Il fuoco di Atene
La Grecia in rivolta contro il piano di austerità
di Michelangelo Cocco


manifestolibri, Roma, 2011


tratto da tecalibri.it

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PREFAZIONE

La maglietta, in vendita nel centro di Atene, reca stampato lo slogan "Mind the G. A. P." e sulla t-shirt azzurra è ritratto l'uomo che sia í suoi sostenitori sia l'opposizione chiamano semplicemente "Giorgakí". Sì, perché "Attenzione al G. A. P" non è l'avvertimento che nelle metropolitane segnala lo spazio vuoto tra treno e banchina, ma un riferimento alla sigla di "Giorgos Andreas Papandreou", il primo ministro del partito socialista (Pasok) che si è assunto il compito di traghettare il paese tra le onde di un crisi economica che ha messo sottosopra la Grecia e fatto tremare l'Unione europea.

Terzo premier di una dinastia politica iniziata col nonno Giorgos (tre volte a capo dell'esecutivo) e proseguita dal padre Andreas (due mandati da primo ministro), in campagna elettorale – con il crack di Lehman Brothers che già faceva sentire i suoi effetti anche in Europa – Papandreou aveva promesso salari al passo con l'inflazione e tre miliardi di euro da investire per rilanciare la crescita. Uscito nettamente vincitore dalle urne, nell'ottobre 2009, per "Giorgaki" arriva però subito una "sorpresa" amara. Il paese è sull'orlo della bancarotta. Lo testimoniano gli ultimi dati economici, che smentiscono le rilevazioni taroccate della precedente amministrazione di Nuova democrazia (Nd): il deficit ammonta al 15,4% del prodotto interno lordo (pil) – cinque volte superiore al limite fissato dall'Unione europea – il debito al 126,8%.

"Giorgaki" si ripresenta al paese nelle vesti di Dracone dei nostri giorni. Il legislatore dell'antichità stabilì di punire i poveri che si fossero indebitati nei confronti dei ricchi facendoli diventare automaticamente schiavi di questi ultimi. Papandreou diventa l'alfiere dell'"austerity", delle politiche di austerità che, a partire dalla penisola balcanica, si abbatteranno sui lavoratori dell'eurozona intaccandone diritti e portafogli.

Dopo essere stata "rimandata" due anni prima, il 1 gennaio 2001 Atene aveva dato l'addio alla drachma (tolta definitivamente dalla circolazione nel 2002) e salutato trionfalmente il suo ingresso nella moneta comune. In un discorso televisivo alla nazione Costas Simitis, il premier (dal 1996 al 2004) della "modernizzazione" si era detto sicuro che "l'inclusione nell'Unione monetaria europea ci assicura maggiore stabilità e apre nuovi orizzonti". Ma già prima dell'avvento dell'euro, con l'avvio del processo di "convergenza", in Grecia s'iniziava a spendere liberamente, facendo ampio ricorso all'indebitamento. Le banche francesi, tedesche e britanniche prestano decine di miliardi di euro al settore privato e pubblico. I grandi istituti di credito si "espongono" in Grecia favorendo il boom dei consumi. Ma le entrate – a causa della scarsa produttività e di una massiccia evasione fiscale – si mantengono a livelli bassissimi. La corruzione, gli scandali, l'ultimo disastroso mandato (2007-2009) ai conservatori, infine la crisi economica internazionale e Papandreou si ritrova tra le mani un paese in ginocchio, a due passi dal default.

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LA DIETA DI GIORGOS L'AMERICANO

Scocca l'ora dell"'americano", come lo apostrofano i nazionalisti a causa del suo greco che risente dell'origine statunitense (è nato a St. Paul, in Minnesota, da madre statunitense e padre greco, e ha studiato a lungo negli Usa). Papandreou invita tutte le forze politiche all'unità e alla responsabilità, a imboccare "una via nazionale per uscire dalla crisi e costruire un paese nuovo". E il governo avvia l'adozione di una serie di misure che entreranno nel vocabolario alla voce "austerity" e che, per la penisola ellenica, risulteranno essere solo l'antipasto dí una lunga e dolorosa cura dimagrante. Per ridurre, entro la fine del 2010, all'8,7% il rapporto tra deficit e pil vengono varati tre pacchetti di "austerity". La prima manovra, collegata alla finanziaria 2010, prevede il recupero di 9,8 miliardi di euro: lotta all'evasione 2,3; tagli al settore pubblico 1,8; tagli alla sanità 1,4; aumento della tassazione 1,5; tagli alla difesa 0,5; sblocco del fondo Ue 1,4. Poi arriva una "manovrina" da 1,4 miliardi: 1,2 dall'aumento delle tasse sulla benzina; 0,2 dal blocco degli stipendi pubblici. E ancora, il 3 marzo 2010, un'altra manovra, da 4,8 miliardi: tagli al settore pubblico per 1,7 con riduzione del 30% della tredicesima e della quattordicesima, taglio del 7% dei salari dei dipendenti delle aziende statali e del 12% di alcune indennità salariali, blocco dell'adeguamento delle pensioni – sia nel settore pubblico che in quello privato – per tutto il 2010; aumento dell'iva (dal 19% al 21%) 1,3; altri aumenti fiscali 1,1 (carburanti: 3 centesimi in più al litro per il diesel, 8 per la benzina, incremento del 20% del prelievo sull'alcool e del 63% sul tabacco). Viene introdotta anche un'aliquota del 45% sui redditi superiori ai 100mila euro l'anno che si aggiunge a quella al 40% che scatta per i redditi superiori ai 75mila euro. E un'imposta del 2% per tre anni sui patrimoni superiori ai 5milioni di euro. Per finire, gli investimenti sono ridotti dello 0,7%.

Insomma per rimpinguare il più rapidamente possibile le casse dello stato si dà una stangata senza precedenti a quella classe media – diventata negli anni la base del Pasok – che negli ultimi tempi, grazie all'accesso facile al credito raggiunto dopo l'ingresso nell'euro, ha visto crescere il proprio standard di vita.

Ma l'austerità fai da te non basta. Nei primi tre mesi del 2010 i leader europei, mentre dichiarano necessaria un'azione coordinata, non riescono a produrre alcun piano concreto per aiutare Atene e assicurare la stabilità finanziaria dell'eurozona. Il 23 aprile il governo Papandreou chiede formalmente il soccorso dell'Ue e del Fmi. Quattro giorni dopo, Standard and Poor's dichiara BB+, cioè "spazzatura", i bond greci. Il tasso d'interesse di quelli a scadenza quinquennale raggiunge il 10,6%. Il ministro delle finanze Giorgos Papacostantinou annuncia che il paese non può più finanziarsi sui mercati.

Finalmente arriva la risposta dell'Europa. Il 2 maggio 2010, domenica, il governo si riunisce d'urgenza per conoscere i termini del "bailout", il cosiddetto "salvataggio", un prestito da 110 miliardi di euro (in tre anni) offerto dalla Banca centrale europea (Bce) e dal Fondo monetario internazionale per evitare il fallimento immediato della Penisola balcanica. Papacostantinou, spiega laconicamente perché il piano è stato accettato: "La scelta era tra il collasso e il salvataggio".

Chi poteva immaginare che, undici anni dopo la sua entrata in circolazione, un paese della moneta comune avrebbe avuto bisogno di un piano di salvataggio finanziario? Eppure l'Unione europea ha appena varato il più ambizioso progetto di soccorso per un paese membro e dell'area euro.

Il giorno successivo viene pubblicato il Memorandum sulle politiche economiche e finanziarie, un documento di 23 pagine che elenca gli obiettivi che la Grecia deve raggiungere e a cui è condizionato l'ottenimento del prestito Bce/Fmi.

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SANGUE SULLA RIVOLTA

"Kleftes, kleftes!" (ladri, ladri!) e, ancora: "Bruciamo il parlamento-bordello!". Il 5 maggio 2010 ad Atene è passata da poco l'una quando migliaia di manifestanti assediano la Camera scandendo insulti contro l'intera classe politica. Negli stessi minuti su via Stadiou, a qualche centinaio di metri dalla sede del Parlamento in piazza Syntagma, l'attacco a suon di molotov contro la banca Marfin Egnatia provoca un incendio in cui restano uccisi tre dipendenti della filiale e che fa calare un'ombra tetra sul movimento sceso in campo contro la politica di "lacrime e sangue" sottoscritta dal governo.

Secondo la ricostruzione delle forze dell'ordine, è un ragazzo col volto coperto da un passamontagna a lanciare – dopo averne distrutto la vetrata con una pala – una bottiglia incendiaria nell'agenzia di credito dove sono al lavoro una ventina di persone. Le fiamme si sviluppano rapidamente (i vigili del fuoco arrivano comunque tardi, a causa degli scontri che bloccano l'area) e mentre la maggior parte degli impiegati riesce a scappare all'ultimo piano del palazzo, due donne – di cui una al quarto mese di gravidanza – e un uomo non ce la fanno. Uno dei cadaveri viene ritrovato interamente carbonizzato. Tutte e tre le vittime muoiono asfissiate dal fumo sprigionato da mobili e pavimento bruciati.

"Una manifestazione è una cosa, l'omicidio è un'altra" tuona Papandreou. "È ora di difendere il paese e la democrazia" aggiunge il primo ministro avvertendo che "nessuno deve giocare con il futuro del paese".

Lo shock per le tre vittime innocenti, in Grecia e nel mondo, è grande. Ma torniamo al racconto delle ore precedenti quelle morti, perché il dato politico del 5 maggio 2010 non può essere annullato dal lutto. La manifestazione è gigantesca, nessuno ricorda un corteo così affollato negli ultimi decenni. È tutta la sinistra a mobilitarsi in occasione dell'ennesimo sciopero generale indetto dalle due confederazioni sindacali Adedy (settore pubblico) e Gsee (privato). Il corteo si muove a mezzogiorno, subito dopo la conclusione di quello del Kke, il partito comunista che sfila da solo, per riaffermare la propria purezza ideologica ma anche per evitare infiltrazioni da parte degli anarchici, sempre pronti a menar le mani e distruggere uffici e negozi. Quelli del Kke diffondono cifre che parlano di centomila manifestanti. Forse esagerate, ma comunque a marciare sotto gli striscioni pieni di falci e martello ci sono decine di migliaia di persone. "È la risposta popolare alla brutalità del capitale" sintetizza in prima pagina Rizospastis, il quotidiano del partito.

Lo sciopero paralizza tutta la Grecia e altre grandi manifestazioni si svolgono anche a Salonicco e Patrasso. Ma è dal Politecnico di Atene che parte la marcia tanto attesa da politici e mercati, ansiosi d'interpretare l'umore della piazza in vista dell'approvazione delle ultime "misure di austerità". Una manifestazione piena di rabbia, come gli slogan gridati e i cartelli agitati dalla folla. Su uno striscione blu il cerchio di stelle dell'Unione europea ha cambiato forma, assumendo quello di una croce uncinata. Tanti cori equiparano al fascismo la tutela posta sulla penisola balcanica dal prestito di 110 miliardi di euro contrattato da Papandreou con l'Ue e il Fmi. "Noi lavoratori siamo furiosi, perché pagheremo al posto dei banchieri" dice Kostas Tsiviltidis. Il suo stipendio da dipendente del dimos (distretto) di Kallitea dopo l'approvazione del "piano d'austerità" passerà da 1500 a 1200 euro al mese, e il suo potere d'acquisto sarà ulteriormente ridotto dall'aumento dell'iva al 23% e delle tasse su carburanti, alcolici e sigarette.

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TROIKA EX MACHINA

Che tipo di rapporto s'instaura tra la troika e l'esecutivo greco? Possiamo aiutarci a capirlo sfogliando le pagine di Katemerini, che nell'edizione del 7 febbraio 2011 titola: "La troika ispeziona le finanze greche". Il quotidiano conservatore rende conto di una delle visite che i funzionari di Bce, Commissione Ue e Fmi compiono periodicamente per controllare l'applicazione del memorandum, ín questo caso alla vigilia della concessione della quarta tranche (15 miliardi di euro) del prestito da 110 miliardi. Secondo i funzionari, racconta Katemerini, "il paese è sulla giusta strada con le riforme per rivitalizzare l'economia ma ha bisogno di varare nuove leggi senza esitazione". "I funzionari hanno effettuato ispezioni in diversi ministeri chiave e passato al setaccio dati". E ancora "la temuta richiesta da parte della troika di tagliare tredicesime e quattordicesime – due stipendi supplementari ricevuti dalla maggior parte dei dipendenti pubblici e privati – non è arrivata, perché l'argomento ieri non è stato discusso nei dettagli". "I funzionari hanno pressato i funzionari del ministero del lavoro per la creazione di contratti di lavoro di tipo in house". Qualche giorno dopo, annunciando la concessione della quarta tranche del prestito, è il rappresentante della Commissione europea Servaas Deroose, da Atene, a tracciare il percorso che il governo greco deve seguire: bisogna vendere, entro il 2015, risorse dello stato per un valore di 50 miliardi di euro. Dopo due settimane di accertamenti, Deroose dichiara che l'esecutivo di Papandreou deve aumentare le entrate da privatizzazioni, inizialmente previste a 7 miliardi entro il 2013. Il suo ragionamento è ineccepibile: "Le privatizzazioni riducono il debito e nello stesso tempo aumentano l'efficienza dell'economia". Nel memorandum sottoscritto dall'esecutivo c'è scritto che sono 7 i miliardi da ricavare dalle privatizzazioni? "Il governo greco è molto fiducioso che questa cifra (50 miliardi) sia raggiungibile" sentenzia Deroose, che abbozza anche un calendario – i primi 15 miliardi devono essere raccolti tra il 2011 e il 2012 – e lascia a Papandreou e compagni l'onore di redigere il resto dell'agenda. I funzionari della troika alloggiano nel lussuoso Hotel Grande Bretagne, lo storico edificio che prima di loro ha ospitato capi di Stato e di governo di tutto il mondo. A due passi dall'albergo, decine di poliziotti in assetto antisommossa presidiano piazza Syntagma mentre gli euzoni, in gonna corta e pon pon, fanno avanti e indietro, dal Palazzo al monumento al milite ignoto, per il cambio della guardia davanti a un parlamento dall'aspetto decadente, in un'atmosfera resa ancora più surreale dalla tardiva impennata d'orgoglio di "Giorgaki" e compagni.

La reazione del governo greco è indignata: "Il comportamento dei rappresentanti della Commissione Ue, della Bce e del Fmi durante la conferenza stampa di venerdì è inaccettabile – protesta con un comunicato il portavoce dell'esecutivo Giorgos Petalotis –. Abbiamo chiesto il loro aiuto e in cambio abbiamo mantenuto alla lettera tutti i nostri impegni". "Tuttavia non abbiamo domandato a nessuno di intervenire negli affari interni del nostro paese. Ognuno deve essere consapevole del proprio ruolo, lo chiariremo ai nostri partner". "Abbiamo dei bisogni ma anche dei limiti. Non siamo disponibili a negoziare i limiti del nostro auto-rispetto con nessuno. Noi accettiamo ordini soltanto dal popolo greco".

L'"austerità" genera una profonda depressione: 2009, 2010 e 2011 sono anni di crescita negativa: -2,3%, -4% e -3% (previsione). E i ricchi ritirano i soldi dagli istituti di credito: trenta miliardi di euro lasciano le banche elleniche nel 2010. Parallelamente a quella dei capitali si mette in moto la fuga dei cervelli e il paese torna a essere terra di emigrazione, come negli anni '50 e '60 del secolo scorso, quando in migliaia cercarono lavoro negli Stati Uniti, in Australia e negli Stati europei più ricchi. Un sondaggio realizzato nel settembre 2010 per il quotidiano Vima rivela che sette laureati su dieci vorrebbero espatriare e quattro su dieci stanno cercando attivamente di farlo.

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"CONOSCI IL TUO DEBITO!"

Al vertice del 12 marzo 2011, l'Eurogruppo decide la riduzione (dal 5,2% al 4,2%) dei tassi d'interesse e l'allungamento delle scadenze, da 5 a 7 anni e mezzo, del prestito alla Grecia. Papandreou rientra ad Atene dopo aver incassato una riduzione di 6 miliardi di euro, ma lo spettro della ristrutturazione del debito è solo momentaneamente allontanato. E, soprattutto, in cambio dello "sconto", la Grecia ha dovuto impegnarsi a mettere in atto un piano di privatizzazioni da 50 miliardi.

Mentre Atene resta schiava dei suoi creditori, c'è chi avanza la proposta d'istituire una commissione pubblica, indipendente, per analizzare finalmente questo debito, per fare luce sul mostro che ha "costretto" Papandreou ad accettare il piano di salvataggio. L'idea è stata lanciata nel marzo 2011 da centinaia tra sindacalisti, accademici e politici greci.

Il 1 marzo 2011, durante un'audizione alla Camera dei comuni, il governatore della Banca d'Inghilterra non aveva usato mezzi termini: "Il prezzo di questa crisi finanziaria lo stanno pagando le persone che assolutamente non l'hanno causata". Secondo Mervyn King la gente che è rimasta disoccupata o ha visto ridursi stipendi, pensioni e servizi sociali ha tutte le ragioni di protestare: "Sono sorpreso che il livello di rabbia non sia stato superiore a quello che si è manifestato finora". Riprendersi la propria economia, questa è l'idea che sta alla base dell'appello che vede tra i primi firmatari l'ex ministro laburista Tony Benn, il filosofo Noam Chomsky e il regista Ken Loach: permettere alla gente comune di capire da dove viene il debito. Per i promotori dell'iniziativa è un problema di democrazia: "Il popolo greco è stato tenuto all'oscuro della composizione e i termini del debito pubblico. La mancanza d'informazione rappresenta un fallimento fondamentale del processo democratico. La gente che è chiamata a pagare i costi dei programmi dell'Ue ha un diritto democratico di ricevere un'informazione completa sul debito pubblico".

I problemi della Grecia sono strutturali, quelli di un'economia debole che, dopo l'ingresso nell'euro, non ha più alcun controllo sui tassi d'interesse o sul tasso di cambio. L'economia ricorre quindi al credito e le banche e gli investitori europei ne ricavano profitti. Gli istituti di credito europei (tedeschi, francesi e britannici soprattutto) hanno prestato alla Grecia circa 80 miliardi di euro.

Finito il periodo di vacche grasse, le banche si sono rese conto di rischiare di non essere ripagate. A quel punto sono entrati in scena l'Ue e il Fmi, che coi loro pacchetti di salvataggio assicurano che le banche vengano ripagate, facendo ricadere il pagamento del debito sulle spalle delle classi più deboli, le più colpite dalle misure di austerità.

Ma, ricordano i firmatari dell'appello, nel 2007 il presidente dell'Ecuador Correa istituì una commissione di questo tipo. Dopo un anno di lavoro, quell'organismo stabilì che il debito pubblico aveva causato "danni incalcolabili" alla popolazione e all'ambiente del paese latinoamericano. La commissione incoraggiò Correa a intraprendere un "default pilotato", di quei bond che erano stati contratti "illegalmente", un'operazione che risultò nel risparmio netto di una parte del debito.

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ALLA RADICE DELLE SCELTE CLASSISTE DEL GOVERNO

Dal sogno incompiuto alla crisi permanente

intervista a Giorgos Margaritis

Dopo la dittatura, la guerra civile, il regime dei colonnelli e l'orgia consumistica degli anni '90, all'inizio del XXI secolo la Grecia sembra di nuovo a un punto di svolta. Che cosa rappresentano e come si inseriscono nel quadro della turbolenta storia del paese la crisi economica e le misure di austerità?

La storia dei paesi è solitamente la storia delle classi sociali e dei gruppi che li governano. La storia, cioè, degli strati sociali che dominano la scena politica e formano la politica e le scelte del paese. Arriviamo così alla grande questione del capitalismo greco, delle sue caratteristiche e, di conseguenza, alla qualità delle sue visioni, delle sue aspirazioni e delle scelte politiche con cui ha voluto realizzare i propri disegni.

Nella breve storia dello Stato greco (dal 1830 fino ad oggi) l'edificazione capitalista è stata sempre problematica. Fino al 1922 – anno della «distruzione dell'Asia Minore» — il capitalismo greco si sviluppò fondamentalmente fuori dai confini del paese: in Asia Minore, Smirne, Costantinopoli, nei paesi danubiani, nel sud della Russia, in Egitto. Crebbe inoltre ai margini della penetrazione imperialista delle potenze europee di quell'epoca, nello spazio del Vicino Oriente, rappresentando qualcosa come un complemento di queste ultime. Aveva allora grandi piani: la «Magna Grecia», cioè l'edificazione di un Impero greco al posto di quello ottomano, ma anche ai danni di tutti gli altri paesi vicini.

La Prima Guerra Mondiale e i cambiamenti che provocò – fine degli imperi ottomano e russo – diedero un duro colpo a questo primo capitalismo "coloniale" greco, nella stessa misura in cui provocarono l'espatrio e la concentrazione in Grecia di circa 1.500.000 profughi. I grandi sogni rimasero sogni e il capitalismo greco fu obbligato a ricominciare la propria costruzione all'interno del paese dove, per la prima volta nella storia, si trovavano concentrati quasi tutti i greci.

Questa storia "fondativa" delle classi dominanti greche lasciò dietro di sé delle memorie traumatiche. Dietro l'ideologia "nazionale" dominante si trova l'idea dell'"ingiustizia storica". I greci – qui bisogna leggere il capitalismo greco – consideravano se stessi degni di un impero, come quello di Bisanzio o almeno quello di Alessandro Magno. Ma quello che rimase, alla fine, fu la piccolissima Grecia. Questo trauma ideologico può spiegare le scelte "faraoniche" dei governi odierni – come l'organizzazione dei Giochi olimpici del 2004 che hanno contribuito in maniera decisiva al deragliamento del debito pubblico del paese o, se vogliamo, la pratica del primo ministro greco, Giorgos Papandreou, che distribuisce equamente il proprio tempo e la propria attività tra la salvezza della Grecia e quella dell'Europa o del mondo intero (come presidente dell'Internazionale Socialista dei Ben Alì e Mubarak).

In questo senso la Grecia degli ultimi 90 anni si trova permanentemente in crisi. La crisi del "sogno incompiuto" nell'area ideologica ma anche quella, molto più reale, provocata dal tentativo di costruire un capitalismo locale in condizioni di "saturazione", e cioè in uno spazio dominato dagli interessi contrastanti delle grandi potenze europee o delle forze iperatlantiche. Il capitalismo greco, sempre debole e insicuro, ha usato in maniera intensa lo Stato per ottenere la spinta necessaria per la propria ascesa e accumulazione di capitali. Lo ha usato in modo repressivo – per intensificare lo sfruttamento del lavoro locale – lo ha usato dal punto di vista finanziario per impadronirsi, attraverso i propri meccanismi, di quanto possedevano gli strati operai o contadini. Per esempio, di quanto hanno conquistato con la propria fatica le centinaia di migliaia di operai emigrati in Germania dal 1960 fino al 1980 circa.

Questo nostro passato recente ci spiega le caratteristiche della crisi attuale. Il sostegno costante e perfino provocatorio di settori importanti del capitalismo greco (costruzioni, banche, turismo ecc.) da parte dello Stato ha ingrossato il debito pubblico nella stessa misura in cui ha gonfiato gli utili dei vari "gruppi" che operano "classicamente" nell'ambito dei lavori pubblici, dei giornali, dei canali televisivi, dei trasporti, delle forniture dello stato (ospedali, esercito ecc.), delle banche. La soluzione che vedono le élite dominanti per saldare questo debito enorme, insieme agli interessi, si presenta come unica: il saccheggio non solo della retribuzione del lavoro, che porta fino al suo assoluto degrado, ma anche la rapina di tutte le riserve patrimoniali degli strati operai/contadini e della classe borghese medio-bassa. L'intensificazione, cioè, di tutte le pratiche precedenti fino al limite di sopportazione naturale di chi sta sotto. Una crisi che viene presentata come "finanziaria" e "amministrativa", mentre in sostanza è ovviamente una crisi sociale e classista. 



Un amico una volta mi ha detto: i prestiti che abbiamo chiesto alle banche e il consumismo sfrenato degli anni '90 sono giustificati se guardi al nostro passato, quello del secolo scorso in cui abbiamo sofferto così tanto. Crede che questa possa essere una motivazione "psicologica" adatta a spiegare ciò che è successo? Quali sono i principali traumi subiti dei greci nel secolo scorso?

Il ventesimo secolo non è stato facile per i greci, come non lo è stato per i popoli dell'Europa e del mondo. Due guerre mondiali, diversi conflitti, il nazismo, il saccheggio delle colonie da parte delle potenze imperialiste, teratogenesi come l'Olocausto ebraico. I popoli hanno visto di tutto durante il ventesimo secolo. Così anche i greci. Le guerre del 1912-1922, spostamenti terribili di popolazioni miserabili alla fine di questi conflitti (1.500.000 arrivarono, circa 600.000 se ne andarono dalla povera Grecia), il duro periodo tra le due guerre pieno di povertà, tifo, malaria, tubercolosi, la guerra del 1940-1944, l'occupazione tedesca, italiana e bulgara, la dura lotta della Resistenza, l'invasione britannica nel dicembre del 1944, il "terrore bianco" del 1945-1946, la guerra civile (con 60.000 morti e un milione di profughi all'interno e all'estero). E in seguito lo stato di "emergenza" del 1949-1967, la dittatura militare del periodo 1967-1974, la distruzione di Cipro, l'emigrazione di massa di operai greci in Germania verso i quattro punti cardinali, e molte altre cose.

Detto ciò, supporre che il grande indebitamento degli anni 1990-2010 sia dovuto a una "sindrome di privazione" del popolo greco, a causa della sua storia precedente, è come minimo, mi permetta di dirlo, ridicolo. L'indebitamento degli strati operai e impiegatizi e dei piccoli-medi borghesi durante quel periodo è stato dovuto alla progressiva riduzione del loro reddito. Infatti, dal 1981-1983 quando, di fronte alla paura di un'esplosione sociale, la retribuzione del lavoro è arrivata allo zenith postbellico (come percentuale del prodotto interno lordo, ma anche come reale potere d'acquisto), si osserva una graduale, costante caduta di questa percentuale e della conseguente capacità di consumo di questi strati sociali. Questa caduta è accompagnata da un parallelo aumento dell'indebitamento delle famiglie, nel tentativo di conservare il livello di vita conquistato negli anni precedenti. Questo tentativo naturalmente si è dimostrato senza via di scampo e l'unica cosa avvenuta è stata l'intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori: non era solamente il loro lavoro di per sé che faceva accumulare utili e capitali al capitalismo greco, ma anche l'usura esercitata dalle Banche a cui i lavoratori necessariamente si sono rivolti. È interessante il fatto che nello stesso periodo gli istituiti di credito greci hanno visto moltiplicarsi i propri utili e capitali e, per un certo periodo, hanno potuto espandersi, come concorrenti di istituti europei analoghi nei Balcani o in altri paesi dell'area. Naturalmente non sono andati molto lontano, visto che né i beni da derubare ai lavoratori della Grecia erano infiniti, né il multiforme sostegno delle banche da parte dello stato (circa 100 miliardi di euro in finanziamenti diretti o indiretti negli ultimi anni) potevano rendere i loro indici "concorrenziali" a livello del capitalismo europeo e mondiale. 



La cosiddetta "generazione 700 euro" è stata protagonista della rivolta dopo l'uccisione di Alexandros Grigoropoulos e in parte si è rivista anche durante i grandi cortei sindacali del 2010. Ritiene che i giovani protagonisti dell'incendio del 2008 possano trasformarsi in un nuovo attore politico? Cosa esprimono questi ragazzi con la loro rabbia?

Il riferimento a una "generazione", anche con la qualificazione finanziaria dei 700 o 600 euro, può definire pochissime cose. Molto raramente, nella storia, i movimenti politici o sociali sono legati all'età. La definizione di classe è probabilmente uno strumento migliore per analizzare ciò che succede.

Infatti, nel dicembre del 2008 abbiamo avuto una rivolta, seria per la sua estensione e di cui sono stati protagonisti gli studenti delle scuole medie o gli studenti universitari, all'origine della quale c'era l'ira diffusa per l'assassinio "a sangue freddo" dello studente di scuola media Alexandros Grigoropoulos da parte di un poliziotto nella zona "infiammabile" di Exarchia, ad Atene. Ci sono state grandi manifestazioni, scontri davanti ai distretti di polizia e anche per le strade di Atene e di quasi tutte le città del paese. Gli sconvolgimenti durarono quasi un mese, fino a Natale. Durante le manifestazioni hanno avuto luogo distruzioni molto estese, incendi di negozi, soprattutto ad Atene e Salonicco, e sono state danneggiate anche le università.

Su quale sia stato il risultato politico e sociale di queste agitazioni rabbiose potremmo discutere per molte ore. Allora era al governo Nuova democrazia, il partito della destra conservatrice. Pochi mesi più tardi si sono svolte le elezioni, vinte dal "socialista" Pasok. Quest'ultimo si è assunto la responsibilità di applicare le politiche di "austerità", l'attacco più forte mai subito dalla classe operaia e dagli strati popolari nel paese durante tutta la sua storia.

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DINAMICHE SOCIALI E MOVIMENTO DI MASSA

Ricostruire l'egemonia, il compito della sinistra unita

Le idee di Alexis Tsipras

Onorevole Tsipras, lei è dal 2009 alla guida del gruppo parlamentare di Syriza, la coalizione della sinistra radicale in prima linea nella lotta contro i sacrifici imposti ai più deboli per "evitare la bancarotta" dello Stato. Perché la crisi ha colpito così duramente proprio la Grecia. Come giudica la politica messa in atto dal governo Papandreou per contrastarne gli effetti?

Dalla metà degli anni '90 la Grecia ha vissuto un suo sviluppo economico. E val la pena di ricordare subito che i paesi dominanti all'interno dell'Unione europea e i mercati hanno espresso soltanto elogio e apprezzamento per le scelte dei governi greci di quel periodo. Esecutivi che perseguivano una politica che accumulava profitti e sgravi fiscali per il capitale, privatizzava la ricchezza nazionale, demoliva i diritti dei lavoratori e aumentava la disoccupazione e la povertà. L'asse portante dell'economia greca era costituito dal consumo, un'impostazione che certamente conveniva alle economie forti dell'Europa, come la Germania e la Francia. In cambio dei vantaggi che ottenevano (soprattutto l'accesso "privilegiato al mercato greco per esportazioni e investimenti, ndr), i grandi paesi dell'Unione Europea permettevano alla Grecia di "cucinare" í suoi dati economici, specialmente quelli che riguardavano il debito pubblico e il deficit.

Con la crisi economica questo "asilo" è finito. E il nocciolo duro dell'Unione Europea ha preteso da Atene una maggiore disciplina. Il governo greco formato dopo le elezioni del 4 ottobre 2009 ha ammesso le sue colpe e ha dichiarato la sua disponibilità ad applicare qualsiasi misura gli venisse richiesta, senza negoziare niente con í suoi partner. Ma queste circostanze, invece di calmare la situazione, hanno alimentato un attacco speculativo senza precedenti contro i buoni del tesoro greci, e ridotto il Paese nell'impossibilità di raccogliere prestiti sul mercato. Così siamo arrivati a dover chiedere il soccorso del Fondo monetario internazionale (Fmi).

In questo modo la Grecia è stata trasformata in una cavia, da cui si pretende la demolizione completa del proprio contratto sociale. In cambio di un prestito di 110 miliardi di euro, vengono aboliti íl sistema assicurativo, le leggi che proteggono il lavoro, mentre si consegna nelle mani dei privati l'insieme della ricchezza pubblica. Il risultato di questo esperimento sarà trasferito presto al resto d'Europa, visto che ogni giorno aumenta il numero dei paesi che hanno difficoltà a reperire prestiti sui mercati.

Se il governo greco avesse voluto affrontare davvero la crisi, avrebbe dovuto trattare in maniera molto ferma, dal principio. Un possibile fallimento della Grecia avrebbe creato problemi a catena in tutta Europa: si sarebbe potuto quindi costringere l'Unione Europea ad appoggiare l'economia greca contro gli attacchi speculativi. Si sarebbe potuto affrontare il problema del deficit tassando il capitale e le banche. Di soluzioni se ne sarebbero potute escogitare, tuttavia il governo "socialista" greco non ha difeso gli interessi del paese. Al contrario, ha funzionato come rappresentante dei mercati e in seguito come mandatario del Fmi e di Bruxelles.

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ALLA RICERCA DELL'IDENTITÀ PERDUTA

Il ritorno della povertà e la "doppia origine" dei greci

un caffè con Vassilis Vassilikos

Con l'ingresso nell'Unione europea, i greci pensavano di aver guadagnato definitivamente il loro posto tra "i grandi". L'accesso nel club della moneta unica era stato salutato da un incredibile entusiasmo popolare. Dieci anni dopo quell'evento, con le "misure di austerità" e la recessione la popolazione rivede lo spettro della povertà. Come vede i suoi connazionali al tempo della crisi dal suo osservatorio di scrittore?

Riportandoci indietro, questa crisi ci dà la possibilità di interrogarci su chi siamo realmente. La Grecia ha una doppia identità: è per metà occidentale, mentre l'altra metà ha profonde radici a oriente, legami che non derivano soltanto dalla dominazione ottomana ma anche dall'eredità dei rifugiati del 1914, arrivati da Tracia, Macedonia, Anatolia, Romilia. L'identità anatolica rappresenta la Grecia povera, quella europea la più ricca. Lidentità orientale corrisponde a una Grecia paziente, abituata a disporre di pochi beni, che crede in parte al kismet (in lingua turca, il destino fissato da Dio per gli uomini, ndr) e che è essenzialmente agricola. L'identità occidentale del paese, quella che oggi si può definire "europea", corrisponde alla Magna Grecia della diaspora degli anni di splendore, ed è anche quella che ha approfittato dell'adesione all'Unione europea, ad esempio con i pacchetti Delors, beneficiando di una ricchezza inattesa che ne ha alterato la dimensione di autosufficienza agricola. Queste due identità non si sono mai riconciliate. Oggi í cittadini vengono costretti in maniera brutale a ritornare a un livello pre-europeo. Per persone come me questo fatto non rappresenta un problema particolare. Ma i giovani ignorano come eravamo nel passato. Per loro guadagnare 700 euro al mese, o anche 500 invece dei 900 che speravano, è una marcia indietro che li lascia perplessi. Non conoscendo il passato dei loro nonni e bisnonni, si sentono vittime dell'attuale sistema politico. E hanno ragione. Impossibile risalire il pendio. Nessuna speranza per il futuro, sono pochissimi quelli che si preparano per l'agriturismo. 



Lei si è battuto per la democrazia contro il regime dei colonnelli, ha raccontato casi clamorosi di corruzione come quello di Giorgio Koskotàs (la cui storia è narrata in "K, l'orgia del denaro"). Oggi vengono a galla nuovi grandi scandali – l'affaire Vatopedi, i finanziamenti illeciti della Siemens ai partiti – mentre lo scontro politico, sul memorandum come sull'immigrazione, si radicalizza. Davvero i politici greci – come è stato raccontato dai media, in maniera a tratti caricaturale – sono incapaci di governare?

La corruzione è un elemento comune a molti paesi, ma il problema del sistema politico greco è che, negli ultimi 50 anni, è stato limitato a due famiglie, Karamanlis e Papandreou. I primi esponenti di queste due dinastie politiche erano già in auge quando c'era ancora il re. I greci si chiedono: ma allora qual è la differenza tra monarchia e democrazia? Senz'altro viviamo in un regime democratico, ma tutti noi avremmo desiderato anche un ricambio nei nomi dei governanti. Quando avevo 18 anni ascoltavo alla radio Karamanlis e Papandreou, ho superato i 70 ma sento ancora gli stessi cognomi. Ci sono state solo due parentesi: i sette anni di dittatura militare e il settennato di Costas Simitis. Certo in uno stato unitario come il nostro, che nella sua storia relativamente breve ha sperimentato guerre, guerre civili, colpi di stato, il fatto che dal 1974 a oggi la Grecia ha vissuto un periodo ininterrotto di pace rappresenta indubbiamente una vittoria. Ma mentre anche i serpenti cambiano pelle, questa democrazia non si rinnova mai. E questo elemento è alla base del distacco della gente dalla politica. 



In quello che è considerato il suo capolavoro – "Z, l'orgia del potere" – lei descrive la violenza programmata da apparati dello Stato contro Grigoris Lambrakis (il deputato dell'Eda assassinato a Salonicco nel maggio del 1963) e contro i comunisti. Oggi il Partito comunista (Kke) è accusato di fomentare le violenze con la sua propaganda anti-stato borghese e gli scontri sono all'ordine del giorno nei cortei della sinistra.

A mio avviso in Grecia non c'è più una sinistra, ma quattro versioni diverse di sinistra. Il partito comunista ortodosso (il Kke, ndr) non ha capito che non esiste più l'unione sovietica e insiste a sostenere che l'Urss rappresenta il suo modello. Ma almeno ha un linguaggio chiaro, sa di cosa parla. Gli altri partiti invece ignorano il significato stesso delle loro proposte politiche. Io sostengo la Sinistra democratica di Kouvelis, che non è ancora entrata in Parlamento ma che ha ottenuto un buon successo alle elezioni municipali del novembre 2010, riuscendo a far eleggere suoi sindaci ad Atene e Salonicco. 



Nel 2010 sono state uccise quattro persone: tre impiegati di una banca asfissiati dall'incendio causato da una molotov lanciata da un manifestante e un funzionario ministeriale colpito da un pacco bomba esploso nel suo ufficio e indirizzato al ministro dell'interno.

Tutta questa vicenda va inquadrata in un contesto più generale: è cominciata con l'omicidio di Alexandros Grigoropoulos (lo studente quindicenne ucciso ad Atene da un poliziotto nel dicembre del 2008). Se due mesi dopo l'assassinio di Carlo Giuliani a Genova nel 2001 non ci fosse stato l'attentato dell'11 settembre, la morte di quel ragazzo avrebbe contribuito a fare del movimento anti-globalizzazione il primo partito mondiale della sinistra. L'uccisione di Grigoropoulos ha fatto scendere in strada quindicenni, sedicenni, tantissimi ragazzini delle scuole superiori. Era la prima volta che si verificava un fenomeno simile. Ma le cose stanno cambiando: siamo passati all'elettronica, ai pacchi-bomba. Ora i grandi scontri di piazza, con gli extra parlamentari che affrontano la polizia, rappresentano un fenomeno più limitato. Mentre è incominciata questa violenza peggiore, invisibile, con gli autori che rimangono nell'ombra. Io ho vissuto in Italia durante il periodo delle Brigate rosse, che erano una cosa ben organizzata. E mi conforta la consapevolezza che i brigatísti sono impossibili da imitare qui, perché i greci sono incapaci di organizzarsi. Vede, in questa caffetteria il fumo ufficialmente è proibito, ma eccomi qui ad espirare tranquillamente dalla mia pipa. Nessuno mi dirà nulla. Questa è la Grecia.

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