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25 Gen 2014

Una Westfalia per il Medio Oriente
di Alessandro Carrera

Le nazioni arabe stanno vivendo la loro Guerra dei trent’anni. Come nell’Europa del Seicento serve un accordo che chiuda per sempre con le guerre di religione

Il 10 ottobre è una data che agli europei forse non dice nulla, è un giorno come un altro, e solo chi è molto addentro alla storia del medioevo ricorderà che secondo le cronache del tempo fu proprio il 10 ottobre del 732 che l’armata di Carlo Martello sconfisse per la prima volta un battaglione di arabi di Spagna alla battaglia di Poitiers.

Il 10 ottobre del 2013, mentre attraversavo in macchina il centro di Houston, anch’io pensavo che fosse un giorno come un altro, quando proprio di fianco al teatro dell’opera ho visto una manifestazione di centinaia di persone vestite in abiti mediorientali che inalberavano cartelli che alla maggior parte dei passanti saranno sembrati incomprensibili. Commemoravano il 10 ottobre del 680, o meglio il 10 Muharram  dell’anno 61 secondo il calendario islamico, come «il giorno dell’infamia», «la peggior vergogna di ogni tempo», «la più grande tragedia nella storia dell’umanità». Avrei voluto fermarmi per leggere meglio, o farmi dare i volantini che distribuivano, ma la polizia in piena forza, munita di automobili, moto e cavalli, non lasciava fermare nessuno. Né ai manifestanti era permesso di scendere dal marciapiede e ostacolare il traffico.

Duecento, forse trecento persone, la loro figura schiacciata dagli imponenti grattacieli della quarta città d’America, cercavano di convincere me, noi, il mondo, che la radice di ogni male passato e presente sta nel risultato della battaglia di Karbala, Iraq, quando Hussein ibn Ali, nipote e genero di Maometto, da alcuni ritenuto suo legittimo successore, venne ucciso (insieme al figlio di sei mesi) dall’esercito del califfo Yazid I, che Hussein si era rifiutato di riconoscere. Erano sciiti, il popolo di Hussein, una percentuale del mondo islamico calcolata intorno al venti per cento (l’ottanta per cento sono sunniti, discendenti di coloro che accettarono l’autorità di Yazid), ma è una minoranza che comprende l’Iran, gran parte dell’Iraq e buona parte del Kuwait, dello Yemen e del Libano (in Siria la percentuale degli sciiti è intorno al venti per cento). Per loro era il Majilis, la processione che ricorda la Ashurah (nome della battaglia di Karbala), il giorno del grande scisma, la ferita che nel mondo islamico non si è mai sanata.

I non musulmani, peraltro, hanno poco da sentirsi superiori a questo evento per loro oscuro. I credenti mi scusino il punto di vista laico, che qui adotto per spiegarmi meglio, ma non dimentichiamo che la condanna a morte di un semisconosciuto profeta nell’anno 33,  del quale la maggior parte degli ebrei non conosceva nemmeno l’esistenza, ha portato a duemila anni di diaspore e massacri nei confronti del popolo ebraico, per non dire dei secoli di guerre tra chi era in disaccordo su chi dovesse essere e quale autorità dovesse avere il legittimo successore del semisconosciuto profeta. Hussein ibn Ali, peraltro, è un martire per tutto il mondo islamico, e la sua morte è considerata un lutto anche dai sunniti.

Se il nodo sembra impossibile da sciogliere, e se per molti sciiti la battaglia di Karbala non è un evento del remoto passato (come lo è la battaglia di Poitiers per gli europei) ma anzi assolutamente presente, come un trauma psichico sul quale il passare del tempo non ha nessuna presa, è perché il trauma è stato, ed è, tanto religioso quanto politico. Lo stesso Iran è diventato sciita solo agli inizi del 1500, quando lo Shah Ismail I obbligò brutalmente la popolazione iraniana alla conversione per forgiare un’identità nazionale che potesse resistere alla pressione dell’Impero Ottomano a maggioranza sunnita.

Che indicazioni può dare questa intricata storia alla diplomazia internazionale, se per la diplomazia c’è ancora posto tra le quotidiane notizie di massacri che vengono dalla Siria, dall’Iraq e da altrove? Come può intervenire l’Occidente in questa nuova Guerra dei trent’anni (come ormai molti cominciano a chiamarla)? Non più, né certamente meglio, di come avrebbe potuto intervenire l’Impero Ottomano nella Guerra dei trent’anni che si combattè in Europa tra cattolici e protestanti. Ma quelli erano tempi più duri e fieri di esserlo.

Oggi la politica deve essere umanitaria, o almeno apparire tale. Ma appena al di sotto della superficie umanitaria la politica continua a squassare il terreno, e una decisione univoca sembra impossibile. Il Segretario di stato John Kerry ha riconosciuto che l’Iran gioca un ruolo fondamentale in Siria (sperando di portarla verso la causa sciita), ma non vuole che i rappresentanti iraniani si siedano al tavolo delle trattative (per non irritare l’Arabia Saudita, centro del potere sunnita e principale alleata degli Stati Uniti). In Siria gli affiliati sunniti di al-Qaeda odiano gli sciiti di Hezbollah peggio di quanto odiano gli ebrei e gli occidentali. Il Gran Mufti dell’Arabia Saudita ha definito gli sciiti di Hezbollah un’«armata di Satana». In Iraq il primo ministro al-Maliki, sciita, sta di fatto consegnando il paese all’Iran per difendersi dagli attacchi (per ora vittoriosi) delle fazioni legate ad al-Qaeda.

E l’America cosa dovrebbe fare? Tornare in Iraq per riportarlo sotto il controllo dei sunniti moderati? E dove sono? Chi sono? Ormai è impossibile. Lo stesso Kerry, che vuole tenere l’Iran fuori dalla Siria, ha dichiarato che quello dell’Iraq è ormai un «problema interno». Ma non c’è più né interno né esterno, non c’è più né giusto né sbagliato. Per ora, in Medio Oriente vale il detto «si stava meglio quando si stava peggio».

Il Washington Post dichiara che Obama con la sua politica di non intervento sta portando al fallimento le trattative sulla Siria, e che la direzione presa dall’America rischia di ri-legittimare Assad. Può essere vero, ma chi è peggio tra Assad e gli Hezbollah, chi è peggio tra Saddam e al-Qaeda? Obama ha in mente un obiettivo ben preciso, e che ormai vede a portata di mano: la fine della dipendenza americana dal petrolio del Medio Oriente, così da rendere irrilevante ogni ulteriore coinvolgimento militare nella regione.

La guerra dunque continuerà, le atrocità continueranno, con due possibilità di conclusione: l’Arabia Saudita e l’Iran dovranno iniziare a parlarsi prima che la situazione sfugga di mano a entrambi, ed esercitare una vera egemonia, concordata tra nemici, sui loro rispettivi affiliati; la guerra di tutti contro tutti avrà risultati talmente spaventosi che le nazioni arabe, o quello che ne sarà rimasto, dovranno giungere a un loro Trattato di Westfalia come alla fine della Guerra dei trent’anni, dichiarando d’ora in poi illegittime le guerre di religione; oppure, in mancanza di una vera possibilità di vittoria da parte di chiunque, le forze più fanatiche decideranno per pura frustrazione di tornare ad attaccare l’Occidente, e il cordone sanitario che la diplomazia occidentale sta cercando di creare intorno al Medio Oriente sarà forse troppo fragile per resistere all’assalto dei disperati.

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