Originale: Crimethinc.com
29 luglio 2013
http://znetitaly.altervista.org
3 Agosto 2013

L’anarchismo e la lingua inglese
di Kristian Williams
Traduzione di Maria Chiara Starace

George Orwell, nel suo classico saggio “Politics and the English Language” [La politica e la lingua inglese],  porta avanti l’idea che ” la lingua inglese….diventa brutta e approssimativa perché i nostri pensieri sono stupidi, ma la sciatteria della nostra lingua ci rende più facile avere pensieri stupidi.”

I vizi che Orwell elenca: espressioni vaghe, metafore morenti, gergo e  generale  pretenziosità   pseudoscientifica – aiutano tutte a sostenere la nostra prosa noiosa. Ma, ancora peggio, producono un’atmosfera mentale stagnante  e soffocante dove il pensiero è comunemente sostituito dalla recitazione automatica di parole prescritte o  di espressioni “attaccate insieme”, secondo la memorabile espressione di Orwell, ‘come le sezioni di un pollaio prefabbricato’.

L’effetto sui lettori è certamente abbastanza brutto, ma le implicazioni per gli scrittori sono anche più gravi.  Delle volte, naturalmente, la prosa vaga e scadente – e la prontezza con cui è accettata -

fa sì che uno scrittore possa deliberatamente  spacciare  una cosa per un’altra o nascondere un ragionamento sbagliato in una nebbia retorica. Più spesso, tuttavia,  uno scrittore bene intenzionato accetta soltanto  lo standard attualmente in uso e  per una stupida abitudine  usa il linguaggio che altera, oscura, o invalida quello che vuole dire. In tali casi, anche lo scrittore è vittima: intende dire una cosa e ne dice un’altra, oppure intende dire qualche cosa  e invece non dice nulla.

Questa dinamica pone problemi speciali per l’anarchismo, in quanto modalità di pensiero che evita l’ortodossia per principio e dovrebbe essere al di sopra del defraudare un pubblico alla maniera tipica  dei politici e dei loro partiti. Gli anarchici devono affrontare l’ulteriore problema che, a causa delle goffaggine e della disattenzione, le nostre idee diventano incomprensibili. Questa distruzione del significato avviene  simultaneamente a vari livelli: è impossibile convincere le persone di un’idea se non si riesce a spiegarla; è ugualmente impossibile spiegare un’idea se tu stesso non la capisci; ed è impossibile comprendere adeguatamente un’idea se i  suoi soli mezzi di espressione frustrano qualsiasi sforzo di definirlo o di analizzarlo. Attraverso questo processo le idee si trasformano in qualche cosa come la Messa in latino: forse noi della congregazione non capiamo i borbottii rituali del  prete, ma crediamo che le parole ci salveranno.

Considerate, per esempio una frase così: “To be allies, cisgendered people* need to check their privilege.” (Lascio la frase in inglese dato che poi l’autore la analizza e spiega come le parole possono essere intese in vari significati).

Una frase del genere, in base agli standard anarchici contemporanei  è totalmente irrilevante e può perfino essere considerata una verità lapalissiana.  E contiene varie caratteristiche che la rendono rappresentativa del tipo di scrittura che sto discutendo. La prima cosa che si dovrebbe notare è la qualità sgradevole e stranamente non persuasiva del lingua. E’ molto difficile accettare che soltanto un secolo separa questo scrittura dalla prosa dello scrittore inglese Edward Carpenter o da quella del filosofo russo Peter Kropotkin.

Anche a parte la sua semplice bruttezza, lo scritto è indecifrabile per i profani. E’ denso di vaghi termini di gergo, e non  offre una sola  espressione  originale, né un’immagine di alcun tipo. Delle 10 brevi parole, una, cisgendered- esiste soltanto in certi settori accademici marginali e in una limitatissimo frammento dello spettro politico. Le altre tre : allies,(alleati) check e privilege sono parole inglesi di uso quotidiano che qui assumono un significato specialistico. E una è così ambigua che rende la frase praticamente priva di senso: Check significa esaminare o verificare? Significa bloccare fisicamente (come nell’hochey), o minacciare, come negli scacchi? o rifiutare una puntata (come nel poker?) Una persona cheks  il proprio privilegio nel modo in cui cheks il suo cappotto a teatro per poi riprenderlo alla fine dello spettacolo? Come molto del linguaggio moralistico, questa frase riesce a essere prescrittiva senza essere realmente istruttiva: ci dà un comando ma manca della necessaria specificità di dire davvero a chiunque che cosa dovrebbero fare in situazione del mondo reale.

Non mi lamento qui che la lingua sia difficile – nel complesso non lo è -ma questo è disperatamente vago. E’, o dovrebbe essere un problema il fatto che il nostro idioma renda impossibile che gli altri afferrino le nostre idee; ma quanto è  peggiore se la vostra lingua vi aiuta a nascondere il significato anche a voi stessi?  Fino a un altissimo grado, la lingua qui sostituisce   il pensiero. Le persone che scrivono questo genere di cose forse hanno qualche idea generale di che cosa stanno tentando di dire, ma non c’è bisogno che la abbiano. Hanno assorbito le parole corrette, nel modo in cui un bambino memorizza the Pledge of Allegiance (il giuramento di fedeltà alla bandiera americana), senza preoccuparsi molto se le parole corrispondano a qualcosa di particolare, sia nel mondo reale o perfino nella loro immaginazione.

L’esempio che ho fatto qui sopra è tratto da una strana politica, ma si potrebbero facilmente moltiplicare i casi se scegliesse di farlo. (Per esempio: “Il black bloc è diventato una pura sfaccettatura dello spettacolo totalizzante.” Tutti i rami dell’anarchismo – i primitivisti, i sindacalisti, gli insurrezionisti, i CrimethInc. (nome di un collettivo anarchico decentralizzato, n.d.t.) – sono ugualmente colpevoli, sebbene le  parole in codice richieste e il ritmo preferito della lingua possa in un certo modo variare da una combriccola a un’altra. Bisogna soltanto scegliere un argomento da qualsiasi pubblicazione anarchica – indipendentemente da quale fazione rappresenti – per trovare almeno un esempio di scrittura analoga.

Molte  delle parole  che esistono più comunemente negli scritti anarchici, sono usate, sospetto, senza avere in mente alcun significato speciale,  oppure, a volte – con un significato molto diverso dall’uso tipico. “Responsabilità,” comunità,” “solidarietà,” e “libertà” sono usate, in un numero enorme di casi, semplicemente come  segni   per indicare cose che ci piacciono o che preferiamo. Quando leggiamo, per esempio, che “gli organizzatori dovrebbero rendere conto alla comunità, ognuno rimane a chiedersi chi si  suppone che coinvolga questo rapporto , e siamo molto meno certi di che cosa si suppone che  sia. Analogamente, quando leggiamo che un gruppo vuole “ritenere responsabili coloro che compiono reati sessuali,” è una domanda giusta e ovvia che cosa propongano di fare davvero. Vogliono che essi facciano una dichiarazione pubblica di scuse? Progettano di picchiarli?  O intendono  dire, con una logica circolare, che li riterranno responsabili, richiedendo che essi siano ritenuti colpevoli? E’ straordinario quanto raramente si risponda  a queste domande, ma è ancora più straordinario quanto raramente tali domande vengano fatte. In entrambi i casi, è stata invocata la parola chiave - responsabilità, e in un certo senso si pensa che questo sia sufficiente.

Troppo spesso lo scopo di scrivere in questo modo non è tanto per comunicare un’idea specifica a qualche  pubblico di lettori vero o potenziale. Le parole servono invece a indicare una specie di lealtà di gruppo, un confine ideologico tra il nostro lato e l’altro lato: noi  crediamo questo e loro no.

O piuttosto: parliamo in questo modo e diciamo questo tipo di cose; loro parlano in qualche altro modo e  dicono un altro tipo di cosa.

Adottare lo stile adatto ci permette di dimostrare quanto si è radicali, ed è un sintomo del fatto che la propria scrittura è modellata dagli interessi, spesso interessi repressi riguardo all’ortodossia. Diventa importante non soltanto avere i pensieri giusti, ma anche – delle volte ancora di più – usare le parole giuste, come su uno avesse bisogno di inserire il codice giusto, ma non avesse bisogno di ricordare perché,  in primo luogo,  quella particolare serie di lettere è stata selezionata.

Sotto questa pratica di imitazione mentale c’è il senso che le parole siano permeate da una specie di essenza mistica – alcune sono buone, altre cattive – indipendentemente dal contesto – o dell’uso che se ne faccia. Il controllo del linguaggio è uno dei risultati, spesso sotto forma di auto-censura, ma spesso sotto la pressione del pubblico. Per esempio, di recente sono stato castigato per aver usato la parola riot (sommossa), perché sono preferibili il più vago uprising (insurrezione) o rebellion (ribellione). Una volta che l’eufemismo comincia a infilarsi dentro ci vuole poco a muoversi tra la cortesia politica e la pura disonestà. Contemporaneamente,  e in seguito allo stesso impulso, molta della nostra retorica assume una qualità gonfiata in maniera ridicola. Le proteste diventano insurrezioni, da un  parte, mentre una rissa tra ubriachi diventa “cattivo comportamento”,   (a meno che, per altre ragioni, la etichettiamo  “violenza”). In entrambi i casi, la tendenza è di scrivere a seconda di che cosa sarebbe dovuto accadere in base ai termini della propria teoria favorita, invece che lottare per scoprire e descrivere eventi  come sono successi davvero.

La  tendenza all’inflazione retorica è spinta, credo, da un desiderio di far sembrare noi stessi più grandi, migliori, o più importanti di quanto siamo – anche se le sole persone che prendiamo in giro siamo noi stessi. “Azioni” sembra più duro che “proteste” o “dimostrazioni”, anche se tutto quello che facciamo durante queste “azioni” è andare in giro con dei cartelli. Ed è abbastanza imbarazzante in un contesto politico dire “io e i miei amici,” e quindi invece diciamo “comunità”  quando intendiamo davvero “gruppo”, e “gruppo” quando in realtà intendiamo “cricca”. Non c’è però l’assillante sospetto che qualche cosa è andata storta quando cominciamo a usare la parola “comunità” in un modo che esclude i nostri vicini, il postino, e i membri dei nostri stretti famigliari?

Quando questo modello si diffonde, ogni senso di proporzione se ne va dalla nostra lingua. Le descrizioni di eventi si restringono o si gonfiano, non in base ad alcuna caratteristica visibile di qualcosa che è accaduto, ma secondo una formula a priori. Si deve soltanto guardare alle dichiarazioni emesse dalle parti contendenti in qualche recente controversia anarchica – la più recente  esemplificazione  dei perenni dibattiti sulla violenza e la non violenza, o l’azione militante in confronto alla costruzione della base saranno utili – per riconoscere che  le due parti non soltanto non sono d’accordo su questo o quello incidente specifico, ma dove sorgono questioni di fatto, ogni parte assume un’attitudine di quasi perfetta indifferenza.

La deriva linguistica è pericolosa perché rende  impossibile una discussione onesta. E forse, è più preoccupante che le persone sono sorprendentemente desiderose di farsi ingannare dai loro propri trucchi propagandistici. Un movimento politico non può aspettarsi di avere successo,, o neanche di sopravvivere, se non sa affrontare la realtà, ma inoltre se i suoi membri in grandissimo numero perdono davvero il contatto con il mondo al di là dei loro comunicati stampa e manifesti, il movimento probabilmente non meriterà neanche di sopravvivere.

Gli anarchici, naturalmente, non sono le sole persone che scrivono come se le parole non importassero. Molti scritti attuali sono sciocchezze inequivocabili – non soltanto scritti politici, ma anche testi di messaggi pubblicitari,  prosa accademica, decisioni legali, sermoni religiosi, e canzoni d’amore. Ma a parte la  qualità  trasandata dell’inglese contemporaneo, e  perfino oltre i vizi speciali della propaganda politica, l’anarchismo ha acquisito vari difetti che sono più o meno caratteristici.

Per esempio, sembra che abbiamo acquisito la sospetta abitudine di adottare una parola di uso quotidiano, di restringere il suo significato e di trasformarlo in una specie di gergo. Le parole che abbiamo citato prima, : “alleati,”  “privilegio,” “responsabilità,” e “azioni”, sono tutti esempi  – come lo sono “processo” (come verbo), “facilitare,” “recuperare,” “stile di vita” (con funzione di aggettivo) “bottom-line ” (usato come verbo), “spettacolo,” “posto sicuro,” “spoke” [raggio o passato del verbo speak= parlare] (nome) “care”  [cura- curarsi di] (nome) – e “danno”.

Analogamente, talvolta scegliamo parole che sono necessariamente relative e le usiamo come se fossero assolute. “Accessibile” (o “inaccessibile)  e “alternativo” sono gli esempi principali. Nulla è soltanto accessibile. Deve essere accessibile a qualcuno. Analogamente, qualche cosa può soltanto essere un’alternativa a qualche altra cosa. Dire che è un’alternativa alle “tendenze dominanti”, è soltanto una petizione di principio.

Ancora più imbarazzante è il fatto che molti dei nostri termini gergali non sono neanche nostri, ma ce ne siamo appropriati o male appropriati da altre tradizioni – marxista, di  Marcel Foucault, post-moderna, femminista, o della Queer Theory. ** Non c’ nulla di sbagliato, di per sé, e io personalmente ammiro la disponibilità di prendere buone idee indipendentemente dalla fonte. Abbiamo però cominciato a scrivere come studenti universitari che imitavano i loro professori. Diciamo “egemonia” quando in realtà intendiamo soltanto “influenza,” e “contraddizione” quando parliamo di conflitto,  “performatività”  invece di “comportamento” e così via. I risultati di questa abitudine imitativa sono a volte piuttosto strani: a causa di Foucault è ora comune quando si scrive di politica, riferirsi alle persone come a corpi. Grazie ad Hardt e a Negri parliamo di Impero piuttosto che di imperialismo. E in uno progresso correlato, parliamo comunemente del Capitale piuttosto che di capitalismo, e lo facciamo in un modo che lo fa sembrare una divinità irritabile invece che un sistema economico.

Inoltre, troppo spesso presentiamo semplici idee con un linguaggio complesso perchè pensiamo che esso ci faccia apparire più intelligenti, più coraggiosi, o più radicali. Vivacizziamo la nostra lingua con termini tecnici soltanto per mostrare che abbiamo fatto i compiti. Sembra che a sinistra siano d’accordo che sia meglio scrivere nello stile di Hegel tradotto male che scrivere come Steinbeck. E’ anche più facile, purché non vi importi di essere capiti.

Il problema, naturalmente non sono le parole  stesse. Il problema non è neanche l’astrazione. Qualsiasi sforzo di applicare le lezioni da un caso all’altro, necessariamente comporta qualche forma di astrazione. Il problema è che si evita la chiarezza nel significato. La soluzione, allora, non è semplicemente astenersi dall’uso di certe parole, o di  sostituire  il vecchio gergo con il nuovo, ma di fare quello che possiamo per rendere la nostra scrittura più chiara possibile. Lo facciamo con l’uso di immagini nuove, di dettagli concreti,  e avendo cura di sillabare precisamente chi e che cosa intendiamo ogni volta che siamo tentati di invocare vecchi fantasmi come “il popolo” o processi mistici come la “lotta”.

Qui il punto non è semplicemente descrivere lo stato attuale della scrittura anarchica, ma capovolgere le tendenze che ci hanno portato qui. E mentre molti degli esempi in “La politica e la lingua inglese” sono ora molto fuori moda, il consiglio di Orwell rimane sensato. Egli ci offre un principio generale, sei regole e sei domande.

Il principio è: “Che il significato scelga la parola e non il contrario.”

Le regole sono:

1. Non usare mai una metafora,  una similitudine,  o altre espressioni che siete abituati a vedere stampate.

2. Non usare mai una parola lunga quando va bene una corta.

3. Se è possibile eliminare una parola, eliminarla.

4. Non usare mai il passivo dove si può usare l’attivo.

5. Non usare mai un’espressione straniera, un temine scientifico, o una parola di gergo quando si può pensare a un equivalente inglese usato quotidianamente.

6. Infrangere qualsiasi  di queste regole prima di dire qualsiasi cosa completamente barbara.  Vale la pena osservare che  se ci fosse una  guida allo stile anarchico  contemporaneo, quasi tutte queste regole sarebbero capovolte. Usate soltanto le espressioni che vedete  su testi stampati; non usate mai  una parola breve se c’è ne è una corta a disposizione; se è possibile aggiungere una parola, aggiungetela sempre; non usate mai l’attivo quando potreste usare il passivo; usate sempre un’espressione straniera o una parola di gergo se può essere evitata una parola inglese di uso quotidiano; e scrivete barbaramente piuttosto che violare qualcuna di queste regole.

Nessuno ha formalizzato questi precetti e nessuno ha dovuto farlo. La lenta deriva della lingua e la complessiva nuvolosità del nostro pensiero, ci permette di adottare queste pratiche  senza tentare, e spesso senza riconoscerla consciamente. Interrompere queste abitudini richiede, tuttavia uno sforzo consapevole.

Il consiglio di Orwell,  espresso nel modo più stringato possibile, potrebbe essere riassunto così: pensate prima di scrivere.

Uno scrittore scrupoloso, in ogni frase che scrive, si farà  almeno quattro domande: che cosa sto cercando di dire? Quale parola lo esprimerà? Quale immagine o frase lo renderà più chiaro? Questa immagine è abbastanza viva per fare effetto? E probabilmente si farà altre due domande: potrei metterla in forma più breve? Ho detto qualche cosa  brutta?

Questo approccio presume, naturalmente, che lo scrittore abbia  una qualche idea definita che intende trasmettere al lettore, che il suo scopo non è di  ripetere  semplicemente  le banalità  alla moda per rappresentare la “riga” giusta  o per  provare  delle frasi di repertorio per un dibattito immaginario.

Lo scopo della scrittura anarchica, credo che sia o che dovrebbe essere non di dimostrare  come siamo estremisti o di  impressionare  i nostri amici con la nostra erudizione, ma di  migliorare la qualità del pensiero anarchico, di dare alle nostre idee più ampia circolazione, e di usare quelle idee par aiutare e rimodellare il mondo. Però l’attuale stato della nostra scrittura, preso nel suo insieme, sembra inadatta a ciascuno di questi scopi. Produce, invece, un modo di pensare  nebuloso,  una insularità intellettuale, e  alla fine, irrilevanza.

Non intendevo suggerire che l’unica fattore che ostacola la rivoluzione è la cattiva prosa. E’ però possibile che un sacco di sciocchezze potrebbero essere eliminate dall’anarchismo se ci impegniamo a esprimere chiaramente le nostre idee, e se esigiamo la stessa cosa dalle pubblicazioni che leggiamo. E’ molto difficile scrivere in modo chiaro a meno che si pensi in modo chiaro. E se una frase non può essere tradotta dall’ inglese-anarchico in semplice inglese, c’è un’ottima possibilità che non significhi nulla.

Note

*cisgendered – Sono le persone che sono state riconosciute come uomini o donne alla nascita e che si identificano come tali.

**http://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_queer


Kristian Williams è l’autore di  Our Enemies in Blue: Police and Power in America,[I nostri nemici in blu: la polizia e il potere in America],   American Methods: Torture and the Logic of Domination, [Metodi americani: la tortura e la logica del dominio],   Hurt: Notes on Torture in a Modern Democracy [Ferire: note sulla tortura in una moderna democrazia].  Attualmente sta lavorando a  un  libro su Oscar Wilde e l’anarchismo.


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/anarchism-and-the-english-language -by-kristian-williams

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