Civiltà Occidentale
Un'apologia contro la barbarie che viene
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli


Edizioni Il Canneto, Genova 2009



Civiltà occidentale come critica all'Occidente
Intervista di Felice Fortunaci a Marino Badiale e Massimo Bontempelli


Civiltà occidentale, un’apologia contro la barbarie che viene
Recensione di Antonio Grego


http://www.megachipdue.info
Venerdì 28 Gennaio 2011 23:45

Civiltà occidentale come critica all'Occidente
Intervista di Felice Fortunaci a Marino Badiale e Massimo Bontempelli

Una della tesi fondamentali del vostro libro è quella che riguarda la distinzione fra “Occidente” e “civiltà occidentale”. Potreste chiarirla?

Questa è in effetti la prima delle due tesi fondamentali del libro. Si tratta di una distinzione che è secondo noi necessaria per fare chiarezza nelle discussioni oggi frequenti, e piuttosto confuse, su questi temi. Per quanto riguarda la nozione di “Occidente”, la nostra tesi si può pensare come una critica della nozione comunemente diffusa.

Quest’ultima è ben compendiata dal sottotitolo di un libro pubblicato da Laterza (ma si potrebbero fare molti altri esempi): “Mondi in guerra”, di Anthony Pagden. Il sottotitolo recita “2500 anni di conflitto fra Oriente e Occidente”. Perché una simile espressione abbia senso, occorre pensare che vi sia una entità, chiamata “Occidente”, che esiste appunto da 2500 anni, e che questa entità, pur avendo magari subito un’evoluzione, sia identificabile lungo tutto questo arco di tempo, e vi sia una continuità nella sua evoluzione. Bene, noi sosteniamo che questa entità non esiste nella storia, ma è una costruzione ideologica. Nello spazio geografico, politico e culturale che viene usualmente chiamato “Occidente” si sono succedute civiltà essenzialmente diverse fra loro, come la Grecia classica, l’Europa di Carlo Magno, la civiltà borghese moderna. Queste diverse civiltà hanno ovviamente alcune radici culturali in comune, ma differiscono radicalmente per quanto riguarda l’economia, l’organizzazione sociale, le istituzioni, le impostazioni culturali, le mentalità, e così via. La nozione di “Occidente” oscura queste differenze e impedisce di capire la specificità di queste diverse civiltà.

Questo per quanto riguarda la nozione di “Occidente”. E per quanto riguarda quella di “civiltà occidentale”?

Nell’ambito della vasta storia racchiusa nella categoria di “Occidente” c’è un nucleo più ristretto di principi che rivelano una forza civilizzatrice specifica, e in linea di principio unitaria. Si tratta dei principi teorici del razionalismo moderno, dell’Illuminismo, dello storicismo romantico, che si concretizzano a partire dalla rivoluzione francese e dalla formazione dei moderni Stati-nazione. Abbiamo chiamato “civiltà occidentale” questo nucleo di principi. Tale civiltà rappresento in sostanza il prodotto della borghesia intellettuale del Settecento e dell’Ottocento. Si tratta di una civiltà di nascita recente: le idee dell’Illuminismo vengono elaborate (certo raccogliendo una grande massa di stimoli culturali precedenti) nel corso del XVIII secolo, e iniziano a trovare realizzazione pratica, come s’è detto, con la rivoluzione francese. Di questa civiltà nel libro vengono individuati e studiati i cinque “pilastri”: la nozione di diritti dell’uomo, la nozione di libertà, la razionalità, lo Stato-nazione, il progresso.

Si potrebbe dire che voi indicate con “civiltà occidentale” il lato positivo della modernità, e con “Occidente “ quello negativo?

Non del tutto. “Occidente” per noi è una costruzione ideologica che non indica una realtà effettiva, la cui storia correrebbe lungo 2500 anni. Se lo si intende in questo senso, l’Occidente non è né buono né cattivo, semplicemente non esiste. Buono o cattivo, al più, è l’uso che di tale nozione viene fatto nella “battaglia delle idee”. Per quanto riguarda la civiltà occidentale, che è invece una realtà storica effettiva, essa ha indubbiamente introdotto una serie di principi che riteniamo positivi: il principio del libero sviluppo dell’individuo, la garanzia della libertà individuale contro gli abusi del potere, la razionalità dialogica come libero confronto degli argomenti di fronte all’opinione pubblica, il rispetto dei diritti dei popoli. D’altra parte questi stessi principi di civiltà presentano profonde contraddizioni interne, ben individuate nel loro sorgere dalla critica di Hegel, e poi di Marx. In sostanza, il carattere puramente formale della libertà borghese la rende compatibile con nuove forme di non libertà. Il problema individuato da Hegel (e in forme diverse da Marx) , cioè il problema di dare alle libertà individuali una fondazione teorica e sociale diversa da quella liberale e borghese, non è stato risolto, e le contraddizioni non risolte della civiltà occidentale hanno portato alla sua attuale crisi.

Questa crisi è la seconda tesi fondamentale del libro.

Sì, nell’ultima parte del libro cerchiamo di mostrare come sia in atto un processo di dissoluzione dei cinque “pilastri” della civiltà occidentale.

Potete fare qualche esempio?

Le libertà individuali fondamentali sono chiaramente sotto attacco almeno a partire dall’11 settembre. In tutti i paesi occidentali sono state introdotte innovazioni legislative (dal Patriot Act statunitense alla decisione-quadro dell’Unione Europea sul terrorismo internazionale, recepita dalla legge italiana) che, in modi diversi, incidono sulle difese della libertà individuale, rendendo possibili per esempio gravi violazioni dell’habeas corpus, uno dei principi fondamentali della civiltà occidentale.

Si potrebbe obbiettare che cose di questo tipo sono sempre successe, i ceti dominanti hanno sempre tralasciato i diritti individuali quando era messo in questione il loro dominio.

Certamente, e l’esempio più ovvio è quello del fascismo. Il punto è che questi fenomeni in passato avevano sempre suscitato, nella civiltà occidentale, reazioni e controforze. Fascismo e nazismo nascono all’interno della civiltà occidentale, a partire dalle sue contraddizioni non risolte, e danno a tali contraddizioni una risposta che rappresenta una negazione della civiltà occidentale stessa. Ma all’interno di tale civiltà nascono anche le forze che si oppongono a fascismo e nazismo, che ingaggiano con essi una lotta durissima e li sconfiggono. Ciò che è oggi caratteristico sta nel fatto che le tendenze che noi abbiamo individuato non suscitano reazioni, se non di piccole minoranze. Un intellettuale liberal come Alan Dershowitz può arrivare a teorizzare la tortura senza che questo susciti grosse ripulse.

E per quanto riguarda gli altri “pilastri”?

Il degrado del pubblico dibattito e della razionalità pubblica sono fatti evidenti, come l’incrinarsi della fiducia nel progresso, mentre la crisi dello Stato-nazione è un luogo comune da decenni. Si tratta di processi connessi, perché connesse sono le nozioni corrispondenti nel complesso della civiltà occidentale. La libertà individuale comporta la dissoluzione dei legami comunitari tipici delle società premoderne, così come il rifiuto della gestione della società lungo i canali delle tradizioni. Ma questo individuo libero di autodeterminarsi ha comunque bisogno di un riferimento comunitario, che viene trovato nella nazione, la cui memoria viene tramandata fra le generazioni grazie alla nuova istituzione della scuola pubblica nazionale. D’altra parte, se la società non viene più incanalata dalle tradizioni occorre il dibattito dei cittadini per arrivare alle decisioni pubbliche, e il pubblico dibattito ha bisogno della libertà di opinione che viene garantita dalle istituzioni dello Stato-nazione liberale, e della cultura diffusa e della razionalità pubblica la cui diffusione ed estensione rappresenta il compito principale della scuola pubblica. Si tratta come si vede di un complesso di nozioni strettamente collegate, e la loro crisi simultanea nei tempi recenti è appunto indice di una crisi profonda della civiltà occidentale.

Sorgono spontanee due domande: quali sono le cause di questa crisi? Che posizione teorica e politica assumere di fronte ad essa?

Il libro è dedicato a introdurre e argomentare le due tesi fondamentali fin qui discusse, cioè la distinzione fra Occidente e civiltà occidentale e l’idea della dissoluzione della civiltà occidentale. Si tratta di tesi controverse, e abbiamo quindi dedicato molto spazio per argomentarle distesamente.

Se queste due tesi vengono accettate, allora il passo successivo sta naturalmente nel porsi le domande da te formulate.

Nel testo abbiamo iniziato a fornire qualche elemento di risposta, ma si tratta di temi da approfondire. I processi di dissoluzione dei cinque “pilastri” hanno dinamiche e temporalità diverse, ma ci ha molto colpito il fatto che in tempi recenti essi sono confluiti in un unico processo dissolutivo.

Ci sembra che questo sia indice di qualche mutazione profonda del nostro tempo rispetto ai tempi precedenti, e crediamo di rintracciare questa mutazione nell’instaurazione di ciò che abbiamo chiamato “capitalismo assoluto”, cioè nel fatto che la logica capitalistica del profitto si generalizza a tutte le sfere della società. Nella società liberalborghese il rapporto capitalistico è certo dominante rispetto alle altre sfere della società (lo Stato, la scuola, la famiglia e così via), ma le lascia funzionare come tali secondo le loro logiche specifiche. Le domina dall’esterno, per così dire. Così la scuola è certo pensata in modo da essere funzionale alle esigenze dell’economia, ma il rapporto docente/allievo è lasciato alla sua logica, che non è quella del profitto. È questo il dato strutturale che rende possibile la dialettica borghese fra egoismo privato e difesa del bene pubblico, fra bourgeois e citoyen, dialettica che è l’essenza della borghesia.

La novità del “capitalismo assoluto” sta nel fatto che la logica capitalistica del profitto penetra in ogni sfera sociale. Il modo di produzione capitalistico non “domina” la società ma la struttura.

In termini marxisti, si ha una sovrapposizione sempre più perfetta fra modo di produzione e formazione sociale. Ma questa dinamica dissolve la civiltà occidentale, perché essa è la civiltà della libera soggettività autodeterminantesi, mentre nel capitalismo assoluto l’individuo esiste solo come appendice del meccanismo del profitto. D’altra parte questi sviluppi non sono esterni alla civiltà occidentale, ma derivano dai suoi stessi principi, proprio da quel concetto di libertà che implica anche la libertà economica. Ciò che oggi dissolve la civiltà occidentale è un suo figlio legittimo, ed è per questo che tale processo di dissoluzione ci appare non rimediabile.

Per quanto riguarda la posizione teorica e politica da prendere di fronte a questa dissoluzione, come spesso succede è semplice da dire, meno semplice da fare. Si tratta, nientemeno, che di pensare a una nuova sintesi storica (un nuovo pensiero, una nuova organizzazione sociale) nella quale sia possibile salvare quegli aspetti della civiltà occidentale che noi riteniamo abbiano valore universale: appunto i diritti dell’uomo, la libertà individuale, la razionalità pubblica.

Sul piano più strettamente politico, ciò che suggerisce la nostra analisi è che, di fronte alla dissoluzione della civiltà occidentale da parte dei poteri attualmente dominanti, la lotta anticapitalistica potrebbe e dovrebbe assumersi la difesa dei valori liberali conculcati. Si tratterebbe di una “mossa” che aprirebbe possibilità di collegamenti e alleanze significative.

E gli altri due “pilastri”? Lo Stato-nazione, il progresso?

Si tratta in questo caso non di valori universali, ma di forme storiche attraverso le quali si sono concretizzati quei valori prima accennati. L’ideologia del progresso è oggi indifendibile, e gli anticapitalisti devono criticarla e abbandonarla. Quanto allo Stato-nazione, si tratta di una forma di organizzazione della società umana la cui dissoluzione è oggi funzionale al potere distruttivo delle oligarchie finanziarie transnazionali. Oggi soltanto il ritorno alla dimensione della statualità nazionale può fornire un valido punto di appoggio per la lotta anticapitalistica, per cui la difesa dello Stato-nazione è un obiettivo irrinunciabile.

Si assiste oggi a una grande ripresa storica dei paesi di quello che una volta si chiamava il Terzo Mondo. Ritenete che queste discussioni possano interessare quei popoli?

Il nostro discorso è in primo luogo rivolto ai paesi occidentali, perché è in essi che vive la civiltà occidentale, o ciò che ne resta, e salvare quei valori è il loro compito. I popoli del Terzo Mondo hanno in molti casi subito la violenza dei paesi occidentali, e si può capire il fatto che considerino la civiltà occidentale inclusa nel loro rifiuto dell’Occidente. Un dialogo può essere trovato con chi riconosce il valore dei principi cui abbiamo accennato. Se c’è questo riconoscimento, allora la civiltà occidentale non può essere considerata un blocco unitario, e si può impostare quel lavoro comune di creazione di una nuova sintesi storica del quale dicevamo sopra.

All’inizio accennavate all’uso della nozione di “Occidente” nei dibattiti contemporanei. Potete approfondire?

È evidente il fatto che la nozione di un “Occidente” unitario, luogo della libertà che si sviluppa a partire dalla Grecia attraverso il cristianesimo fino alla modernità, e che è sempre contrapposto a un “Oriente” luogo della non libertà, è lo strumento ideologico mobilitato a sostegno delle attuali guerre di aggressione statunitensi. Questo uso ideologico contribuisce allo svuotamento della civiltà occidentale. È chiaro infatti che se i “valori occidentali” sono usati come strumenti per invadere, bombardare, torturare, la naturale resistenza di chi viene invaso, bombardato, torturato, diventerà rifiuto anche di quei valori. L’Occidente così inteso è il peggior nemico della civiltà occidentale. Chi però rifiuta questo “Occidente” spesso a nostro parere commette errori di impostazione: a volte accettando l’immagine di un “Occidente” unitario e semplicemente cambiandone il segno, per cui l’”Occidente” diventa luogo di violenza e dominio, ma rimane l’idea di un “Occidente” che è sempre lo stesso da 2500 anni; altre volte rifiutando i valori della civiltà occidentale in nome di un banale relativismo. Da quanto fin qui detto dovrebbe essere chiaro perché riteniamo sbagliate queste risposte all’uso ideologico della nozione di “Occidente”. Di fronte alla violenza esercitata dall’Occidente in nome dei propri “valori superiori”, la nostra risposta è che tali valori esistono, sono stati elaborati dalla civiltà occidentale, e in nome di essi si possono e si devono condannare le invasioni, i bombardamenti e le torture di cui sono responsabili i paesi occidentali.

 

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8 settembre, 2010

Civiltà occidentale, un’apologia contro la barbarie che viene
Recensione di Antonio Grego

Al centro di questo libro, come è scritto nel risvolto di copertina, è posta la nozione di “civiltà occidentale”, la quale è da tempo immemore oggetto di analisi e dibattiti, acquisendo un peso ‘culturale’ sempre maggiore. Tale nozione è sottoposta, nel libro, ad una lunga disamina di carattere storico e filosofico nella quale Marino Badiale e Massimo Bontempelli fanno sfoggio di vasta erudizione citando decine e decine di volumi, dai classici greci alle più recenti opere di storici e filosofi. I due autori, che già hanno firmato insieme l’interessante saggio politico “La Sinistra Rivelata”, in questo nuovo lavoro si concentrano invece sulla “civiltà occidentale” cercando di darne una definizione da un punto di vista storico e filosofico e illustrando il loro punto di vista. La tesi di fondo del saggio, che viene illustrata già nell’introduzione, è che tale nozione pur se contiene elementi di sfuggevolezza e ambiguità incarna anche un grande anelito ‘ideale’ ed escatologico unito ad una forza propulsiva sconosciuta a tutte le altre forme di civiltà apparse sulla Terra. Tale forma di ‘civiltà’, tuttavia, oggi appare in un drammatico e forse irreversibile declino e tale declino è causato da fattori interni all’Occidente stesso.

La riflessione degli autori trae spunto dalle palesi contraddizioni che il concetto di Occidente, inteso comunemente come sinonimo di “civiltà occidentale”, porta in sé e che, per semplificare, include sia il razzismo suprematista del Ku Klux Klan che l’antirazzismo degli attivisti dei diritti umani, sia il colonialismo della fase imperialistica di fine Ottocento che l’ “autodeterminazione dei popoli” di Wilson, sia il ‘fascismo’ italiano, tedesco, romeno, ecc. che l’antifascismo, sia la nascita dello Stato-nazione all’inizio dell’era moderna che l’attuale disgregazione dello Stato-nazione per opera di entità soprannazionali e localismi, ecc..

Secondo gli autori, quindi “non c’è modo di uscire da questo groviglio di contraddizioni se non riconoscendo fino in fondo che la categoria di Occidente è un’invenzione ideologica, e rendendosi conto che in essa sono stati via via inclusi elementi tra loro eterogenei, appartenenti a percorsi di civilizzazione non soltanto diversi, ma reciprocamente incompatibili” (p. 18).

L’Occidente quindi non è né un luogo geografico né una determinata cultura ma, scrivono Badiale e Bontempelli, un’invenzione categoriale nata nel Settecento per includere tutte le civiltà che si sono succedute in Europa (e, dopo lo sterminio dei nativi, anche le Americhe e l’Australia) dall’antica Grecia fino alla rivoluzione francese, designando l’Occidente come luogo della “Modernità” (p. 20, maiuscolo nell’originale). A questo punto però gli autori si guardano bene dal gettare l’acqua sporca e tentano un’operazione di ‘salvataggio del presunto bambino’ spiegando che c’è “nell’ambito della più vasta storia racchiusa nella categoria di Occidente, un nucleo più ristretto di situazioni che rivelano una forza civilizzatrice specifica rispetto ad altre civiltà, ed in linea di principio unitaria. Tali sono il razionalismo moderno, le idee illuministiche, gli ideali connessi alla rivoluzione francese, la formazione degli Stati-nazione, lo storicismo. In questo nucleo può venire identificata qualcosa come una civiltà occidentale” (ibidem).

La ‘civiltà occidentale’ quindi è a tutti gli effetti il ‘bambino’ dell’Occidente e della Modernità. Nella prima parte del libro gli autori illustrano uno ad uno quali sarebbero i pilastri della ‘civiltà occidentale’: i diritti dell’uomo, la libertà individuale, lo stato-nazione e la memoria storica, la razionalità e il progresso. A questi ‘sacri’ principi si contrappongono le ‘eresie’ nate in seno all’Occidente come reazione ai suddetti pilastri. Ecco quindi che alla libertà individuale e ai diritti dell’uomo si contrappone, secondo gli autori, la bestia del cesarismo. Il cesarismo moderno che ha la sua prima incarnazione in Occidente nell’impero di Napoleone Bonaparte e l’ultima nel Terzo Reich si prefigge l’obiettivo di realizzare una società organica attraverso la forma politica, perciò si configura come un processo di sviluppo che nasce dentro la civiltà occidentale e che progressivamente, con il procedere delle sue ‘reincarnazioni’, ne fuoriesce.

Il metro per misurare di quanto un dato regime politico fuoriesce dalla civiltà occidentale è dato, secondo gli autori, dal rispetto della ‘libertà individuale borghese’ (sic). Interessante è la spiegazione che viene fornita per accordare la preferenza, o meglio la minor demonizzazione nella classifica dei cesarismi, all’Unione Sovietica staliniana rispetto al Terzo Reich hitleriano: “Il Terzo Reich hitleriano è del tutto fuori dalla civiltà occidentale perché manomette fino alle radici le libertà borghesi che le sono coessenziali, e ne è fuori molto di più di quanto non lo sia la stessa Unione Sovietica staliniana, che conserva almeno un legame di principio con l’idea di una società in cui il libero sviluppo di ciascuno sia condizione del libero sviluppo di tutti. Non è certo casuale, infatti, che negli anni Quaranta del Novecento le democrazie occidentali si siano trovate a combattere, alleate dell’Unione Sovietica staliniana, contro l’Europa fascista guidata dal Terzo Reich hitleriano.

L’Italia mussoliniana, in quanto schierata in guerra a fianco del Terzo Reich, si è trovata fuori dalla civiltà occidentale, fra i suoi nemici, e vi è rientrata attraverso la Resistenza antifascista e la Costituzione repubblicana” (p. 43). Se ne deduce quindi che i valori della ‘civiltà occidentale’ cari agli autori coincidono con quelli della democrazia anglo-americana bombardatrice di Dresda ed Hiroshima e che ci si può fregiare del titolo di membri della suddetta ‘civiltà’ in base all’atteggiamento nei confronti del Nazismo che è visto contemporaneamente come estraneo alla civiltà occidentale e allo stesso tempo ‘espressione estrema’ dell’imperialismo occidentale (una simile schizzofrenia di linguaggio è comune ad altri autori di simile formazione, si veda la recensione di C. Mutti al libro di D. Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, apparsa sul n. 3/2007 di Eurasia). Ci si aspetterebbe che una tale netta scelta di campo in favore dell’Occidente sia per lo meno suffragata da una qualche disquisizione di ordine geopolitico o politico-ideologico ed invece, come vedremo, tutto il libro si mantiene su di un piano prettamente storico-filosofico.

Come detto, la civiltà occidentale, secondo gli autori, rappresenta il frutto ‘buono’ dell’Occidente da questo generatasi come risultato di una serie di conquiste progressive, principalmente di ordine filosofico-morale e non sempre necessariamente in maniera consapevole da parte dei vari pensatori, filosofi e intellettuali che hanno contribuito alla sua formazione. Tale forma di ‘civiltà’ però ha la singolarità di essere incompleta e contraddittoria, infatti sempre dal suo seno nascono quei tentativi di riformarla o perfezionarla che portano inevitabilmente al cesarismo e agli esperimenti (veri o presunti) per istituire una ‘società organica’ che si rivelano sempre errati e illusori. La società organica infatti è l’esatto opposto della civiltà occidentale perché nega la libertà individuale: alla (teorica) libertà di scelta dell’Occidente si contrappone infatti l’esonero dalla scelta.

L’individuo appartenente alla società organica non può compiere atti con fine se stesso in quanto è solo un mezzo rispetto al fine della riproduzione del gruppo (cfr. p. 44). La civiltà occidentale in quanto ‘civiltà incompiuta’ non può quindi far altro che generare ‘mostri’ i quali non sono altro che tentativi di porre un freno proprio al suo nucleo costitutivo cioè l’individualismo, ma non avendo ancora trovato una regola sociale che risolva il problema dell’inessenzialità della libertà individuale ne consegue che il suo destino si compia nella postmodernità ovvero con “la dissoluzione della libertà individuale nel nichilismo” (p. 45). Secondo gli autori, con l’abbandono dell’hegelismo, il cui intento era portare la libertà individuale al suo pieno compimento, si è prodotta la prima grave frattura tra Occidente e civiltà occidentale che in seguito non potrà che diventare sempre più netta, portando l’Occidente a voltare le spalle alla società dei diritti da esso precedentemente elaborata. Nella seconda parte del libro gli autori passano ad elencare gli aspetti che la civiltà occidentale avrebbe ereditato dalle precedenti civiltà e che avrebbe poi inglobato nel suo sistema di valori, la civiltà occidentale avrebbe nell’ordine le sue radici: nella cultura greca antica, nella cultura ellenistica, nel diritto romano, nel cristianesimo antico, nel cristianesimo medioevale. Va notato che l’uso del termine Occidente, che i due autori fanno è oltremodo ambiguo, volendo distinguere tra Occidente (termine con valenza negativa) e civiltà occidentale (con valenza positiva) si crea solo confusione dato che nel mentre si afferma, giustamente, che l’Occidente è un termine creato appositamente per veicolare una certa ‘visione del mondo’.

Tanto valeva abbandonare del tutto tale termine ideologico per definire l’Europa evitando così i continui equivoci. A parte questo il saggio soffre di una eccessiva volontà di schematizzazione ed incasellamento, soprattutto nella parte centrale, che provoca evidenti forzature, volendo assegnare a questo o a quel personaggio storico il merito di aver introdotto un particolare concetto che è entrato a far parte della civiltà occidentale (come Platone, visto quasi come un precursore dello stile di vita borghese, cfr. p. 129). In realtà una delle caratteristiche dell’Occidente è proprio quella di assimilare ogni cosa e di appropriarsi indebitamente dei lasciti di altre civiltà per crearsi una ‘narrazione autolegittimante’, gli autori fanno la stessa cosa con il ‘bambino buono’ ovvero la ‘civiltà occidentale’ identificata con un idealismo assoluto, scaricando tutto ciò che stona con questa narrazione sulle spalle del ‘padre cattivo’, l’Occidente. È una operazione artificiosa, in quanto si vuole attribuire la qualifica di ‘civiltà’ ad un insieme eterogeneo di tratti estrapolati dai loro rispettivi contesti, con il risultato di accettare il paradigma imposto dall’Occidente e di convalidarlo ulteriormente. A questo proposito vale la pena soffermarsi sulla visione del cristianesimo dei due autori e sul giudizio che ne danno in relazione con la ‘compatibilità’ con i valori della civiltà occidentale. Innanzitutto per Badiale e Bontempelli Gesù Cristo è certamente un personaggio storico realmente esistito ma che ha poco o nulla a che vedere con quello dei vangeli. Il vero Cristo secondo gli autori (che si rifanno alle teorie esposte nei libri di A. N. Wilson e S. Dianich) era si un Messia, ma un messia degli ebrei, un rivoluzionario e sovversivo ebreo in lotta contro l’imperialismo romano. Per “complessi motivi” (p. 150) gli evangelisti e S. Paolo hanno invece deciso di propagandare una versione di Gesù divinizzata ed estrapolata dal suo originario contesto prettamente giudaico, arricchendo il racconto con elementi presi dalla tradizione ellenistica e dai culti misterici, facendone il fondatore di una nuova religione, addossando la colpa della sua morte sugli ebrei invece che sui romani e “dando così inizio alla terribile storia della giudeofobia della Chiesa cattolica” (ibidem). Secondo gli autori il Cristo-Dio della Chiesa rappresenta un “regresso etico” (p. 151) rispetto al messia-ribelle ebreo della storia in quanto “la sua totale destoricizzazione […] ha significato la cancellazione di quelle speranze messianiche, coltivate da Gesù, di una liberazione umana attraverso un nuovo ordine politico-sociale da realizzarsi contestualmente all’abbattimento dei poteri derivati dall’Impero Romano” (ibidem).

A questa trasfigurazione della figura di Cristo gli autori addebitano quindi i successivi accordi tra cristianesimo e Impero e la successiva ‘corruzione mondana’ e ‘cooperazione con il potere’ della Chiesa cattolica. La perdita ‘spirituale’ operata dal cristianesimo quindi è netta, infatti “la rescissione dei legami della fede con il Gesù storico [il sovversivo ebreo anti-romano caro agli autori] ha significato perdere le speranze messianiche, far cadere completamente nell’oblio il senso in cui Gesù intendeva il Regno e non avvertire più alcuna necessità di contrapposizione ai poteri mondani per una liberazione terrena dell’uomo dall’oppressione sociale e morale” (p. 152).

La conclusione che se ne trae è che per i due autori l’Antico Testamento e la religione giudaica, per quanto esclusivista, sono eticamente superiori rispetto al cristianesimo. Tuttavia gli autori aggiungono anche che il cristianesimo, pur rappresentando un ‘regresso spirituale’, ha introdotto un concetto fondamentale per la ‘civiltà occidentale’, quello di “universalità e di eguale dignità degli esseri umani” (p. 153) per ottenere il quale bisognava sottrarre Cristo al suo originario “contesto ebraico” (ibidem). È chiaro il tipo di religione che secondo gli autori è compatibile con la civiltà occidentale: un cristianesimo senza Dio, ridotto al rango di un vago umanitarismo: “la civiltà occidentale è antropocentrica, mentre la civiltà cristiana medioevale è teocentrica” (p. 162).

Questa religione atea dell’umanitarismo moraleggiante che gli autori imprimono in tutte le pagine del libro finisce per trasformarlo, a prescindere dalle loro intenzioni, in una appassionata apologia dell’Occidente stesso, il quale, come è noto, ha sempre utilizzato la retorica della democrazia, del progresso e dei diritti umani, per legittimarsi nelle sue guerre di espansione ai danni soprattutto del continente eurasiatico, comprese le due ‘guerre mondiali’ che andrebbero invece rinominate ‘crociate dell’Occidente (ovvero degli Stati Uniti) contro l’Europa’.

Gli autori in tutto il libro sono troppo occupati a dare patenti di cosa è ‘compatibile’ con la civiltà occidentale per accorgersi che il presunto ‘scontro di civiltà’ attualmente in atto tra Occidente e Islam non è altro che la terza fase di una progressiva espansione economica, militare e culturale che ha visto come tappe precedenti lo scontro con i ‘fascismi’ e quello successivo con il ‘blocco socialista’. Tutto questo non solo per motivi di tipo economico o geopolitico, ma anche perché in questi tre sistemi sono o erano presenti, in misura diversa, elementi che li rendono estranei ed irriducibilmente ostili all’espansione dell’Occidente, il quale del resto ha utilizzato contro di loro sempre le stesse vecchie armi (disumanizzazione, retorica dei diritti umani e della democrazia, ecc.).

Per concludere, è necessario un appunto sul concetto di “capitalismo assoluto” (p. 262) protagonista della terza e ultima parte del libro e indicato da Badiale e Bontempelli come causa della crisi e decadenza della civiltà occidentale. Tale concetto, frutto di una visione puramente economicistica del mondo, è fuorviante. Sarebbe piuttosto corretto utilizzare il termine di ‘individualismo assoluto’ per definire la causa e allo stesso tempo l’origine della civiltà occidentale, la cui crisi quindi è scritta nel suo DNA e non è scongiurabile come vorrebbero idealmente fare gli autori utilizzando le stesse armi del nemico ed esortando a “combattere la barbarie dell’Occidente per salvare i valori della civiltà occidentale” (p. 187). Insomma gli autori pretendono di combattere l’Occidente usando le stesse armi che quest’ultimo usa per distruggere le resistenze che sorgono alla sua avanzata, non volendo capire che sono le armi stesse il veicolo dell’ideologia che intendono combattere, quindi accettando gli astratti valori dell’Occidente (la civiltà occidentale) come superiori a qualunque altra cosa e da difendere ad ogni costo, si accetta il paradigma imposto dal nemico e anzi lo si convalida ulteriormente, e gli Stati Uniti ringraziano.

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