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8 luglio 2013

Alberto L’Abate: Gramsci e la nonviolenza

Si è tenuto, alla fine di maggio 2013, un convegno internazionale su Mille libri per Gramsci che si è svolto, in tre giornate distinte, a Roma, Cagliari, e si è concluso ad Ales, la città natale di Gramsci. In questo convegno è emerso che, in questi ultimi anni, sono stati pubblicati, di Gramsci e su Gramsci, 20.000 saggi in quaranta lingue diverse. Molti di questi sono apparsi nel mondo anglosassone, in particolare negli USA, ma anche in Sud America ed in Asia, specie in India. Come dice il giornalista che riporta, in un quotidiano sardo, su questo convegno: “Il dato forte, che dovrebbe indurre anche dalle nostre parti a riconsiderare con più attenzione gli insegnamenti del pensatore sardo, è quello dell’attualità contemporanea del suo pensiero, diventato in diversi paesi all’estero bussola da usare in questi anni di crisi globalizzata”1.

In Italia silenzio e censure

Ma dal convegno è emerso anche come, nel nostro paese, dopo gli anni settanta: “ ci sia stato un grande silenzio nei confronti di Gramsci. Una grigia omologazione in sede accademica” tanto che uno dei relatori, in occasione della pubblicazione degli atti di un convegno, si scopre drasticamente censurato e depurato da tutti i riferimenti a Gramsci. “Segno inequivocabile – conclude il giornalista – che quel pensiero continui, a distanza di tempo, ad essere ancora scomodo”(ibid.).

Questo mi ha fatto ritornare in mente una censura di questo tipo subita anche dal sottoscritto, sui suoi studi sui rapporti tra “Gramsci e la Nonviolenza”, presentati, in prima istanza, in un seminario di studi a Ghilarza nel 1992, in un convegno su questo tema al quale hanno partecipato, oltre al sottoscritto, che aveva l’incarico di introdurre il tema presentando un saggio su “Sette ipotesi sui rapporti tra Gramsci e la nonviolenza”, due importanti studiosi del pensiero gramsciano, come Caprioglio, curatore di quasi tutti gli scritti giovanili gramsciani per l’editore Einaudi, e direttore del Centro Gramsci di Torino, e Don Nardone, che aveva fatto una bella tesi sul pensiero di Gramsci, seguita da Norberto Bobbio, diventata poi un volume, e scritto poi altre cose importanti su Gramsci. Il convegno era organizzato, in un bel castello di Ghilarza, dalla Casa per la Pace e dalla Casa Gramsci di quella cittadina , in cui Gramsci aveva passato i primi anni della vita., all’interno delle iniziative del mese della cultura del Comune. Come scrive il gruppo di studio sulla “nonviolenza e Antonio Gramsci”, in un resoconto su un seminario del 2011, sempre tenutosi a Ghilarza, di cui parleremo in seguito : “In quell’occasione i pareri dei tre studiosi si focalizzarono su interpretazioni differenti fra loro: mentre Don Nardone sembrava più propenso a vedere alcuni nessi fra il pensiero gramsciano e quello nonviolento di Gandhi e Capitini, Caprioglio tendeva invece a negare qualsiasi tipo di rilettura nonviolenta di Gramsci”2. Ma la cosa strana è stato il fatto che, malgrado la Casa Gramsci fosse specializzata nel conservare tutta la documentazione gramsciana (scritta e visiva), e fosse incaricata di registrare il dibattito, quella registrazione è andata, stranamente, perduta, e per quasi venti anni di quel dibattito non si è saputo nulla.

Trascuratezza o censura ?. Personalmente sono convinto che fosse stata censura perché le mie tesi non corrispondevano con quelle del Partito Comunista, cui Caprioglio, secondo me, faceva riferimento, partito che prima aveva cercato di costruire il comunismo nel nostro paese trasportando in Italia – in disaccordo con Gramsci – la rivoluzione violenta di tipo leninista, e poi, dopo il “compromesso storico”, accettando il riformismo – anche qui in totale disaccordo con Gramsci – considerandolo come una scelta “nonviolenta”, e lasciando nel dimenticatoio perciò del tutto la rivoluzione nonviolenta predicata da Gramsci.

Dopo questo episodio la riflessione su Gramsci e la nonviolenza è rinata, molti anni dopo, quando un amico di Ales, cui avevo raccontato di quel convegno “censurato,” mi ha proposto di riscrivere le mie tesi e di partecipare, con le mie riflessioni su questo tema, al Premio Gramsci della città di Ales. Grazie ad una registrazione fatta alla buona, e da distante, da un amico della Casa per la Pace di Ghilarza, ho potuto ricostruire parte di quel dibattito e scrivere un primo saggio su “Gramsci e la nonviolenza”, che ho presentato per quel premio. Il saggio non è stato premiato, ma è stato pubblicato, nel 2011, come quaderno n.1 della Fucina per la Nonviolenza di Firenze, ed è poi diventato la base di un seminario di studi a Ghilarza, nell’estate 2011, cui hanno partecipato dodici persone della “Rete Nonviolenza Sardegna”. La conclusione di questo seminario è stata fatta alla Casa natale di Gramsci ad Ales, cittadina dove appunto si è concluso anche il convegno gramsciano prima citato. Ma ricordo ancora, con molta gioia, il commento fattoci, alla conclusione di questa presentazione, dai dirigenti della Associazione Casa Natale Gramsci: “Ci avete fatto conoscere un Gramsci a noi del tutto sconosciuto!”. E questo apprezzamento ha portato i dirigenti di questa Associazione a chiederci di poter inserire, nel volume con la pubblicazione dei testi premiati con il XII premio Gramsci, anche il mio testo originale ed lo scritto conclusivo del seminario di Ghilarza del 2011, cosa che abbiamo accettato con piacere 3 .

 

Carla Marazza e Giuseppe Ganduscio

Ma a questo punto è il caso di tornare al tema di questo articolo, e cioè all’inizio della storia delle riflessioni su Gramsci e la nonviolenza . Questa era cominciata con la mia conoscenza di Giuseppe Ganduscio, e della sua compagna Carla Marazza. Giuseppe Ganduscio, nato a Ribera, in Sicilia, è un antesignano dei cantanti di musiche folcloristiche che non si limitano a cantarle, ma che le ricercano attivamente nelle tradizioni popolari del proprio paese4. Ma oltre che ricercatore e cantante Ganduscio aveva impiantato una industria a Firenze per la produzione di apparecchiature elettroniche perfezionate per la riproduzione e la trasmissione di musica, nella quale, al momento più fiorente, lavoravano circa una quarantina di persone. Venuto a conoscere il lavoro che Danilo Dolci, con strumenti della nonviolenza, faceva nella sua Sicilia, Giuseppe decise di lasciare la fabbrica ai suoi operai ed è sceso, con la sua compagna di vita Carla Marazza, a Partinico ed a Trappeto per collaborare con il lavoro di Danilo. E visto che molti dei volontari, che venivano spesso dall’Italia del Nord, non conoscevano per niente la cultura e la storia della Sicilia, cominciò a far loro lezioni su questo tema, lezioni che, dopo la sua morte (avvenuta purtroppo, per cancro, quando era ancora molto giovane) la sua compagna Carla Marazza raccoglierà e farà pubblicare in un aureo libretto intitolato Perché il Sud si ribella5. Giuseppe e Carla erano ambedue appassionati del pensiero gramsciano, dal quale dicevano di aver tratto anche l’amore per la nonviolenza, ed erano molto arrabbiati per il trattamento che il Partito Comunista, del quale ambedue facevano parte, aveva avuto verso Gramsci stesso ponendolo in ostracismo ed ordinando alle sezioni, tra l’altro anche quella di Sesto Fiorentino alla quale essi stessi appartenevano, di togliere dalle pareti le foto di Gramsci. La tesi di fondo del libretto di Giuseppe era quella che c’era una grande differenza tra “ribellione” e “rivoluzione”: la prima era un cambiamento sociale improvviso fatto però senza aver chiaro dove si voleva andare, mentre la seconda era invece un cambiamento, anche questo, talvolta, ma non necessariamente, rapido, che aveva invece molto chiare le idee su dove si voleva arrivare.

Nei termini della teoria nonviolenta la rivoluzione implicava perciò l’aver chiaro quello che viene definito “il progetto costruttivo”. E Ganduscio sosteneva che Gramsci era un “rivoluzionario nonviolento” perché predicava una rivoluzione pacifica, senza spargimento di sangue, costruita dal basso attraverso una forte organizzazione di base (i consigli di fabbrica), che avesse anche chiaro il tipo di società che voleva mettere al posto di quella vecchia. Mentre in Sicilia, invece, tutti i moti sociali che erano avvenuti erano stati fatti senza alcuna idea di dove si sarebbe dovuti arrivare, e spesso anche usando la violenza, e si caratterizzavano perciò solo come “ribellioni”. Come avremo occasione di vedere in seguito, l’incomprensione del Partito Comunista, sia durante l’imprigionamento di Gramsci (si veda il bel film : “Gramsci: i giorni del carcere”, di Lino Dal Pra6), sia soprattutto dopo la sua morte, ha radici profonde in questa non compresa differenza.

L’entusiasmo di Giuseppe e Carla mi ha molto influenzato, ed ambedue mi hanno tramesso l’amore per il pensiero di Gramsci, che da allora mi ha portato a lavorare ripetutamente sul rapporto tra Gramsci e la nonviolenza.

Questi approfondimenti mi hanno portato ad elaborare un modello strutturale, di ispirazione gramsciana, per l’analisi della società a livello macro, che verrà utilizzato, proficuamente, da me e da alcuni miei allievi, sia per l’analisi del fenomeno guerra a livello mondiale, sia per il superamento della separatezza tra modelli conflittuali e consensuali, e sia, infine, per la coesistenza di modelli interpretativi del marxismo occidentale e di quello terzo-mondista. Questo modello gramsciano si basa infatti sulla rilevanza di due fattori fondamentali, la classe sociale ed il territorio, mettendo in luce la co-presenza, nella società attuale, di fenomeni legati alla dominanza della classe sociale alta sulle altre, e della città sulla campagna (cui corrisponde anche quella del Nord sul Sud), e richiede, per il suo superamento, ciò che sosteneva Gramsci, cioè un alleanza del proletariato interno, delle fabbriche del Nord, con quello esterno, i contadini del Sud7 .

 

Il convegno a Ghilarza del 1992 e le sette ipotesi

Il proseguo della riflessione è invece legato alla mia collaborazione, per vari anni, con la Casa per la Pace di Ghilarza, per seminari estivi sulla nonviolenza. Durante uno di questi emerse l’idea di organizzare, in quella città, durante il mese dedicato dal Comune a sviluppare temi culturali, ed insieme alla Casa Gramsci di quella cittadina, una riflessione approfondita sui rapporti tra Gramsci e la nonviolenza. La proposta fu accettata sia dalla Casa Gramsci che dal Comune, si mise a punto il programma e gli invitati, e si arrivò al convegno, di cui abbiamo già accennato, presso la Torre Aragonese di Ghilarza, il 24 settembre 1992. Qui di seguito le sette ipotesi8 della mia introduzione al dibattito.

La prima ipotesi è quella che un iniziale collegamento tra Gramsci e la nonviolenza sia la grande importanza data da lui alla politica come atto morale, una politica cioè legata ai valori etici, alla verità9, alla auto-disciplina. Quando si leggono, infatti, le frasi di Gramsci sull’importanza della verità e della disciplina anche per l’autoformazione delle persone, ritornano in mente frasi abbastanza simili di Gandhi, che, pur partendo da principi filosofici e politici abbastanza diversi, arriva però a conclusioni molto vicine. La politica come atto morale implica anche un impegno etico che porta ad unire ragione e passione, e fa riferimento all’esistenza di un essere umano complessivo, formato di mente, anima e corpo, tutti interconnessi ed interagenti. Questa mi sembra una prima pista molto interessante sulla quale lavorare e da approfondire.

Una seconda ipotesi è quella che riguarda la concezione del popolo e dell’essere umano che Gramsci aveva: egli non credeva nell’ uomo massa, egli aveva una immagine dell’uomo come essere individuale legato, e collegato strettamente agli altri esseri umani, attraverso continui rapporti di interconnessione. E dalla sua lettura emerge chiaramente l’importanza del singolo essere umano e la necessità di formare gli uomini a sentirsi tutti responsabili di quanto avviene in questo mondo. Questo ricorda moltissimo certe frasi di Don Milani, sull’importanza di educare i giovani a superare il fascistico Me ne frego, tanto diffuso, purtroppo, anche oggi, tra i giovani, per portarli invece a capire la bellezza dell’ I care, dell’importanza che tutti gli uomini si sentano responsabili di tutto10. Connesso a questo c’è in Gramsci anche la coscienza che la passività dell’uomo è uno degli elementi che determina negativamente la storia, perché, in questo caso, si lascia fare la storia agli altri, a quelli che hanno beni ed interessi. Da qui la necessità che gli esseri umani, soprattutto quelli che fanno parte della classe operaia, prendano coscienza del loro stato e delle ragioni che lo determinano, diventino attivi, operino per liberarsi dal loro giogo, e non accettino di essere uomini massa. Ma questo sottolinea anche la necessità di superare le concezioni meccanicistiche ed evoluzionistiche, presenti anche in certe scuole marxiste, che fanno ritenere che il comunismo sarebbe stato il naturale sviluppo del progresso capitalistico, e che perciò vedono la storia quasi determinata da forze poco controllabili dall’uomo, mentre, secondo Gramsci, è l’uomo stesso che può, e deve, costruire la propria storia. Mi sembra questa un’altra pista, un’altra ipotesi, veramente importante, su cui questo collegamento tra Gramsci e la nonviolenza si può ritrovare.

La terza ipotesi è quella del legame tra costruzione e distruzione, che si potrebbe anche chiamare dell’importanza del progetto costruttivo. Scrive Gramsci:

E’ distruttore-creatore chi distrugge il vecchio per mettere alla luce, far affiorare, il nuovo che è diventato necessario ed urge implacabilmente al limitare della storia. Perciò si può dire che si distrugge in quanto si crea11.

Da questa si evince che il mondo nuovo si costruisce all’interno del vecchio mondo e, che, man mano che nasce quello nuovo, a poco a poco il vecchio crolla, e si distrugge. Da questa impostazione emerge, tra l’altro, l’importanza degli aspetti strategici, progettuali ed anche la centralità del processo educativo, del prepararsi ad essere uomini liberi, della necessità di costruire una nuova classe dirigente, un nuovo gruppo che non aspetti la palingenesi, il cambiamento subitaneo ed improvviso di tutta la realtà, la rivoluzione vista come azione improvvisa, ma che, senza aspettare questo fatidico giorno, cominci da subito a trasformare la realtà nel senso desiderato, dando vita appunto a quegli aspetti innovativi che, come accennato prima nella citazione di Gramsci, porteranno alla crescita della società nuova ed alla morte di quella vecchia…. Questa è un’altra delle ipotesi, che mi sembra valga la pena di essere sviluppata, che conferma l’apertura di Gramsci verso le tematiche, e le modalità di lotta, della non violenza.

La quarta ipotesi è strettamente connessa a quella che abbiamo appena veduto, ed è l’importanza data da Gramsci alla guerra di posizione, invece di quella di movimento. Una guerra cioè vista non come uno scontro frontale, ma con continui processi molto lunghi di prese di posizione, di conquista o costruzione delle famose “casematte”, come avamposti della società da costruire in mezzo a quella vecchia da distruggere. E’ questo tipo di lotta e di guerra, appunto di posizione, con avanzamenti e sconfitte, ma con altri avanzamenti, fino alla trasformazione sociale completa, che Gramsci vede come fondamentale in un tipo di società come la nostra, dei paesi occidentali avanzati ed anche, spesso solo a parole, democratici. Anche su questo le molte pagine degli scritti di Gramsci sono estremamente interessanti, e richiamano la nonviolenza, e la sua strategia di trasformazione della società attuale, una strategia rivoluzionaria, sì, ma senza violenza, che porta avanti la lotta con un principio di gradualità, da lotte di intensità minore ad altre sempre più grandi, fino alla totale trasformazione sociale della realtà nella quale viviamo. Dalla lettura dei testi gramsciani, ma in particolare delle Lettere dal Carcere e dai Quaderni del Carcere ho tratto l’impressione che il discorso sulla guerra di posizione, e cioè di una strategia nonviolenta di trasformazione sociale, sia andato aumentando in Gramsci dall’inizio del suo imprigionamento verso la fine della sua vita12. E’ questo, della guerra di posizione, un altro filone, un’altra ipotesi importante del rapporto tra Gramsci e la nonviolenza.

La quinta è l’ipotesi dell’importanza dell’organizzazione di base, e del controllo dal basso, che è quella che si può chiamare la rivoluzione dal basso, e che cioè Gramsci, in tutto il suo pensiero, tenga a sottolineare l’importanza dell’organizzazione di base, dei gruppi e dei consigli operai, dei vari organismi di base. E quindi l’importanza di un basso che si organizza, per creare una nuova società, e mettere, sia pur gradualmente, fine alla vecchia società capitalistica e sfruttatrice. Dando vita ad una specie di contropotere di base che poi, a poco a poco, riuscisse ad impregnare e trasformare tutta la società. Questa idea gramsciana è stata arricchita, in seguito, da Aldo Capitini (il fondatore del Movimento Nonviolento Italiano e l’organizzatore della Marcia per la Pace Perugia-Assisi), che considerava Gramsci suo maestro… Capitini, riprendendo alcune idee di Gramsci, fonda un giornale Il potere è di tutti, con il quale cercava di educare alla partecipazione attiva i contadini, gli operai, gli studenti, affinché organizzassero, nelle scuole, nelle fabbriche, nelle campagne, degli organismi di base che dovevano essere gli elementi fondamentali per creare una società diversa13. E questo ha portato anche all’organizzazione, da parte di Capitini, dei COS, Centri di Orientamento Sociale, che erano appunto dei centri di informazione e discussione pubblica, nati originariamente nella città di Perugia, ma che si sono poi diffusi in tutta Italia. In questi si presentavano e si discutevano, da una parte, i temi di amministrazione locale, invitando anche gli amministratori a discuterne con il pubblico perché si facessero certe cose, o delle ragioni del perché non si facevano altre cose, e così via. Ma dall’altra parte anche, in modo alternato, i problemi mondiali, il perché delle guerre in corso o in preparazione, e su cosa si poteva fare per evitarle, e così via. E questo con l’idea, che è sempre molto attuale, che è importante interessarsi dei problemi locali, ma che bisogna sempre avere presente i loro collegamenti con i problemi mondiali.

Capitini, nei COS, dedicava spesso del tempo alla conoscenza di Gramsci e del suo pensiero dato che, come abbiamo visto, vedeva Gramsci come suo ispiratore per questo tipo di attività. La teoria del potere di Capitini aveva stretti collegamenti con quella di Gramsci che è, anche, la teoria del potere alla base della nonviolenza. Questa sostiene che non esiste tutto il potere al centro e nessun potere alla base, ma, che, ognuno di noi, ognuno dei cittadini, ha un briciolo di potere, e che, se prende coscienza del proprio potere, se riesce ad organizzarsi, a collegarsi con altri gruppi nella stessa condizione, a diventare attivo e non passivo, anche attraverso l’azione diretta nonviolenta, se riesce a fare bene questo lavoro, il potere di chi lo detiene attualmente diminuisce e diventa sempre meno forte, e che, se questo movimento di sviluppo del potere dal basso si accresce e si allarga, quello dall’alto rischia di indebolirsi ed anche di crollare14.

La sesta ipotesi, è il superamento dell’idea di dittatura del proletariato in quella di egemonia. L’egemonia è un concetto che include anche momenti consensuali, di condivisione da parte di tutti i gruppi, non solo del gruppo egemone, il che implica un forte lavoro per convincere gli altri delle proprie idee e dei propri punti di vista. Il concetto di “egemonia culturale della classe operaia” di cui parla Gramsci, viene considerato molto importante da Capitini il quale scrive:

Se sul piano politico deve formarsi la volontà collettiva per la trasformazione sociale, il Gramsci vede che sul piano culturale occorre una riforma intellettuale e morale, con una nuova concezione del mondo, e questa riforma molto più complessa è riforma ‘in senso forte’15.

E Capitini, rispetto al concetto di egemonia, appoggia la tesi di Bobbio:

Bobbio. sottolinea l’importanza del consenso nel pensiero di Gramsci che si estrinseca anche nel concetto di egemonia intesa non solo come direzione politica, ma anche come direzione culturale, e che include, ma non si identifica, con l’uso della forza (vista come strumentale e subordinata all’egemonia) che ha una estensione maggiore e comprende anche la direzione culturale, cioè la formazione del consenso, oltre la direzione politica ed ancora: ..mette al centro del processo rivoluzionario non il numero di persone, non la forza bruta, ma la capacità di elaborazione culturale16.

Ed infatti l’egemonia non si identifica né si esaurisce nella forza, specie di quella bruta di tipo poliziesco e militare messa in atto nel’Unione Sovietica da parte di Stalin. Questo porterà Gramsci al rifiuto, in modo molto netto, e alla condanna dello stalinismo, posizione che, data l’impostazione dell’allora Partito Comunista, lo metterà spesso in difficoltà all’interno del partito da lui stesso fondato, e per l’adesione al quale verrà anche messo in carcere.

Una ultima ipotesi, più gramsciana che nonviolenta, dalla quale i movimenti nonviolenti hanno tutto da imparare, è quella del superamento della mitizzazione della classe operaia, tradizionalmente intesa come gli operai delle grandi industrie dei paesi sviluppati, come leva principale del processo rivoluzionario. Questo avrebbe dovuto avvenire, perciò, nei paesi e nelle zone industrialmente più forti, come in realtà non è affatto avvenuto. Questa teoria metteva ai margini, in questo processo, i contadini del mezzogiorno ed i popoli dei paesi non industrializzati, nei quali, invece, molte volte ci sono stati movimenti rivoluzionari ispirati al socialismo. Uno dei punti essenziali dell’insegnamento gramsciano, che può permettere di superare il distacco tra il marxismo dei paesi occidentali e quello terzomondista, era quello di trovare punti di accordo ed una strategia rivoluzionaria comune tra operai e contadini, tra Nord e Sud17.

Ma come abbiamo già accennato varie di queste ipotesi hanno avuto l’appoggio di Don Nardone18 ma il quasi totale dissenso di Caprioglio che ha “dichiarato che, quando ha ricevuto l’invito, non ha nascosto le sue perplessità nel vedere accostato il pensiero di Gramsci a quello di Gandhi e di Tolstoj, e dichiara perciò di aver scelto, in questo dibattito, di fare l’avvocato del diavolo, sostenendo la tesi contraria alla mia, e cioè che il pensiero di Gramsci non ha nulla a che vedere con la nonviolenza. Infatti, secondo lui, Gramsci è strettamente ancorato al pensiero di Marx, ed influenzato anche da quello di Sorel, e pur utilizzando le armi della critica sosteneva anche la critica delle armi ed accettava l’assioma che la violenza è la levatrice della storia.

Secondo Caprioglio, infatti, la cultura nella quale Gramsci era immerso, e che aveva accettato, era una cultura violenta di origine hegeliana: per lui l’emancipazione dei lavoratori, per la quale lottava e alla quale aveva dedicato la propria vita, non avrebbe potuto avvenire senza violenza” 19 .

Non mi sembra il caso di riprendere qui gli elementi principali di queste discussioni ed anche le mie risposte ai dubbi espressi da Caprioglio. Le persone interessate le possono ritrovare ed approfondire attraverso il volume citato ripetutamente. Quello che mi sembra importante ripetere qui è il fatto che, personalmente, non riesco a liberarmi dal dubbio che queste perplessità di Caprioglio verso queste ipotesi abbiano avuto molta influenza sia sulla “perdita” delle registrazioni ufficiali dell’incontro, sia sul silenzio della stampa di sinistra, cui il mio primo libretto20 con queste ipotesi era stato mandato per recensione, su questo dibattito.

 

Il seminario del 2011 alla Casa per la pace di Ghilarza

Comunque queste censure, se di questo si tratta, e questi silenzi, sono alla base del desiderio di confrontarmi su queste ipotesi con altre persone interessate a questa tematica, che hanno portato all’organizzazione, insieme alla nascente “Rete Nonviolenza della Sardegna” di un seminario di studi sulla nonviolenza e Gramsci che si è tenuto, nei giorni dal 6 al 9 luglio 2011, alla Casa per la Pace di Ghilarza . In questo seminario, cui hanno partecipato 12 persone oltre al sottoscritto, ci siamo divisi in tre gruppi di lavoro, ciascuno dei quali “con il compito di approfondire e verificare un’ipotesi di partenza attraverso letture, sottolineature, confronti e l’utilizzo della tecnica della stesura collettiva cara a Don Milani”21. Il compito dei gruppi, grazie all’abbondante materiale fotocopiato di molti testi prestatici dalla Casa Natale di Gramsci di Ales, dove si concluderà il seminario, era quello di trovare elementi di appoggio, od anche di contrasto, alle principali ipotesi da me illustrate nel quaderno citato che tutti i partecipanti avevano ricevuto con il compito di leggerlo prima di venire a Ghilarza. In realtà elementi di contrasto non ne sono emersi, ma anzi sono emersi molti punti di approfondimento delle ipotesi di partenza. Anche qui non posso riprendere, per non allungare troppo questo saggio, né il testo della relazione complessiva del seminario apparsa nel volume del XII Premio Gramsci, già ripetutamente citato, né l’articolo riepilogativo sul seminario apparso sul numero di Azione Nonviolenta, anche questo già citato.

Mi limiterò ad alcune citazioni di questo ultimo articolo che mettono in luce aspetti non sufficientemente chiariti nell’esposizione delle ipotesi di partenza . Il primo gruppo aveva l’incarico di approfondire le ipotesi sul rapporto tra morale e politica e tra individuo e società . Si scrive nella relazione citata: “Gramsci, in particolare nei Quaderni dal Carcere, appare come sostenitore di una profonda integrazione fra morale e politica: ‘ L’etica di un gruppo deve essere concepita come capace di diventare norma di condotta per tutta l’umanità’ (Quaderni, 6, VIII). Strettamente correlato a questo è il rapporto tra individuo e collettività, secondo l’autore ‘ la collettività deve essere intesa come prodotto di un’elaborazione di volontà e pensiero collettivo, raggiunto attraverso lo sforzo individuale concreto e non per un processo fatale estraneo ai singoli’ “(Quaderni, 6, VIII)” 22. Commenta la relazione: “E’ qui ben chiara l’importanza che l’individuo e le sue scelte (come quella di partecipare attivamente agli accadimenti del proprio tempo e di associarsi per farlo con più efficacia) rivestono ai fini stessi del cambiamento sociale”23 .

Il secondo gruppo doveva approfondire l’ipotesi dei rapporti tra violenza e nonviolenza . Si scrive nell’articolo citato: “[Gramsci] si mostra estraneo ed avverso sia al riformismo che al massimalismo rivoluzionario, perché il primo è insufficiente rispetto agli sviluppi storici, mentre il secondo minimizza l’avversario e si crogiola nell’attesa di una rivoluzione messianica ed irreale”24 .

E si scrive ancora nella relazione: “Un altro punto importante che avvicina l’intellettuale sardo alla nonviolenza è rappresentato all’attenzione per l’uso dei mezzi più appropriati durante la lotta sociale. Gramsci avverte che alle azioni illegali e violente di uno Stato è errato e perdente rispondere con gli identici mezzi, in quanto si restituirebbe allo Stato stesso la sua patente di ‘difensore della legalità’ che aveva appena persa. Ancora oggi i movimenti nonviolenti si sforzano di chiarire e far capire a tutti questo fondamentale punto ispiratore dell’azione diretta nonviolenta”25.

Il terzo gruppo doveva lavorare, oltre che sul concetto di “egemonia”, anche sulle ipotesi delle strategie di lotta. Si scrive nella relazione, su questo secondo argomento: “Gramsci paragona la lotta di classe ad una guerra di posizione, piuttosto che ad una guerra frontale o di movimento (come era stata la rivoluzione sovietica ). In quest’ottica assume rilevanza la costruzione di spazi e presidi della nuova società civile dentro la struttura della vecchia, che l’autore chiama ‘fortezze o casematte’, e il cui scopo è quello di diffondere una cultura di uguaglianza e giustizia capace di farsi strada all’interno dell’esistente, perché ‘la rivoluzione non è un atto taumaturgico, è un processo dialettico di sviluppo storico’ (Ordine Nuovo, 1919)”26.

In conclusione si scrive in questo articolo : “Dal lavoro collettivo di studio e di confronto sono quindi emersi non pochi spunti utili a confermare le nostre ipotesi di vicinanza ed affinità, almeno di una parte del pensiero dell’intellettuale sardo del Novecento con quello nonviolento. Questa provvisoria conclusione, pur suscettibile di maggiori approfondimenti e di nuove verifiche, mette in luce un Gramsci per molti versi sorprendentemente attuale, oltre che compatibile con i fondamenti della nonviolenza”27 .

 

E’ ancora attuale parlare di Gramsci e socialismo?

Nel concludere questo articolo vorrei riprendere le tesi con cui avevo iniziato il mio primo saggio sui rapporti tra Gramsci e la nonviolenza: “ Parlare attualmente di Gramsci e di socialismo sembra andare del tutto controcorrente, dato il crollo dei paesi cosiddetti socialisti, e quella che è stata definita “la fine della storia”28, e cioè la presunta vittoria del sistema capitalista a livello

mondiale. Ma questo pone un problema importante al quale si può riallacciare il pensiero e la figura di Gramsci. E’ fallito il socialismo come modello di società, oppure sono fallite le due strade finora intraprese per raggiungerlo, e cioè, da una parte, la rivoluzione armata, violenta, utilizzata in Russia da Lenin, ed il riformismo, utilizzato invece nei paesi occidentali?

L’ipotesi che sia vera questa seconda ipotesi, e che sia ancora aperta e da sperimentare la strada della rivoluzione nonviolenta dal basso, è stata sostenuta, con molte valide argomentazioni, da Giuliano Pontara29, un obbiettore di coscienza italiano al servizio militare che ha preferito l’esilio in Svezia (dove è diventato esimio docente di filosofia morale) al carcere, allora previsto, in Italia, per coloro che rifiutavano di esercitarsi a fare la guerra. Pontara è uno dei più profondi studiosi italiani delpensiero gandhiano, ed autore di molti importanti libri su tematiche nonviolente. La tesi di Pontara,presentata ad uno dei due dibattiti organizzati dal Movimento Nonviolento, fondato da Aldo Capitini, su “Marxismo e Nonviolenza nella transizione al socialismo” (cui hanno partecipato

importanti politici e studiosi del nostro paese) era quella che tra il voto ed il fucile ci fosse una terza via al socialismo, rivoluzionaria nonviolenta (che lui definisce di “nonviolenza specifica”) che avrebbe potuto, e potrebbe forse ancora, portare il nostro paese ad un socialismo dal volto umano.

Secondo Pontara, infatti, la via rivoluzionaria armata era contro-produttiva perché tendeva a deumanizzare ed a brutalizzare i valori del socialismo, ed ad insediare nei posti dirigenziali persone e gruppi autoritari che avrebbero mantenuto il potere attraverso la soppressione delle informazioni, la segretezza, l’irregimentazione, l’eliminazione totale dell’autogestione del popolo; la via riformista, quella del voto, era per lui insufficiente perché costringeva la classe operaia ad annacquare

notevolmente il programma socialista per allearsi con il ceto medio necessario a vincere le elezioni. Il ceto medio, a sua volta, avrebbe potuto poi allearsi con le forze di destra per bloccare e distruggere quanto già fatto, senza che la classe operaia fosse preparata ad una resistenza nonviolenta di fronte a questa restaurazione. Per Pontara perciò la via più valida era quella della rivoluzione nonviolenta, mai purtroppo ancora realizzata, perché questa tende ad inibire nell’avversario quei processi sociali e psicologici che lo portano a de-umanizzare il nemico, e tende a ridurre il processo di scalata della violenza.

Ma, secondo Pontara, la scelta di questa via richiede l’accettazione di cinque principi: 1) non causare la morte o gravi sofferenze all’avversario; 2) assumere su di sé i sacrifici necessari a portare avanti la propria causa; 3) mantenere, in tutte le fasi, la massima obbiettività ed imparzialità, il massimo controllo da parte dei partecipanti, e la non clandestinità; 4) allargare la partecipazione anche grazie ad un programma costruttivo che ricerchi obbiettivi sovra-ordinati che richiedono, per il loro raggiungimento, la collaborazione delle parti in conflitto; 5) graduare i mezzi di lotta: arrivare alla scelta di quelli più radicali (come la disobbedienza civile o il boicottaggio) solo quando quelli più blandi si sono dimostrati chiaramente insufficienti.

Norberto Bobbio, che è stato uno degli interlocutori privilegiati di questi dibattiti, ha sostenuto la validità e l’importanza di queste tesi ed ha scritto: “La ‘complementarietà’ della nonviolenza rispetto al marxismo è stata la tesi che ha finito per emergere e che merita di essere considerata come il punto di partenza di ulteriori discussioni”30. Ed infatti da quei primi dibattiti ne sono nati vari altri sulla “terza via al socialismo” che però, più che discutere sulla via di trasformazione, e sul collegamento ed i rapporti tra la via utilizzata per la trasformazione ed il modello di società realizzato, come nei nostri convegni, hanno parlato solo del modello riformista, come realizzato in certi paesi europei come l’Inghilterra e l’Italia, considerandolo come una terza via (in realtà come terzo modello) al socialismo tra il capitalismo ed il comunismo sovietico. In un articolo sulla Stampa di Torino Norberto Bobbio si è lamentato che questi dibattiti, successivi al nostro (sul marxismo e lo stato, sul leninismo, sulla terza via al socialismo), dibattiti che qualcuno ha definito “litigio a sinistra”, non abbiano tenuto in alcun conto quelli precedenti del Movimento Nonviolento e che, perciò, per questa mancanza, siano stati molto più poveri di quello che avrebbero potuto essere altrimenti. Infatti, rispetto alla cosiddetta alternativa del modello riformista ed al suo considerarsi come una terza via, il Movimento Nonviolento ha scritto, nella introduzione degli atti del primo dei convegni su citati:

Il problema dell’uso della violenza o della nonviolenza nella transizione al socialismo è stato sottovalutato dalla sinistra che ha ritenuto, a torto, il problema dei metodi come secondario rispetto a quello della conquista del potere… L’esperienza storica ha dimostrato ad abundantiam come le modalità con cui si arriva al potere sono una variabile fondamentale anche del come tale potere viene mantenuto e gestito e che perciò un socialismo dal volto umano necessita di un modo di arrivare al potere diverso dalla rivoluzione armata, ma forse diverso anche dal semplice uso dell’arma elettorale…Resta perciò aperto il problema di una via originale di transizione al socialismo che non si identifichi né con la tradizionale via riformistica dei paesi a capitalismo avanzato (che spesso si è limitata a razionalizzare il sistema senza trasformarlo profondamente) né con quello della rivoluzione armata portato avanti nei paesi del terzo mondo (che spesso danno vita a regimi dittatoriali e totalitari e non a quella nuova forma di società intravista da Marx, Lukačs, Gramsci e altri autorevoli marxisti)31.

Da questo punto di vista la figura ed il pensiero di Gramsci è fondamentale per sviluppare questo tema dato che le sue idee possono dare attualità al progetto di una rivoluzione non violenta nel nostro paese, che deve essere ancora fatta, con la speranza di dar vita ad un socialismo dal volto umano, autogestito, e anti-autoritario, come quello che si era tentato di realizzare, ai tempi della primavera di Praga, da parte di Dubcek e di altri socialisti democratici32, ma che è stato ucciso ai suoi albori dai carri armati sovietici, non senza una bellissima resistenza nonviolenta durata circa otto mesi che ha portato molti militari russi a solidarizzare con i resistenti locali, ed ha convinto il governo russo a cambiare rapidamente i loro militari che occupavano quel territorio per paura che diventassero pericolosi, una volta tornati in Russia, per il mantenimento dello stesso regime.33 [Queste ultime considerazioni sono riprese dal volume del XII premio Gramsci, alle pp.375-377]

E’ questa una domanda aperta per tutti coloro che non si identificano con l’attuale modello di sviluppo, di cui fa parte anche il nostro paese, e cercano strade nuove, anche attraverso la messa in atto di “casematte”, per usare la terminologia gramsciana, con la organizzazione di un movimento che ha bocciato, con il referendum, la costruzione di nuove centrali nucleari, che ha scelto l’acqua come “bene comune”, non privatizzato; che lotta concretamente contro la mafia organizzandosi per fare approvare leggi per il sequestro dei beni mafiosi, e per coltivare, in cooperative, i terreni agricoli confiscati a questi stessi; che si sono organizzati dal basso per far mettere sotto controllo, dal nostro Parlamento, con la Legge 185/1990, le nostre vendite di armi all’estero, e che prevedeva anche, se fosse stata attuata, una norma per il finanziamento della riconversione delle industrie belliche. Oppure i non molti, ma che hanno pagato di persona per questi gesti, che si sono rifiutati, e si rifiutano – o attraverso l’obiezione di coscienza al servizio militare oppure non pagando le tasse per le spese militari – di partecipare ad uccidere altri esseri umani in guerre, sedicentemente “umanitarie”, “per la democrazia”, o “contro il terrorismo”, in realtà per mantenere i privilegi del mondo ricco rispetto a quello povero, e per il controllo diretto delle fonti energetiche necessarie al suo sviluppo. Movimento di cui fanno parte anche tutti coloro che, concretamente, giorno per giorno, lavorano umilmente per eliminare gli sprechi della società dei consumi, attraverso il riciclaggio ed il riuso, con la ricerca di forme economiche equo-solidali, a chilometro zero, o con i gas (gruppi di acquisto solidali) che ravvicinano i coltivatori che cercano di superare l’agricoltura ed il commercio dello spreco – milioni e milioni di chilogrammi di cibo, e di beni, utilizzabili, buttati via ogni giorno nelle pattumiere per rispondere alla logica del mercato e non a quella dei bisogni della gente – ed i consumatori, ridotti alla quasi miseria dal processo di globalizzazione imperante, con la delocalizzazione delle industrie verso paesi dove non esistono sindacati e dove il costo del lavoro è da 10 a 20 volte inferiore al nostro. E cos’ via.

Ma le esperienze alternative, di questo tipo, sono moltissime e coinvolgono milioni di persone che forse, se si va a vedere bene, sono la maggioranza della popolazione del nostro paese, anche se molti di loro, schifati dalla politica dell’egoismo, della corruzione e del ricatto, non vanno nemmeno a votare, e quindi, a livello parlamentare, sono inesistenti. Non è proprio possibile, prendendo coscienza di questi fatti, e tenendo vivo l’insegnamento gramsciano, dell’importanza di una rivoluzione nonviolenta, dal basso, unirsi e cambiare pagina?. A questo proposito mi sembra importante chiudere questo articolo con un’altra citazione di Gramsci:

Quello che accade, accade non tanto perché una minoranza vuole che accada, quanto piuttosto perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha lasciato che le cose accadessero

Non lasciamo che questo avvenga!

 

NOTE

1 Walter Porcedda, La Nuova Sardegna, 25 maggio, p. 36

2 in “Azione Nonviolenta “,nov. 2011, p. 12

3 si veda, “Antologia Premio Gramsci – XII Edizione -Ales- gennaio 2011”, Editrice Democratica Sarda, Sassari, 2012, pp.375-432

4Tra i suoi dischi ci sono: “Lu carzaratu. Canti siciliani di carcere”, della serie Folklore del mondo, a cura di Roberto

Leydi, registrato e pubblicato dalla Ricordi, Milano; tre “Canti del lavoro”, in due dischi curati da Leydi, per i “Dischi del Sole; “Quantu balisicò. Canti siciliani d’amore”, sempre per i Dischi del Sole; “Canti popolari siciliani. Conversazione e canto di Giuseppe Ganduscio”, registrato e pubblicato da Trinacria, Palermo; e “Sicilia: antichi canti d’amore”, anche questi della Trinacria di Palermo.

5 Libri Siciliani, Palermo, II ediz., 1970.

6 Il film ha vinto il premio Locarno, nel 1971, ma è stato visto pochissimo nel nostro paese. Come mai?, c’è da chiedersi.

7 Si veda, su questo modello, la sua illustrazione in A. L’Abate, Metodi di Analisi nella Scienze Sociali e ricerca per la pace: una introduzione, pubblicato in coedizione da Transcend University Press di Basilea, e Multimage di Firenze, 2013, pp. 272-273, e, per l’applicazione del modello all’analisi delle guerre: A. L’Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008.

8 Queste ipotesi sono riprese, ma con vari tagli, dal mio saggio, pubblicato nel volume del XII premio Gramsci, citato, alle pp.380-386. Per l’illustrazione esaustiva delle ipotesi si legga il testo nel libro citato.

9 Scrive V. Gerrattana nell’introduzione al II volume delle Lettere dal carcere, (prima pubblicazione, Einaudi, Torino, 1947): ”Io sono sempre stato dell’opinione che la verità abbia in sè la propria medicina” così [scrive Gramsci] in una…lettera alla moglie…(5 novembre 1936)….il contesto è dato dai rapporti privati, sentimentali, ma è lo stesso principio che spinge Gramsci a sottolineare nei Quaderni, che nella politica di massa dire la verità è una necessità politica”. Nel pubblico e nel privato, nella politica e nei rapporti personali, non dire la verità quando si parla, e si può parlare, è sempre, indipendentemente dalle situazioni, fonte di inganni e di conseguenze disastrose” p.14. Il mio commento era quello che questa importanza data da Gramsci alla verità in politica lo avvicina di più ai nonviolenti (Gandhi, M.L. King, Capitini, ecc.) che a Machiavelli, pur da Gransci studiato a fondo, che subordina la verità al fine da perseguire. Nel 1987 le “Lettere dal carcere” sono state ripubblicate, in due volumi, dal giornale , L’Unità, con due prefazioni, al I volume di Spriano, al II di Gerrattana.

10 Don L. Milani, L’ubbidienza non è più una virtù, Libreria Editr. Fiorentina, Firenze, 1983.

11 A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerrattana, Einaudi, Torino, 1975, in 4 voll., citazione nel Vol. II, p.708.

12 E’ una tesi questa confermata anche da P. Spriano, op.cit., e dalla R. Rossanda, de “Il Manifesto”. Altri autori, come la Maciocchi nel suo libro: Per Gramsci, Il Mulino, Bologna, 1974, e M. Salvadori, in Gramsci ed il problema storico della democrazia, Einaudi, Torino, 2a ed. 1973, p. 140, sostengono invece l’unitarietà del pensiero gramsciano.

13 Su questi aspetti del pensiero di Capitini si legga il suo: Il potere di tutti, La Nuova Italia, Firenze, 1969; altra ediz., Guerra Edit., Perugia, 1999.

14 La teoria del potere della nonviolenza è illustrata nel modo molto chiaro ed esaustivo nel primo volume della trilogia di Gene Sharp, su La politica della azione nonviolenta” Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1985/6/7, in tre volumi. La validità di questa teoria è stata confermata da molte delle rivoluzioni a-violente avvenute nell’ultimo secolo (Sud Africa, Polonia, Cecoslovacchia, Germania dell’Est, alcuni dei paesi arabi, ecc.) nelle quali la forza per il cambiamento del regime è venuta dalla grande partecipazione di base.

15 Capitini a pag 111 del suo testi Educazione aperta, La nuova Italia, Firenze, 1967, 2 voll.

16 Ibid. Il testo di Bobbio citato viene dalla sua relazione.”Gramsci e la concezione della società civile” presentata al Congresso sardo di studi gramsciani del 1964.

17 Sul marxismo terzomondista si veda soprattutto S. Amin, Imperialismo e rivoluzione socialista nel Terzo Mondo, Angeli, Milano, 1979.

18 Per le tesi di Don Nardone su questo argomento si veda il suo libro: L’umano in Gramsci: Evento politico e comprensione dell’evento politico, Dedalo Libri, Bari, 1977; ed anche, nel libro del XII premio Gramsci, già citato, il capitolo sul contributo di Don Giorgio Nardone, pp. 405-407.

19 Nel libro sul XII Premio Gramsci, citato, alla p. 386.

20 Faccio riferimento qui alla prima edizione del libretto : “ Gramsci e la nonviolenza” pubblicato, come quaderno, dalla Fucina per la nonviolenza di Firenze.

21 Si veda la relazione del gruppo apparsa sul numero di “Azione non violenta” del Novembre 2011, p.12

22 Nell’articolo su “Azione Nonviolenta”, citato, p. 12

23 Ibid., p. 12.

24 Ibid. p. 12.

25 Ibid., p. 13.

26 Ibid. p. 13.

27 Ibid., p. 13.

28 F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992.

29 G. Pontara, “Esiste una terza via al socialismo?”, in, Movimento Nonviolento, a cura di, Nonviolenza e Marxismo, Libreria Feltrinelli, Milano, 1981. Di questo stesso studioso si vedano anche la cura e l’introduzione a, M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 1973, riedito con aggiornamenti nel 1996; la voce “Nonviolenza”, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, a cura di, Dizionario di politica, Utet-Tea, Milano, 1990; Guerra, Disobbedienza civile, Nonviolenza, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 1996, L’antibarbarie: La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Ediz. Gruppo Abele, Torino, 2006, ripubblicato, nel 2008, come allegato al giornale L’Unità.

30 N. Bobbio, articolo su “Il Ponte” riprodotto in Movimento Non violento (a cura di) , Marxismo e non violenza, Editrice Lanterna, Genova, 1977, p.14. Per un quadro riepilogativo, con aggiornamenti, di questo e del successivo dibattito sullo stesso tema organizzato dal Movimento Nonviolento, si veda: A. L’Abate,”Marxismo e Nonviolenza nella transizione al Socialismo”, in , a cura del giornale “Liberazione”, Agire la nonviolenza: prospettive di liberazione nella globalizzazione, Ediz. Punto Rosso, Milano, 2004, ripubblicato in, A. L’Abate, Per un futuro senza guerre, Liguori, Napoli, 2008.

31 Movimento Nonviolento, a cura di, Marxismo e Nonviolenza, citato, pp.7-8.

32 Sui fatti della Cecoslovacchia si vedano: Z. Ziynar, A. Dubcek, Che cosa fu la ‘Primavera di Praga’ ?- Idee e progetto di una riforma politica e sociale, Lacaita Edit., Manduria (Ta.), 1989; e R. Richta, Progresso tecnico e società industriale, Jaka Book, Milano, 1977. Richta è un filosofo-sociologo cecoslovacco che ha usato per primo il termine “socialismo dal volto umano” ed ha diretto un gruppo di lavoro che ha elaborato un interessantissimo documento, in appendice al suo libro prima citato, su: “Per un nuovo modello di socialismo”. Per testi più recenti si vedano i bei libri di F. Leoncini, a cura di, Cosa fu la ‘Primavera di Praga’ ? Idee e progetti di una riforma politica e sociale, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia, 2007; e, L’Europa del disincanto, dal ’68 praghese alla crisi del neoliberismo, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2011.

33 Sulle lotte nonviolente della popolazione di quel paese contro l’occupazione militare delle forze armate russe si veda: G. Sharp, Politica dell’azione non violenta, Edizione Gruppo Abele , Torino, 1985/86, 3 voll. Le pagine che riguardano questa resistenza sono nel volume I, pp. 158-160

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