bambino irrequieto”, ricorda Tesler. “Era agitatissimo. Quando vide cosa riuscivo a fare sullo schermo, rimase a osservare per circa un minuto e dopo cominciò a strillare: ‘Ma perché non fate niente con questa roba? È fantastica. È una rivoluzione!’”.

La Xerox mise in commercio una versione successiva dell’Alto nel 1981. Era lento e poco potente, tanto che la Xerox abbandonò del tutto il settore dei personal computer. Nel frattempo Jobs, tornato di corsa alla Apple, aveva chiesto alla squadra che lavorava alla nuova generazione di personal computer dell’azienda un cambio di direzione. Voleva i menù sullo schermo. Voleva le finestre. Voleva un mouse. Il risultato fu il Macintosh, probabilmente il prodotto più famoso nella storia della Silicon valley. “Se la Xerox si fosse resa conto di cosa aveva in mano e avesse saputo sfruttarne il potenziale”, dichiarò Jobs anni dopo, “sarebbe diventata grande come l’Ibm, la Microsoft e la Xerox messe insieme, oltre che l’azienda tecnologica più importante del mondo”.

Questa è la leggenda dello Xerox Parc, dove Jobs è Giacobbe e Xerox è Esaù, che si vende la primogenitura per un piatto di lenticchie. Una leggenda che la storia degli ultimi trent’anni ha confermato. Xerox, un tempo il fiore all’occhiello della comunità tecnologica statunitense, ha perso la sua posizione dominante. Oggi è la Apple a farla da padrone, e ciò che è successo in quella stanza di Palo Alto è il simbolo della lungimiranza e della spregiudicatezza che distinguono i veri innovatori dai dilettanti. Ma come per tutte le leggende, la verità è più complessa.

Dopo la visita al centro ricerche, Jobs incontrò Dean Hovey, uno dei fondatori dell’azienda di design industriale poi diventata Ideo. “Jobs andò a visitare lo Xerox Parc un mercoledì o un giovedì, e io lo vidi il venerdì pomeriggio”, ricorda Hovey. “Avevo qualche idea che volevo proporgli, e feci appena in tempo a pronunciare due parole che lui saltò in piedi dicendomi: ‘No, tu devi farmi un mouse’. ‘E cosa sarebbe un mouse?’. Non avevo idea di cosa fosse. Jobs me lo spiegò e poi disse: ‘Allora, il mouse della Xerox ha un costo di fabbricazione di trecento dollari e si rompe dopo due settimane. Il nostro mouse deve costarci meno di quindici dollari, deve funzionare per almeno due anni e voglio poterlo usare sia su un ripiano di formica sia sui jeans’. Dopo quella riunione andai al Walgreens, un negozietto di Mountain View che è ancora lì, all’angolo tra Grant road ed El Camino, feci un giro e comprai tutti i deodoranti per le ascelle che trovai, perché avevano la sfera. Poi comprai un portaburro. Fu l’inizio del mouse”.

Un computer popolare
Incontro Hovey in un vecchio edificio nel centro di Palo Alto, dov’era la prima sede della sua azienda. Ha chiesto all’attuale inquilino di prestargli il suo vecchio ufficio per una mattina, solo per il gusto di raccontare la storia del mouse della Apple nel posto dov’è stato inventato. La stanza, grande come una camera da letto, sembra che sia stata imbiancata l’ultima volta negli anni venti. Hovey, magro e in salute come un californiano del nord che vive di yoga e yogurt, è seduto dietro a una scrivania in un angolo della stanza. “La nostra prima officina era sul tetto”, mi racconta, indicando fuori dalla finestra un piccolo spazio coperto da una moquette per esterni verde. “All’ufficio urbanistica non l’abbiamo detto. Ci siamo procurati un po’ di quelle lastre ondulate trasparenti e abbiamo costruito una tettoia. Uscivamo dalla finestra”.

Ha portato con sé un sacchetto di plastica pieno di oggetti dell’epoca: diagrammi scarabocchiati su fogli a righe, decine di gusci di mouse in plastica di diverse dimensioni, un rotolo di corde per la chitarra, un set di minuscole ruote di trenino e il coperchio metallico di un barattolo di marmellata. Prende il coperchio e lo rovescia: è pieno di una sostanza simile alla cera e al centro c’è una rientranza rotonda, di forma sferica. “È resina epossidica da stampi”, mi spiega. “La versi, spalmi la vaselina su una sferetta d’acciaio liscia e la piazzi nella resina, che si solidifica intorno”. Sistemata la sfera d’acciaio sotto il coperchio, Hovey comincia a farlo scorrere sulla scrivania. “Una specie di mouse”.

Il problema era che la sfera del mouse doveva muoversi restando all’interno dell’involucro ed essere collegata in modo da trasmettere informazioni sui suoi movimenti al cursore sullo schermo. Ma se l’attrito creato dai collegamenti fosse stato più forte di quello tra il tavolo e la sfera, il mouse avrebbe funzionato a scatti. Non solo: più il mouse veniva usato, più polvere raccoglieva dal tavolo e più funzionava a scatti. Il mouse dello Xerox Parc era un aggeggio complicato, con una serie di cuscinetti a sfera che sostenevano una pallina metallica. Ma l’attrito sulla sommità della pallina era troppo forte, e il mouse non poteva niente contro la polvere e la sporcizia.

All’inizio Hovey lavorò a varie soluzioni basate su dei cuscinetti a sfera, ma nessuna funzionava nel modo giusto. “Il momento della scoperta andò così”, mi racconta appoggiando delicatamente le dita di una mano intorno alla sfera in modo da sfiorarne la superficie. “C’era una sfera che rotolava, probabilmente perché l’edificio è vecchio e il pavimento non è in piano. Così mi misi a giocarci un po’ e a un certo punto capii: doveva rotolare. Non serviva il sostegno dei cuscinetti a sfera. Doveva essere sufficiente sfiorarla”.

Il trucco fu mettere le connessioni all’interno del mouse dove l’attrito era minore. Hovey stabilì la tariffa per le consulenze a trentacinque dollari all’ora. L’intero progetto sarebbe costato centomila dollari. “All’inizio chiesi alla Apple una percentuale sulle vendite”, racconta. Dissi: ‘Avrei in mente cinquanta centesimi al pezzo’, perché pensavo che potessero venderne cinquantamila, magari centomila”. Scoppia a ridere all’idea di quanto fossero sbagliate le sue previsioni. “Ma Steve ha sempre avuto l’occhio lungo e mi rispose di no. Forse, se gli avessi chiesto cinque centesimi, avrebbe accettato”.

I limiti dei visionari
Questo è il primo elemento che complica la storia della visita di Jobs. Secondo la leggenda dello Xerox Parc, Jobs rubò il personal computer alla Xerox. Ma le istruzioni che Jobs diede a Hovey dimostrano che lui non voleva riprodurre quello che aveva visto al Parc. “Ci furono un sacco di discussioni sul numero di pulsanti: tre, due o uno?”, racconta Hovey. “Il mouse della Xerox aveva tre pulsanti. Noi però arrivammo alla conclusione che imparare a usare un mouse sarebbe stato complicato e quindi era fondamentale renderlo il più semplice possibile. Sarebbe bastato un pulsante solo”.

Allora Jobs ha sottratto alla Xerox l’idea del mouse? Non proprio, perché la Xerox non è mai stata proprietaria dell’idea del mouse. I ricercatori del Parc l’avevano presa dall’ingegnere elettronico Douglas Engelbart, dello Stanford research institute, che si trova a un quarto d’ora di distanza sul lato opposto del campus universitario. A metà degli anni sessanta Engelbart fu il primo ad avere l’idea di muovere il cursore sullo schermo usando un “animale” meccanico indipendente. Il suo mouse era un grosso aggeggio rettangolare, dotato di quelle che sembravano rotelle di pattini in acciaio. Mettendo il mouse di Engelbart, della Xerox e della Apple uno accanto all’altro, non si vedrebbe la riproduzione in serie di un oggetto, ma l’evoluzione di un concetto.

È la stessa cosa per l’interfaccia grafica che colpì l’immaginazione di Jobs. Il computer dello Xerox Parc aveva delle icone sullo schermo al posto della solita linea di comando. Cliccando su un’icona, però, si apriva un menù: era l’intermediario tra l’intenzione dell’utente e la risposta del computer. I programmatori di Jobs fecero compiere all’interfaccia grafica un colossale salto in avanti, concentrandosi sulla “manipolazione diretta”. Per ingrandire una finestra bastava trascinarne un angolo, per spostarla sullo schermo bastava prenderla e trascinarla. I designer della Apple inventarono anche la barra del menù, il menù a tendina e il cestino, semplificando l’idea originale dello Xerox Parc.

La differenza tra manipolazione diretta e indiretta – fra tre pulsanti e un pulsante solo, fra trecento dollari e quindici e tra una sfera che rotola sostenuta da cuscinetti e una che rotola liberamente – non è di poco conto. È la differenza tra una cosa progettata per degli esperti, quello che avevano in mente allo Xerox Parc, e una cosa adatta a un pubblico più vasto, quello che aveva in mente la Apple. Al Parc stavano costruendo un personal computer. La Apple voleva costruire un computer popolare.

Nel saggio The culture of military innovation, lo studioso di storia della guerra Dima Adamsky sostiene una tesi simile per quanto riguarda la cosiddetta revolution in military affairs (rivoluzione degli affari militari, Rma). Con quest’espressione si indica il modo in cui è cambiato l’esercito con l’avvento degli strumenti digitali come i missili di precisione, i droni e le tecnologie di comando, controllo e comunicazione. Adamsky parte dalla constatazione che è impossibile stabilire chi abbia inventato l’Rma. I primi a immaginare il modo in cui la tecnologia digitale avrebbe potuto trasformare la guerra furono alcuni esperti militari dell’Unione Sovietica, negli anni settanta. I primi a inventare questi sistemi altamente tecnologici sono stati gli Stati Uniti. E il primo paese a usarli è stato Israele, nel 1982, durante uno scontro con le forze aeree siriane nella valle libanese della Bekaa, in una battaglia nota come Bekaa valley turkey shoot. Israele era riuscito a coordinare tutte le principali innovazioni dell’Rma in modo così efficace da distruggere 19 batterie terra-aria e 87 aerei siriani, perdendo solo una manciata di uomini.

Si tratta di tre rivoluzioni, non di una sola, e secondo Adamsky ciascuna è il prodotto di competenze, capacità e circostanze diverse. I sovietici avevano una forte burocrazia militare centralizzata, con una lunga tradizione di analisi teorica. Era logico che fossero i primi a comprendere le implicazioni militari dei nuovi sistemi informatici. Ma non misero in pratica le loro intuizioni perché le burocrazie militari centralizzate con una forte tradizione intellettuale non sono brave a collegare pensiero e azione.

Invece gli Stati Uniti hanno una cultura imprenditoriale decentrata, storicamente attenta alle soluzioni tecnologiche. Considerati gli stretti legami tra le forze militari e i centri di ricerca tecnologica, non sorprende che gli Stati Uniti siano stati i primi a inventare le armi con guida di precisione e i sistemi comunicativi di comando e controllo di nuova generazione. Ma queste caratteristiche significano anche che l’analisi sistemica di tipo sovietico non era una priorità. Quanto agli israeliani, la loro cultura militare si è sviluppata in un contesto di risorse limitate e minaccia costante. Di conseguenza sono diventati creativi e capaci d’improvvisare.

Ma, come fa notare Adamsky, un esercito costruito intorno all’urgenza di “spegnere incendi” non avrà tra le sue caratteristiche principali la riflessione teorica. Nessuno ha rubato la rivoluzione. Ciascun attore ha esaminato il problema da una prospettiva diversa, ritagliando un pezzo del puzzle.

Nella storia del mouse Engelbart è stato l’Unione Sovietica, il visionario che ha immaginato il mouse prima di chiunque altro. Ma i visionari si scontrano con i limiti delle loro stesse visioni. “La missione dichiarata di Engelbart non era realizzare un prodotto o un prototipo. Era una ricerca senza vincoli”, scrive Matthew Hiltzik in Dealers of lightning (1999), la sua meravigliosa storia dello Xerox Parc. “Ecco perché nessun progetto del suo laboratorio vedeva mai la luce”.

Lo Xerox Parc si trovava negli Stati Uniti: era un posto dove le idee si concretizzavano. “La Xerox aveva creato un ambiente perfetto”, ricorda Bob Metcalfe, che ha lavorato al centro per gran parte degli anni settanta, prima di fondare l’azienda di telecomunicazioni 3Com. “Non esisteva una gerarchia. Ci costruivamo gli strumenti da soli. Se dovevamo pubblicare dei documenti, costruivamo una stampante. Se dovevamo scriverli, costruivamo un computer. Quando abbiamo avuto bisogno di collegare tra loro dei computer, abbiamo inventato un modo per collegarli. Potevamo contare su molti fondi e, a differenza di tanti nostri colleghi, non eravamo costretti a insegnare: potevamo dedicarci solo alla ricerca. Era il paradiso”.

Ma il paradiso non è un buon posto per commercializzare un prodotto. “Abbiamo costruito un computer, ed era un oggetto meraviglioso”, prosegue Metcalfe. “Avevamo sviluppato un nostro codice informatico, un nostro display, un nostro linguaggio. Era rivestito d’oro. Ma costava sedicimila dollari e doveva costarne tremila”. Per re­a­lizzare un vero prodotto servono vincoli e minacce, e la creatività e la capacità d’improvvisazione necessarie a trasformare un mouse da trecento dollari in un oggetto che funzioni sulla formica e ne costi quindici. La Apple è stata Israele.

In altre parole, la Xerox non avrebbe mai potuto essere come l’Ibm e la Microsoft messe insieme. “Puoi essere una delle più grandi aziende di prodotti tecnologici per le imprese mondiali, ma non significa che le tue intuizioni riescano a funzionare anche nel mercato dei beni di consumo”, ha scritto di recente l’esperto di tecnologia Harry McCracken. “Sono settori diversi e poche aziende sono riuscite a imporsi in entrambi”. McCracken si riferiva alla decisione presa in primavera dal gigante delle reti di comunicazione Cisco System, che ha sospeso la produzione di videocamere Flip, rimettendoci centinaia di milioni di dollari. Ma le sue parole si adattano perfettamente alla Xerox di quarant’anni fa, che era una delle aziende di prodotti tecnologici per le imprese più grandi della storia.

La domanda che viene spontanea è: attraverso il centro di ricerche di Palo Alto la Xerox è riuscita a scoprire un modo migliore per essere la Xerox? La risposta è sì, anche se questa storia non viene raccontata spesso.

Stampare tutto
Quando Steve Jobs andò allo Xerox Parc, c’era anche l’ingegnere ottico Gary Starkweather. Oggi Starkweather è un uomo robusto e allegro, con delle grandi mani da lavoratore e la tipica capacità degli ingegneri di far finta che cose difficilissime siano in realtà semplici: basta dare un’aggiustatina qua e là e rispolverare qualche calcolo che facevi alle superiori.

Una volta, prima che venisse costruito l’imponente edificio di Coyote Hill road, un gruppo con il quale Starkweather doveva essere sempre in contatto fu spostato in un altro edificio, al di là della Foothill expressway, a quasi un chilometro di distanza. Far passare un cavo sotto la superstrada era impossibile. Allora Starkweather proiettò un laser lungo la linea d’aria che separava i due edifici. Se ti capitava di viaggiare in macchina sulla superstrada in una sera di nebbia e alzavi lo sguardo, potevi vedere un misterioso raggio di luce rosso attraversare il cielo. Una volta un automobilista finì contro lo spartitraffico di cemento tra le due carreggiate e “dovemmo spegnere” il laser, ricorda Starkweather con un sorriso.

I laser erano la sua specialità. Aveva cominciato nel centro ricerche della Xerox sulla costa est, a Webster, nello stato di New York. La Xerox costrui­va apparecchi che scansionavano una pagina di testo stampato con una lente fotografica e ne stampavano un duplicato. L’idea di Starkweather fu quella di saltare la prima fase: trasferire un documento da un computer direttamente a una fotocopiatrice, attraverso un laser, trasformando la fotocopiatrice in una stampante.

Un’idea rivoluzionaria. La stampa, dai tempi di Gutenberg, si era limitata a ricreare: se si voleva stampare un’immagine o una lettera, bisognava avere un carattere o un segno fisico corrispondente all’immagine o alla lettera in questione. Starkweather voleva prendere le serie di bit e byte, gli uno e gli zeri che compongono le immagini digitali, e trasferirle direttamente nelle viscere della fotocopiatrice. Questo voleva dire, almeno in teoria, poter stampare qualsiasi cosa.

“Una mattina”, mi racconta Starkweather, “mi sono svegliato e ho pensato: ‘Perché non possiamo stampare direttamente le cose?’. Ma al mio capo sembrò l’idea più idiota che avesse mai ascoltato. Mi disse di trovarmi altro da fare. Pensava che i laser fossero troppo costosi, che non avrebbero funzionato bene e che nessuno si sarebbe interessato a una cosa del genere, perché i computer non erano abbastanza potenti. Io, però, nella mia ingenuità continuai a pensare che si sbagliava. Mi sentivo frustrato. Tra la fine del 1969 e l’inizio del 1970 arrivammo ai ferri corti. Appena avevo un po’ di tempo, facevo i miei esperimenti in uno stanzino, dietro a una tenda nera. Lui minacciò di licenziare i miei collaboratori, se non la smettevo. Fui costretto a decidere se abbandonare il progetto o puntare in alto”.

Poi Starkweather sentì dire che la Xerox stava aprendo un centro ricerche a Palo Alto, a più di quattromila chilometri dalla sede nello stato di New York. Si presentò da un vicepresidente della Xerox minacciando di passare all’Ibm se non l’avessero trasferito. Nel gennaio del 1971 il suo desiderio fu esaudito e nel giro di dieci mesi Stark­weather aveva messo a punto un prototipo.

Oggi Starkweather è in pensione e vive a nord di Orlando, in Florida. Chiacchieriamo seduti a un tavolo da picnic, nella veranda che dà sul retro della sua casa. Porta dei pantaloni di cotone bianchi e una camicia a maniche corte nera e lucida, con delle immagini fluorescenti di auto da rally. Sul tavolo mette due grandi contenitori di plastica pieni di oggetti provenienti dalle sue ricerche: un disco di metallo ottagonale, bozzetti su carta da laboratorio, il guscio in plastica nera di un laser che era stato il cuore di una delle sue stampanti.

“Il gruppo di Webster faceva ancora molte resistenze, perché credeva che la stampa digitale non avesse futuro”, prosegue. “Dicevano: ‘Lo sta facendo l’Ibm, perché dobbiamo farlo anche noi?’. C’erano anche altri due o tre progetti concorrenti, che posso permettermi di definire ridicoli. In un gruppo lavoravano cinquanta persone, nell’altro venti. Io avevo due collaboratori”.

Starkweather tira fuori la foto di uno dei prototipi concorrenti della Xerox, un apparecchio chiamato “stampante a carrello ottico”. Era grande come quelle cucine modulari italiane di cui si vede la pubblicità sulle riviste di design. “Un aggeggio assurdo”, commenta Starkweather con una risata. “Aveva un cilindro largo venticinque centimetri, che ruotava a cinquemila giri al minuto, come una specie di superlavatrice. Sulla superficie erano stampati dei caratteri. Credo che ne abbiano venduti una decina in tutto. Girava così veloce che il cilindro si dilatava e i caratteri si staccavano, e solo una signora di Troy, una città nello stato di New York, sapeva sistemare i caratteri in modo che rimanessero al loro posto. Alla fine decidemmo di organizzare una specie di prova sul campo tra prototipi. C’era una pagina intera di testo – con alcuni caratteri senza grazie, Helvetica e roba del genere – e poi una pagina di carta millimetrata, con i quadratini, più delle pagine con foto e altre cose complesse. Ognuno doveva stampare tutte e sei le pagine. Una volta stabilito come sarebbero state quelle sei pagine, capii che avrei vinto, perché sapevo che non c’era niente che non potessi stampare. Se una cosa si può tradurre in bit, posso stamparla. Alcune di quelle macchine dovevano fare i salti mortali solo per stampare una curva. Una settimana dopo la prova gli altri progetti furono accantonati. L’unico in corsa rimasi io”.

Il progetto diventò la Xerox 9700, la prima stampante laser ultraveloce a usare carta comune.

Energia creativa
In un certo senso la vicenda di Starkweather è simile a quella della visita di Steve Jobs: l’ennesimo esempio della scarsa fantasia che caratterizzava il management della Xerox. Starkweather doveva nascondere il suo laser dietro a una tenda. Lottò per farsi trasferire al Parc e sopportò l’umiliazione della prova sul campo. Ma la Xerox rimase scettica. Il fondatore del Parc, Jack Goldman, fu costretto a far venire un team da Rochester per una dimostrazione speciale. Poi a Stark­weather e Goldman venne un’idea per commercializzare la stampante laser in tempi brevi: installare un laser su una fotocopiatrice Xerox chiamata 7000.

La 7000 era un modello vecchio e la Xerox ne aveva molte in magazzino. Goldman aveva già un cliente: il laboratorio Lawrence Livermore era interessato a comprare in blocco un certo numero di macchine. La Xerox disse di no. Poi Starkweather espresse la volontà di fabbricare quella che definisce una “fotocompositrice”, in grado di produrre materiale pronto per la stampa sulla propria scrivania. La Xerox disse di no. “Avrei voluto lavorare a degli scanner dalle prestazioni superiori”, afferma Starkweather. “Se volessimo stampare cose diverse dai documenti? Per esempio, creai uno scanner ad alta risoluzione con cui si poteva stampare su lastre di vetro”.

Starkweather fruga in uno dei contenitori sul tavolo e tira fuori una lastra di vetro di circa quaranta centimetri quadrati, su cui è impresso il volto di una bambina. La stessa idea, mi spiega, si sarebbe potuta usare per l’industria dei semiconduttori, quelle piastrine finemente reticolate su cui si incidono i circuiti dei chip. “Ma erano cose che non avevano seguito, perché alla Xerox sembrava che non si rendessero conto di appartenere al settore informatico. Questa”, dice prendendo in mano la lastra con il volto della bambina, “è una copia. Ma non la copia di un semplice documento”. Eppure non se ne fece nulla. “La Xerox era piena di esperti in fogli di calcolo elettronico convinti che qualsiasi prodotto si potesse concepire in base a criteri misurabili. Purtroppo la creatività non è misurabile”.

Qualche giorno dopo il nostro incontro, Starkweather mi spedisce un’email per chiarire la sua esperienza al Parc. “Nonostante tutte le seccature e i rischi collegati alla creazione della stampante laser, a conti fatti il percorso fu entusiasmante”, scrive. “Spesso le difficoltà sono solo delle opportunità camuffate”. Forse ha pensato di aver fatto un ritratto troppo negativo del suo periodo alla Xerox o forse per un attimo si è sentito in colpa, immaginandosi nei panni di uno di quei dirigenti seduti dall’altra parte del tavolo.

La verità è che Starkweather da giovane era un dipendente difficile, anche se questo era il rovescio della medaglia di ciò che lo rendeva un innovatore straordinario. Continuò di nascosto a lavorare ai laser, anche se il suo capo gli aveva detto di smetterla. Era un elemento di disturbo, ostinato, che tendeva a fare di testa sua e aveva migliaia di idee: ma non sempre era facile distinguere quelle buone dalle cattive. La Xerox avrebbe dovuto produrre delle stampanti laser basate sulla vecchia fotocopiatrice 7000 appositamente per il Lawrence Livermore?

In Fumbling the future: how Xerox invented, then ignored, the first personal computer (Sfiorare il futuro: come la Xerox ha inventato e poi ignorato il primo personal computer), un libro del 1988 basato sull’idea che Xerox fosse gestita da ciechi, Douglas Smith e Robert Alexander ammettono che quella proposta era impraticabile. “L’esigua richiesta del Livermore non poteva giustificare l’investimento necessario ad avviare una produzione di stampanti laser. Come e dove le avrebbero fabbricate? Chi si sarebbe occupato della vendita e dell’assistenza? Chi le avrebbe comprate, e perché?”.

Starkweather e i suoi colleghi dello Xerox Parc non erano una fonte d’intuizioni strategiche disciplinate. Erano incontrollabili geyser di energia creativa.

Secondo lo psicologo Dean Simonton, spesso una prolificità come questa è alla base di quello che caratterizza il talento vero. La differenza tra Bach e i suoi colleghi dimenticati non sta in un miglior rapporto tra colpi andati a segno e a vuoto. La differenza è che una persona mediocre può produrre una decina di idee, mentre Bach, nel corso della sua vita, ha creato più di mille composizioni musicali. Un genio, afferma Simonton, è qualcuno capace di assemblare una quantità così sbalorditiva di intuizioni, idee, teorie, osservazioni estemporanee e collegamenti imprevedibili da approdare a qualcosa di grande. “La qualità è una funzione probabilistica della quantità”, scrive Simonton.

Secondo lui, nella creatività non c’è nulla di ordinato ed efficiente. “Maggiore è il numero di successi”, dice, “maggiore sarà quello dei fallimenti”. Quindi la persona che ha più idee degli altri avrà anche più idee scadenti degli altri. Ecco perché gestire il processo creativo è così difficile.

Produrre lo storico album dei Rolling Stones Exile on main street fu un calvario, scrive il chitarrista Keith Richards nella sua autobiografia Life (Feltrinelli 2010), perché il gruppo aveva troppe idee. L’album ha dovuto lottare per emergere da una valanga di mediocrità: Head in the toilet blues, Leather jackets, Windmill, I was just a country boy, Bent green needles, Labour pains e Pommes de terre, che Richards giustifica dicendo: “Be’, al momento ci trovavamo in Francia”.

Nel suo libro Richards riporta le parole con cui un amico, Jim Dickinson, racconta la genesi della canzone Brown sugar: “Vidi Mick scrivere il testo. Scriveva più veloce che poteva. Aveva un blocchetto giallo a righe e annotava una strofa a pagina, una strofa e poi voltava pagina, e quando ne ebbe riempite tre, cominciarono a suonare. Era sbalorditivo!”. Più avanti, Richards osserva ammirato: “Era difficile credere quanto fosse prolifico”. Poi scrive: “C’era quasi da chiedersi come chiudere il rubinetto. La metà delle volte, i suoi testi erano talmente lunghi che correvano il rischio di intasare le onde radio”.

È chiaro che Richards si sentiva l’organizzatore creativo dei Rolling Stones (solo in un gruppo rock uno come Keith Richards può percepirsi come quello responsabile), e con il tempo ha capito che uno degli aspetti più difficili e importanti del suo lavoro era “chiudere quel cazzo di rubinetto”, imbrigliare l’incredibile energia creativa di Mick Jagger.

Più Starkweather va avanti nel suo racconto, più diventa chiaro che tutta la sua carriera è stata una versione diversa dello stesso problema. Inevitabilmente c’era qualcuno che tentava di chiudergli il rubinetto. Ma dovevano farlo: non sempre gli interessi dell’innovatore coincidono con quelli dell’azienda. Starkweather giudicava le idee solo per le loro qualità. La Xerox era una multinazionale con degli azionisti, un’enorme forza di vendita e un ampio bacino di clienti aziendali, e doveva valutare ogni nuova idea in base a quello che già c’era.

Non sempre i dirigenti della Xerox hanno visto giusto dicendo di no a Starkweather. Però al Parc l’hanno preso, giusto? E soprattutto la Xerox aveva il Parc: un posto dove, a un continente di distanza dai manager, un ingegnere poteva sognare in tutta tranquillità, ordinare qualunque materiale e perfino scavalcare la superstrada con un laser, se gli andava. Certo, doveva far gareggiare la sua stampante laser contro altre che valevano meno. Ma poi vinceva. E nell’istante in cui questo succedeva, la Xerox cancellava i progetti concorrenti e gli dava il via libera.

“Arrivai lì e feci una presentazione dell’idea che stavo studiando”, ricorda Starkweather rievocando la sua prima visita al Parc. “A loro piacque moltissimo, perché all’epoca stavano costruendo un personal computer e stavano impazzendo per trovare il modo di trasferire quello che c’era sullo schermo su un foglio di carta. Quando gli mostrai come intendevo farlo io, gli sembrò un invito a nozze”.

Il motivo per cui la Xerox ha inventato la stampante laser, insomma, è che ha inventato il personal computer. Senza la grande idea, non avrebbe mai intuito il valore della piccola idea. Se consideri l’innovazione utile e le idee preziose, è una tragedia: finisci per regalare i gioielli della corona a Steve Jobs, mentre a te resta solo una stampante. Ma nel mondo reale e complicato della creatività, rinunciare a una cosa che non capisci davvero in cambio di una che invece capisci è un compromesso inevitabile.

“Quando hai un gruppo di persone in gamba e un po’ di carta bianca, ne ricavi sempre qualcosa di buono”, sostiene Nathan Myhrvold, un ex dirigente della Microsoft. “È uno degli investimenti migliori che si possano fare, ma solo se poi scegli di valutarlo in termini di successo. Se lo giudichi in base alle volte in cui hai fallito o a quelle in cui avresti potuto riuscire ma non l’hai fatto, sei condannato all’infelicità. L’innovazione è indomabile. Può capitare di non riuscire a realizzare alcune idee, ma il punto è quello che porti a casa, non quello che ti sfugge”.

Stimolante, ma non perfetto
Negli anni novanta la Myhrvold ha creato un laboratorio di ricerca Microsoft ispirato in parte a quello che la Xerox aveva fatto a Palo Alto negli anni settanta, e questo perché considerava il Parc un trionfo, non un fallimento. “La Xerox faceva ricerche al di fuori del suo modello imprenditoriale. Quando decidi di muoverti così non devi stupirti se poi è difficile gestirne gli effetti. È come se un brillante chimico della Pfizer inventasse un programma di videoscrittura. Auguri alla Pfizer, se decidesse di buttarsi in questo settore. La Xerox, intanto, grazie a quell’invenzione coerente con il suo modello imprenditoriale – una grossa macchina che sputava carta – ha fatto un sacco di soldi”.

Ed è vero. Alla Xerox la stampante laser di Gary Starkweather ha fruttato miliardi, ripagando ampiamente ogni altro progetto mai avviato dallo Xerox Parc.

Nel 1988 Starkweather ricevette una telefonata dal presidente di una delle aziende concorrenti, che voleva strapparlo alla Xerox. Era una persona che aveva conosciuto anni prima. “Fu una decisione dolorosa”, racconta. “Mi mancava un anno per diventare un veterano dell’azienda, con venticinque anni di servizio. Per la Xerox avevo fatto così tanto che, a meno che non incendiassi la sede centrale, non mi avrebbero mai licenziato. Ma il punto non era quello. Il punto era che stroncavano tutte le mie idee. Così me ne andai”.

Nella nuova azienda Starkweather ha trascorso parecchi anni. Era un posto straordinariamente creativo e lui prendeva decisioni ai massimi livelli. “Ogni dipendente, dai tecnici agli amministratori, stravedeva per tutte le novità più esaltanti. Per quanto riguarda l’entusiasmo e l’ambiente di lavoro, è stata l’esperienza più divertente che abbia avuto”. Ma non proprio perfetta. “Una volta andai dal capo del marketing e gli dissi: ‘Voglio che mi passi tutte le informazioni possibili su come si comportano le persone che comprano i nostri prodotti – quali software scelgono, in che settore lavorano – in modo da farmi un’idea di come vengono usate le nostre macchine’. Lui mi guardò e rispose: ‘Non ne ho la minima idea’”.

Poi a Starkweather venne un’idea su come collegare uno schermo ad alta risoluzione a uno dei computer della nuova azienda. “La buttai giù, la portai ai manager e dissi: ‘Perché non la presentiamo al salone tecnologico di San Francisco? Con questo conquisteremo il mondo’. E loro: ‘Non so. Non abbiamo spazio’. Cose così. Come se io ti dicessi di aver scoperto una miniera d’oro e tu mi rispondessi che non hai i soldi per comprare una pala”.

Scrolla le spalle con l’aria un po’ rassegnata. È così da sempre. L’innovatore dice sì, l’azienda dice no. Forse l’unica lezione che si può imparare dalla leggenda dello Xerox Parc è che quello che succedeva lì succede, in un modo o nell’altro, ovunque.

A proposito: chi è che ha assunto Gary Starkweather per portarlo nell’azienda che non poteva permettersi una pala? Un tizio di nome Steve Jobs.

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