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18 luglio 2015

 

Due potenze, un ordine mondiale

di Francesco Carlesi

 

Stati Uniti - Gran Bretagna: dal ‘700 al caso-Snowden, storia di una relazione speciale.

 

Nel pieno degli sconvolgimenti che stanno agitando l’Europa, dall’Ucraina fino alla Grecia, un attore continua a distinguersi per la convinta aderenza alle istanze e ai diktat provenienti dagli Stati Uniti: la Gran Bretagna. La volontà di arrestare la (pre)potenza tedesca e di impedire un suo avvicinamento a Mosca accomuna i due paesi in maniera sempre più evidente. Nonostante alcune battute d’arresto, come i recenti ammiccamenti della City verso la Cina, questo rapporto vanta radici solide e lontane nel tempo, che meritano di essere studiate per capire il presente.

Daniele Scalea, in un recente saggio pubblicato sul «Semestrale di Studi e Ricerche di Geografia», ha ripercorso le tappe della special relationship Londra – Washington che ha caratterizzato la scena politica in modo indelebile, e continua a farlo. Le basi ideologiche dell’unità anglosassone mondiale affondano le loro radici nel ‘700. Adam Smith, padre del liberalismo e convinto fautore di un maggior coinvolgimento delle colonie nella politica britannica, riconobbe il grande potenziale del Nord America, tanto da arrivare a immaginare un futuro in cui la capitale si sarebbe spostata oltreoceano. «Questa “facilità” con cui i britannici riuscivano a immaginare lo spostamento della capitale lontano dalla madrepatria colpì Schmitt, il quale la mise in relazione all’elemento acquatico dell’Impero britannico, di cui l’Oceano era la vera sede», scrive Scalea.

I consigli di Smith non furono seguiti, e il mancato riconoscimento delle richieste delle colonie («No taxation without representation») fu alla base della guerra d’indipendenza, che segnò una rilevante spaccatura tra Londra e Stati Uniti. Il conflitto, assieme ad altri scontri e incidenti, non impedì la costruzione di un rapporto sempre più stretto nel tempo. Una vasta produzione culturale si spese in questo senso, promuovendo l’idea di un’unione paritaria tra le varie comunità anglosassoni sparse nel mondo. La Greater Britain, teorizzata dal politico liberale Charles W. Dilke (1868), fu la formula più in voga, in cui spiccava l’idea della superiorità delle istituzioni inglesi e dei concetti di “sangue” e “razza” quali elementi unificanti. Tra le numerose spinte in questo contesto (come l’Imperial Federation League del 1884) acquistò notorietà la figura di Alfred Milner, convinto sostenitore della superiorità della «razza britannica». Nel suo «Credo» si legge: «I am a British (indeed primarily an English) Nationalist. If I am also an Imperialist, it is because the destiny of the English race, owing to its insular position and long supremacy at sea, has been to strike roots in different parts of the world. I am an Imperialist and not a Little Englander because I am a British Race Patriot». L’importanza dell’elemento «mare» si ritrova anche nelle speculazioni di Alfred Thayer Mahan e John Mackinder, padri della geopolitica classica. Milner divenne celebre durante le guerre in Sudafrica d’inizio ‘900, affermandosi come figura carismatica e allevando una generazione di capaci amministratori, ironicamente da lui definita Milner’s Kindergarten. Il suo impegno fu alla base della creazione del Round Table Movement, che voleva rilanciare il prestigio anglosassone includendo apertamente nel progetto non solo le colonie ma anche gli USA, potenza sempre più in ascesa. «Il Round Table, principale prodotto del milnerismo, riportò l’idea – svuotata del suo anglo centrismo – negli USA, gettando così le basi ideologiche di quell’alleanza e solidarietà tra le cinque potenze anglosassoni (USA, GB, Canada, Australia, Nuova Zelanda) che prosegue ancora oggi». Proprio due membri del movimento, Lionel Curtis e Walter Lippmann, fonderanno rispettivamente il Royal Institute of International Affairs (Chatam House) e il Council of Foreign Relations, fulcri della politica estera di Londra e Washington.

La Prima e ancor più la Seconda Guerra Mondiale segnarono il sorpasso statunitense sull’Impero britannico, ma il legame creato negli anni non ne risentì. Anzi andò rafforzandosi, pensiamo solo all’opera di Winston Churchill che coniò il termine special relationship. Nel 1941, quando l’America non era ancora entrata in guerra, Roosevelt aveva firmato insieme alla Gran Bretagna la Carta Atlantica, che disegnava i futuri assetti dominati dalle democrazie. La «crociata in Europa», per usare le parole di Eisenhower, portò alla costruzione di un nuovo ordine mondiale caratterizzato dal dollaro e dalla lingua inglese. Tra alterne fortune, la relazione porta i suoi frutti ancora oggi. L’appoggio inglese alle guerre di Bush jr. è stato l’esempio più lampante, senza trascurare il recente caso-Snowden, dove è emersa la sorveglianza globale attuata dalle intelligence di USA, Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda («Five eyes») ai danni di paesi alleati, tra cui il nostro. Uno spionaggio frutto di accordi segreti stipulati tra potenze anglosassoni, logico risultato di storiche «relazioni speciali» che non accennano a finire.

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