fonte: http://www.tecalibri.it/

Architettura dell'occupazione
Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele
di Eyal Weizman


Bruno Mondadori, Milano, 2009, Saggi


Tratto da http://www.tecalibri.it/

Indice

Prefazione all'edizione italiana

Architettura di frontiera

Geografia elastica

Laboratorio

La politica della separazione

L'architettura della distruzione

Archeologia biblica

La terra scavata

Evacuazioni: decolonizzare l'architettura

Portare i profughi via dai campi

Omicidi mirati: l'occupazione aerea

Tecnologia invece che occupazione

Legalizzare l'assassinio


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Prefazione all'edizione italiana

Sono passati tre anni da quando il libro è stato scritto e due da quando è stato pubblicato per la prima volta in inglese. Sono stati anni ricchi di avvenimenti e chi ha preso questo libro in mano di sicuro ne conosce l'ordine: la vittoria di Hamas alle elezioni palestinesi d'inizio 2006, la guerra in Libano qualche mese più tardi, nell'estate dello stesso anno, la presa del potere a Gaza da parte di Hamas nell'estate del 2007, la Guerra di Gaza nel 2008-2009. Nello stesso arco di tempo è proseguito anche un altro processo, meno spettacolare ma altrettanto significativo: gli insediamenti non hanno cessato di espandersi per quantità e per numero di abitanti e il Muro ha continuato a farsi tortuosamente strada, strangolando le comunità palestinesi come una trappola a scatto. Nuovi posti di controllo e nuovi avamposti sono stati costruiti, dividendo città e villaggi e precludendo ai palestinesi la possibilità di accedere o perfino solo di scorgere i paesaggi della loro terra. Della Palestina in cui erano nati i palestinesi che oggi hanno quarantadue anni non è rimasto ormai quasi niente di riconoscibile. Nel caso della Palestina il paesaggio e l'ambiente costruito non sono solo allegorie delle relazioni di potere: qui l'ambiente non solo rappresenta o dà forma visiva alle relazioni di potere ma è il mezzo stesso del potere costituito. Esso non è solo il luogo dove la guerra si svolge, ne è il vero e proprio strumento. 



Questo libro intende svelare la relazione fra due tipi di trasformazione: da un lato la violenza spettacolare degli eventi, facili da ricordare per via dell'interesse dei media – bombe, uccisioni, missili, bulldozer (che ai più sembrano apparire dal nulla); dall'altro avvenimenti più lenti e consequenziali – la costruzione di edifici, strade, tunnel – non meno violenti e distruttivi. I crimini commessi attraverso l'ambiente sono meno ovvi e più difficili da misurare, hanno bisogno di diversi strumenti di indagine. Eppure, i due tipi di violenza sono legati e senza dubbio interagiscono fra loro.

Il conflitto territoriale in Palestina ha riformulato il principio secondo il quale un territorio, per essere governato, ha bisogno di essere costantemente rimodellato. Questo principio non riguarda solo la ricerca di una forma coloniale stabile, permanente, "governabile", ma soprattutto la natura stessa del processo di colonizzazione, che si svolge attraverso la costante trasformazione dello spazio. Imprevedibilità e apparente anarchia sono parte di questa violenta logica del disordine. La violenza viene attuata nello spazio non seguendo l'ordine rigido degli assi su cui esso si estende ma rimodellandolo.

La trasformazione dell'ambiente costruito risponde a due azioni di progettazione strategica complementari fra loro: costruzione e distruzione. La recente distruzione in massa delle case di Gaza, per esempio, può essere interpretata come una riprogettazione dell'ambiente edificato. È un dato significativo che i politici israeliani parlino delle modalità della "ricostruzione" di Gaza proprio mentre ordinano di continuare il sanguinoso bombardamento del popolo meno protetto al mondo. La furiosa violenza dell'attacco israeliano ha lasciato sul terreno 1300 morti e 20.000 edifici completamente o parzialmente distrutti – circa il 15% di tutte le costruzioni della Striscia di Gaza.

Questa distruzione, secondo l'immaginazione del governo israeliano, dovrebbe essere seguita da esperimenti edilizi in cui vengono combinati i servizi sociali e l'architettura con lo scopo di sostituire il campo profughi con "progetti residenziali". Uno degli obiettivi che vengono così perseguiti è quello di interrompere la continuità storica, territoriale e sociale del campo profughi, e con essa l'identità politica collettiva del rifugiato, considerato come la più grande minaccia all'ordine politico attuale.

Se, come dimostra quest'ultimo esempio, la politica resta impressa nelle forme che lo spazio assume, allora le analisi formali e topologiche, come quella intrapresa in questo libro, sono contributi importanti per la comprensione di alcuni processi politici e militari che altrimenti rimarrebbero nascosti per via della lentezza con cui si manifestano nel tempo. Io penso a questo libro come a un'investigazione di medicina legale, ma non nel senso fatalistico che termini come "urbicidio" potrebbero suggerire. Non si tratta infatti dell'autopsia di un cadavere: il soggetto dell'investigazione è ancora decisamente vivo e si contorce per l'atroce sofferenza inflittagli. 



Sarebbe troppo facile dire che gli eventi che hanno avuto luogo da quando il libro è stato scritto ne hanno confermato le analisi. A me piace invece pensare che la storia dell'occupazione – raccontata dal punto di vista dello spazio – offra la chiave per la comprensione delle complessità del presente che stiamo vivendo e anticipi le linee, per quanto sfumate possano essere, di un futuro possibile. Nella descrizione dei crimini commessi sull'ambiente – il luogo in cui si svolge la vita fisica e culturale – si esprime anche una passione segreta, una passione il cui oggetto non è uno stato ma un paese e i suoi popoli. In essa si esprime perfino la speranza, per quanto minima e arrischiata, che la vitalità e la bellezza di questo paese siano tanto forti da resistere ai continui tentativi di separazione e che la politica, gradualmente, arrivi ad accettare i fondamentali valori della condivisione e dell'uguaglianza fra i due popoli che vivono sulla stessa terra.


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Introduzione

Architettura di frontiera 



Robinson credeva che, se l'avesse guardata con la giusta intensità, sarebbe riuscito a far sì che la superficie della città gli rivelasse la base molecolare degli eventi storici, e in questo modo sperava di prevedere il futuro. Patrick Keiller 



Il binomio intelligenza-stupidità ha caratterizzato il progetto sionista fin dagli inizi. Murid al-Barghuthi 



Nu'a nu'a sof. Yeshayahu Gavish ("Fuori, andare fuori" – l'ordine per l'inizio dell'assalto nella guerra del 1967) 



Uno scenario di frontiera

Dopo il primo accordo di Oslo del 1993, il cui obiettivo era segnare l'inizio della fine del conflitto in Palestina, per i coloni israeliani è diventato sempre più difficile ottenere permessi ufficiali per stabilire nuovi insediamenti in Cisgiordania. I coloni, di conseguenza, hanno iniziato a fare ricorso a espedienti di pirateria sempre più raffinata per aiutare il governo – che ha sempre visto con favore la fondazione di nuovi insediamenti, senza però potersi pubblicamente mostrare solidale alla loro creazione – a raggirare tanto le sue stesse leggi quanto gli accordi internazionali.

Nel 1999 numerosi coloni si lamentarono con l'esercito della mancanza di copertura per i telefoni cellulari sulla Strada 60, un passante dell'autostrada principale che collega Gerusalemme agli insediamenti nel nord della Cisgiordania. Per risolvere il problema, Orange, il gestore della rete, s'impegnò a montare un'antenna che avrebbe coperto la zona. I coloni indicarono come possibile sito per la struttura la cima di una collina che domina il passante. La stessa collina era già stata luogo di tentati insediamenti in passato, con poco successo: tre anni prima, alcuni coloni avevano sostenuto che la collinetta era in realtà un cumulo di sedimenti, sotto la quale erano sepolti i resti archeologici della biblica città di Migron. Furono effettuati scavi archeologici di prova, che non riuscirono a riportare alla luce niente di più antico di un villaggio bizantino. Nonostante tutto, alla collina fu dato il nome di Migron. Due giovani coloni ne occuparono temporaneamente la cima con i loro container convertiti a uso abitativo, per poi abbandonarla a causa della mancanza di prospettive di sviluppo del luogo.

La cima della collina e i suoi versanti, coltivati a fichi e olivi, erano proprietà di agricoltori palestinesi dei villaggi di Ein Yabrud e Burka, che li utilizzavano per la pastorizia. Nonostante questo, l'esercito israeliano, in virtù dei suoi eccezionali poteri discrezionali, decise che la costruzione di un'antenna per la telefonia cellulare era da considerarsi una questione di sicurezza. La costruzione poteva essere realizzata su terreni privati senza bisogno del consenso dei proprietari. Su richiesta della Orange, la Società elettrica israeliana collegò la cima della collina alla rete elettrica e la compagnia nazionale per i servizi idrici a quella dell'acqua, ufficialmente allo scopo di permettere i lavori di costruzione.

A causa dei ritardi nella costruzione del montante, nel maggio del 2001 i coloni decisero di erigere una finta antenna e ottennero poi dall'esercito il permesso di assumere privatamente un guardiano per vigilare il sito ventiquattro ore su ventiquattro. Il guardiano si stabilì in una roulotte alla base dell'antenna e montò una recinzione che precludeva l'accesso al terreno circostante. Poco dopo, quando fu raggiunto da moglie e figli, la casa fu collegata alla rete elettrica e idrica già esistente. Il 3 marzo 2002 a loro si aggiunsero altre cinque famiglie e così ebbe formalmente inizio l'avamposto di Migron. L'avamposto da allora è cresciuto a ritmo costante. Dal momento che alcune famiglie già risiedevano sul posto, il ministero per l'Edilizia e gli alloggi ha costruito un asilo nido, mentre l'edificazione di una sinagoga è stata sostenuta da donazioni provenienti dall'estero. Migron al momento è l'avamposto più grande fra i 103 disseminati in Cisgiordania. A metà del 2006, l'insediamento contava circa 60 container che ospitavano più di 42 famiglie: circa 150 persone appollaiate sulla cima di una collina attorno a un'antenna per telefoni cellulari.

L'antenna è diventata un punto caldo nel paesaggio che la circonda. L'avamposto si è formato grazie alle infrastrutture realizzate per l'antenna, il cui campo energetico è stato non solo elettromagnetico ma anche politico, ed è servito da snodo per mobilitare, incanalare, consolidare e organizzare forze politiche e processi di varia natura. Migron non è l'unico avamposto costituitosi attorno a un'antenna per la telefonia cellulare. La logica della comunicazione cellulare sembra essere curiosamente compatibile con quella dell'occupazione civile della Cisgiordania: entrambe operano una triangolazione del territorio sulla base di linee che procedono da origini posizionate in alto – fonti di onde radio in un caso e avamposti preesistenti nell'altro – per stabilire reti complesse ed espandersi nello spazio. Inoltre, le reti cellulari svolgono anche una funzione militare. Usandole per le comunicazioni sul campo, l'esercito ha sostituito le ingombranti radio militari con strumenti di taglia ridotta, con cui soldati e unità militari possono scambiarsi immagini del territorio e coordinate Gps.

L'aumento improvviso nella creazione di avamposti si può sempre leggere come un segnale del sospetto di "imminenti compromessi territoriali" da parte dei coloni. In questo modo, infatti, è possibile sabotare le prospettive di progresso nelle relazioni politiche e assicurare ai coloni israeliani quanta più terra possibile, nel caso ci siano da attuare parziali ritiri. Al ritorno dai negoziati della Wye Plantation in Maryland con l'Autorità Palestinese e con l'amministrazione Clinton nell'ottobre 1998, il ministro degli esteri Ariel Sharon invitò i coloni a «muoversi, correre e mettere le mani su quante più colline possibile [...] perché tutto quello che prendiamo ora resterà nostro. Tutto quello su cui non mettiamo le mani ora, sarà loro». Negli ultimi anni, molti avamposti sono stati costruiti nel tentativo di influenzare il percorso del Muro israeliano di divisione, che nel momento in cui scriviamo, nel 2006, avanza tortuoso attraverso la Cisgiordania. La logica seguita è quella per cui, disseminando il terreno con "punti d'ancoraggio" in posizioni strategiche, i pianificatori di stato dovranno ridefinire il tragitto del Muro in modo da poterli includere nel "lato israeliano". Gli avamposti, pertanto, marcano alcuni dei confini più contestati del conflitto fra Palestina e Israele. I cosiddetti "giovani delle colline", spesso appena adolescenti, rifiutano la cultura suburbana dei loro genitori per il fascino della frontiera selvaggia, un fascino ispirato sia dagli spavaldi e rudi eroi del Wild West sia dal mito israeliano dei pionieri sionisti del primo Novecento. I coloni degli avamposti, armati, spesso si scontrano con i contadini palestinesi del luogo, cacciandoli con la violenza dai campi e rubando il loro raccolto. Spesso accade che, per vendicarsi, i militanti palestinesi armati attacchino gli avamposti. Altri avamposti vengono allora stabiliti come "misura punitiva" vicino ai luoghi dove i coloni sono stati uccisi.

Gli avamposti sono diventati così il centro focale di scontri politici e diplomatici. Numerose organizzazioni pacifiste locali e internazionali sono attive nella lotta contro la loro espansione. Nel 2004, diversi attivisti pacifisti israeliani sono riusciti a rubare cinque roulotte da Migron e le hanno parcheggiate provocatoriamente davanti all'edificio del ministero della Difesa a Tel Aviv per dimostrare che l'evacuazione è possibile, se ne esiste la reale volontà. Gli avvocati per i diritti umani hanno presentato numerose istanze presso l'Alta corte di giustizia israeliana, iniziando una serie di procedimenti legali contro gli avamposti. Il più recente di questi, contro Migron, è tuttora in corso! Quando la pressione internazionale cresce, i governi israeliani annunciano (di solito con grande clamore) la decisione di applicare la legge ed evacuare numerosi insediamenti. Migliaia di poliziotti si scontrano con migliaia di coloni, che oltrepassano la frontiera per partecipare agli scontri trasmessi in diretta dalla televisione. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si raggiunge un compromesso: le roulotte vengono riagganciate agli autocarri e spostate verso un'altra altura della Palestina. 



Le frontiere hanno una geografia diversa da quella dei luoghi statici e stabili. Prive dell'equilibrio di cui godono i confini nazionali saldi e lineari, esse sono territori profondi, mobili, frammentati, elastici. Linee d'azione temporanee, marcate da barriere improvvisate, non segnano i limiti dello spazio politico ma lo attraversano, in tutta la sua profondità. Le distinzioni fra il "dentro" e il "fuori" sono impossibili da stabilire con chiarezza. In realtà, quanto più i confini coloniali ufficiali dei "Nuovi mondi" prendevano forma geometrica e astratta, tanto più i territori effettivamente controllati erano frammentati e mobili e pertanto difficili da censire attraverso tecniche cartografiche convenzionali. I Territori Palestinesi Occupati potrebbero essere visti come una zona di frontiera di questo tipo. Tuttavia, in confronto alle dimensioni degli antichi imperi – considerate "ottimali", secondo diversi punti di vista, quando la distanza da un lato all'altro poteva essere coperta in quaranta giorni di viaggio a cavallo –, nei 5655 chilometri quadrati della Cisgiordania i due milioni e mezzo di palestinesi e i cinquecentomila coloni ebrei sembrano abitare su una punta di spillo. Su questa punta, come ha detto Sharon Rotbard, «i più esplosivi ingredienti del nostro tempo, tutte le moderne utopie e le fedi antiche [sono contenute] simultaneamente e istantaneamente, ribollendo una a fianco all'altra senza protezioni». Questi territori sono diventati il campo di battaglia sul quale diversi rappresentanti del potere statale e di poteri indipendenti si confrontano, incontrando resistenza locale e internazionale. All'interno dei Territori, banali elementi di pratica architettonica e urbanistica si sono convertiti in strumenti strategici e in mezzi di espropriazione. Sotto il regime israeliano di "occupazione intermittente", in Palestina la vita, i diritti politici e quelli civili vengono costantemente violati non solo dalle frequenti azioni dell'esercito israeliano ma anche da un processo attraverso il quale il territorio in cui i palestinesi vivono viene senza avviso e continuamente rimodellato, stringendosi attorno a loro come un cappio.

Gli studi sul colonialismo tendono a concentrarsi su come le funzioni di governo e controllo vengono tradotte nell'amministrazione dello spazio secondo una serie di norme, da un lato, e secondo una prassi, dei principi di organizzazione razionale, dall'altro. Tuttavia, la situazione appena delineata dimostra che la gestione dello spazio geografico nei Territori Palestinesi Occupati non può essere vista come prerogativa del solo potere esecutivo del governo israeliano. Essa è invece distribuita fra tutta una serie di attori – spesso non facenti capo a uno stato. L'organizzazione spaziale dei Territori Occupati è il risultato non solamente di un ordinato processo di pianificazione e attuazione ma anche, e sempre più, di un "caos strutturato", nel quale la selettiva – e spesso deliberata – assenza di intervento statale favorisce un processo deregolamentato di espropriazione violenta. Gli attori che operano all'interno di questa area di frontiera – i giovani coloni, l'esercito israeliano, la compagnia di telefonia cellulare e altri grandi capitali, gli attivisti per i diritti umani e politici, la resistenza armata, gli esperti di questioni legali e umanitarie, i ministri del governo, i governi esteri, le comunità di "supporto" all'estero, i pianificatori statali, i media, l'Alta corte di giustizia israeliana –, con obiettivi diversi e contraddittori, hanno tutti un ruolo nella diffusa, anarchica quanto collettiva creazione e modificazione di questi spazi. Le geografie elastiche rispondono a fonti di potere diffuso e molteplice anziché singolare, e pertanto la loro architettura non può essere letta come materializzazione di un unico potere politico o di una singola ideologia. L'organizzazione spaziale dei Territori Occupati dovrebbe invece essere interpretata come una specie di "plastica politica", o come una mappa delle relazioni fra tutte le forze che l'hanno plasmata. L'architettura di frontiera non può essere definita semplicemente come un'attività "politica", ma più propriamente come "manifestazione materiale della politica". 



Questo libro è una ricerca sulla trasformazione dei Territori Palestinesi Occupati a partire dal 1967. Si tratta di uno studio che ha come oggetto le diverse strade attraverso le quali la dominazione israeliana si è affermata nello spazio, e che pertanto prende in considerazione varie concezioni di geografia e organizzazione territoriale, urbanistica e architettonica, insieme con le pratiche che, integrandosi, le hanno modellate e sostenute. In tal modo, il libro offre un'immagine dell'essenza intima dell'occupazione israeliana, e non lo fa disegnando un dettagliato ritratto della sua attuale forma nello spazio, ma esplorando le varie strutture dell'occupazione territoriale. I capitoli che seguono costituiscono un'"indagine d'archivio", che esamina la storia e il modus operandi dei vari meccanismi spaziali che hanno sostenuto – e continuano a sostenere – il regime di occupazione e le pratiche di controllo. Architettura dell'occupazione svela l'intensità del valore storico e politico di strumenti di controllo ovvi, ma anche di strutture apparentemente banali. Intonaci, tegole, cave di pietra, sistemi di illuminazione stradale urbani ed extraurbani, l'ambigua architettura degli alloggi, la forma degli insediamenti, la costruzione di fortificazioni e mezzi di recinzione, i meccanismi spaziali di controllo della circolazione e di direzione dei traffici, le tecniche cartografiche e i metodi di osservazione, le strategie legali per l'annessione territoriale, l'organizzazione fisica delle zone di crisi ed emergenza, gli armamenti supertecnologici e le complesse manovre militari – tutti questi elementi sono costantemente descritti come segnali di motivazioni politiche e conflitti istituzionali, e dei livelli di conoscenza del territorio che li ha modellati.

In questo libro l'architettura è utilizzata in due modi distinti. Da un lato, il libro tratta dell'architettura delle strutture che sostengono l'occupazione e della complicità degli architetti che le progettano. In questo senso, cerca di individuare la politica dell'architettura israeliana nel modo in cui le forze sociali, economiche, nazionali e strategiche si concretizzano nell'organizzazione, nella forma e nella decorazione delle case, delle infrastrutture e degli insediamenti. Dall'altro, l'architettura è utilizzata come strumento concettuale per interpretare le realtà politiche come realtà costruite. All'occupazione vengono attribuite caratteristiche architettoniche (nel senso che i suoi territori vengono interpretati come una "costruzione" architettonica) che mostrano la maniera in cui essa viene concepita, progettata, organizzata e attuata. Pertanto, in questo libro gli architetti sono uomini dell'esercito, militanti, politici, attivisti. Tornerò su questo tema nell'ultima parte dell'introduzione.


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Geografia elastica

Come dimostra la storia della fondazione di Migron, le frontiere dei Territori Occupati non sono affatto rigide e fisse; al contrario, sono elastiche e in costante trasformazione. La frontiera lineare, un'astrazione cartografica ereditata dal concetto di spazialità associato allo stato-nazione, è esplosa in una moltitudine di sinonimi – strutture provvisorie, trasportabili, attuabili e rimovibili che espandono o restringono il territorio a piacere: "muri di divisione", "barriere", "posti di blocco", "chiusure d'emergenza", "aree precluse ai civili", "blocchi stradali", "zone rosse", "aree sterili", "posti di controllo", "zone di sicurezza speciale". Queste aree di frontiera sono dinamiche, fluiscono e rifluiscono di continuo come le onde del mare; avanzano strisciando e circondano di sorpresa villaggi e strade palestinesi. A volte addirittura sfondano pareti e irrompono nelle case dei palestinesi. La geografia anarchica della frontiera ha una forma in continua trasformazione ed evoluzione, ridisegnata e riordinata in occasione di ogni cambiamento politico. Anche se alcuni avamposti e insediamenti sono evacuati e smantellati, ce ne sono comunque altri che vengono stabiliti e ampliati. La posizione dei posti di controllo militari viene costantemente cambiata e di conseguenza il traffico palestinese viene alterato e bloccato in maniera sempre diversa. Le basi militari mobili creano teste di ponte che sostengono la logistica di operazioni militari in continuo sviluppo. L'esercito israeliano compie incursioni nei villaggi e nei campi profughi palestinesi, li occupa e poi si ritira. Il Muro di divisione, solo un elemento di una molteplice serie di barriere, cambia costantemente tracciato, e il suo percorso registra come un sismografo le battaglie politiche e legali che lo circondano. Là dove parti di territorio sembrano essere ermeticamente sigillate entro recinzioni e mura israeliane, vengono scavati tunnel palestinesi sotto terra. I territori elastici non devono essere pensati come ambienti pacifici: gli spazi politici altamente elastici sono spesso molto più pericolosi e mortali di quelli statici, rigidi.

La morfologia dinamica della frontiera fa pensare a un mare punteggiato da molteplici arcipelaghi di enclave etnico-nazionali, omogenee al loro interno e alienate dall'esterno – il tutto sotto un mantello di sorveglianza aerea da parte di Israele. In questo irripetibile ecosistema territoriale esistono zone diversissime fra loro – quelle di pirateria politica, quelle di crisi "umanitaria", di violenza barbarica e di piena, "debole" o nessuna cittadinanza – che si affiancano, si sovrappongono e si compenetrano.

La natura elastica della frontiera non implica che prefabbricati, case e strade israeliane, o lo stesso Muro, fatto di cemento armato, siano ugualmente docili o flessibili; muovendosi, però, essi demarcano una continua riorganizzazione spaziale dei confini che riflette conflitti militari e politici. I vari abitanti di questa frontiera non agiscono all'interno di sezioni definite dello spazio – esso non è lo sfondo per le loro azioni, una matrice astratta sulla quale l'azione ha luogo, ma piuttosto l'oggetto stesso delle loro azioni, l'elemento che cercano di attaccare, trasformare, conquistare. In un tale contesto, la relazione fra spazio e azione, oltretutto, non può essere letta come rapporto fra contenitore rigido e azione "morbida". L'azione politica è assorbita completamente nello sforzo di organizzazione, trasformazione, cancellazione e sovversione dello spazio. Le azioni individuali, che mirano a ottenere un determinato effetto sui media, molte volte hanno più successo dell'azione del governo israeliano. Anche se spesso sembra che la natura elastica della frontiera venga modellata solo da un lato – per seguire l'espansione colonialistica –, la volontà di agire dei colonizzati si manifesta con successo nel loro tenersi saldamente ancorati al proprio territorio nonostante le notevoli difficoltà; non solo usando la violenza politica ma anche attraverso l'occasionale successo diplomatico e la mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale. Nei fatti, può anche succedere che lo spazio dei colonizzatori si riduca e che le frontiere siano decolonizzate. Nel frattempo, la natura imprevedibile e irregolare della frontiera è utilizzata dal governo per i suoi fini. Il caos ha i suoi particolari vantaggi strutturali. Per esempio nel sostenere le principali strategie di offuscamento perseguite da Israele: la promozione della complessità – geografica, legale o linguistica. A volte, secondo un'espressione coniata da Henry Kissinger, questa strategia è apertamente definita «offuscamento costruttivo». Essa cerca di adombrare e allo stesso tempo naturalizzare il fatto della dominazione. Attraverso le frontiere della Cisgiordania, questa strategia è perseguita mettendo in moto processi che hanno lo scopo di creare condizioni troppo complesse e illogiche per l'attuazione di una separazione territoriale risolutiva (molti degli insediamenti sono stati costruiti proprio con il fine di creare una "geografia irrisolvibile"). Nel contempo, il governo israeliano pretende di essere l'unica entità in possesso delle conoscenze e dell'esperienza per districare la complessità che esso stesso ha creato.

Una delle più importanti strategie di oscuramento si basa sulla terminologia. La ricchezza straordinaria della terminologia relativa agli insediamenti, in ebraico, è stata attivamente usata dopo il 1967 per annebbiare i limiti fra Israele e le aree occupate, e ha funzionato come una specie di sofisticata contraffazione semantica. Il controverso termine ebraico hitnahlut – un termine con radici bibliche che descrive il risiedere su possedimenti nazionali – normalmente viene associato dal pubblico israeliano a quegli insediamenti di diritto nazional-messianico, costruiti nella Striscia di Gaza o nelle alture della Cisgiordania, a fianco di città palestinesi. Nella grammatica popolare dell'occupazione, agli insediamenti creati dai governi laburisti di centro-sinistra viene dato, con maggior enfasi, il nome di yeshuvim agricoli (un generico termine ebraico per insediamenti ebrei all'interno di Israele) di tipo kibbutz o moshav, di "sobborghi" o "paesi" oppure, se si trovano all'interno della zona di espansione di Gerusalemme, di "quartieri" (shhunot). Ci sono anche distinzioni semantiche fra insediamenti "legali" e avamposti "illegali", nonostante il fatto che questi ultimi siano spesso il primo passo nello sviluppo dei primi, secondo una prassi che è illegale dall'inizio alla fine. Per l'opinione pubblica israeliana, ognuno di questi termini è espressione di un diverso codice morale. Ampi insediamenti suburbani come Ariel, Emanuel, Qiriat Arba e Ma'ale Adumim furono ufficialmente dichiarati "città" (arim) con un provvedimento straordinario, prima che raggiungessero la soglia demografica dei 20.000 abitanti necessaria all'interno dei confini del "formale" stato di Israele. Questo aveva lo scopo di naturalizzare questi insediamenti nell'opinione pubblica israeliana, di far sembrare la loro esistenza un fatto, di rendere la loro posizione geografica meno chiara, di toglierli dal tavolo dei negoziati. Di conseguenza, molti israeliani non vedono i quartieri ebraici di Gerusalemme occupata o le grandi città della Cisgiordania come insediamenti, ma come legittimi luoghi di residenza. In questo libro, tutti i nuclei abitativi costituiti all'esterno del confine delimitato dalla Linea Verde nel 1949 vengono definiti "insediamenti" – il che in un tale contesto va letto come "colonie".

In realtà, nonostante la complessità dei dati legali, territoriali e costruttivi che stanno dietro l'occupazione, il conflitto in Palestina è stato un processo alquanto diretto di colonizzazione, espropriazione, resistenza e soppressione. Lo storico israeliano dissidente Ilan Pappe spiega che «generazioni di studiosi israeliani o filo-israeliani, proprio come i diplomatici dei loro paesi, si sono nascosti dietro la cortina della complessità in modo da schivare ogni critica contro il loro chiaramente brutale trattamento dei palestinesi... [ripetendo] il messaggio israeliano: Questa è una situazione molto complessa, che sarebbe meglio lasciar risolvere agli israeliani...». Il tentativo di rimettere agli esperti le decisioni riguardo alla risoluzione del conflitto, al di là della portata del pubblico generale, è stata una delle più importanti tecniche di propaganda di Israele. Questo libro è un invito non solo a esaminare la complessità dell'occupazione e la sofisticata brutalità dei suoi meccanismi di controllo, ma anche a non farsi trarre in inganno da essi.


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Laboratorio

Anche se questo libro fa prevalentemente riferimento al periodo compreso fra il 1967 e oggi e ai territori compresi nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, non è suo obiettivo supportare la tesi che le ingiustizie territoriali siano iniziate solo dopo la Guerra dei sei giorni del giugno 1967, o che le ingiustizie attuali siano limitate ai territori occupati nel 1967. Nel libro non si sottovaluta neppure il processo di colonizzazione sionista, ormai vecchio di un secolo, né l'occupazione e l'espropriazione di terre che l'ha preceduto. Tuttavia, qui si suggerisce che qualsiasi risoluzione mirata a risolvere in modo adeguato le ingiustizie e le sofferenze provocate dal conflitto debba iniziare con la fine della dominazione di Israele sui Territori Occupati e degli orrori perpetrati quotidianamente in suo nome. Concentrarsi sulla stessa occupazione permette di studiare le strategie territoriali di Israele nella loro manifestazione più brutale e intensa, come all'interno di un «laboratorio dell'estremo». Le tecnologie di controllo che ancora oggi consentono di imporre la colonizzazione israeliana ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania sono l'ultimo anello di una catena evolutiva, sviluppatasi lungo tutta la storia della colonizzazione sionista, di tecniche d'insediamento, occupazione e amministrazione. Inoltre, ogni cambiamento nella geografia dell'occupazione è stato attuato con le tecniche e le tecnologie dell'epoca e in relazione alle vicende mondiali contemporanee. La principale accelerazione nella colonizzazione della Cisgiordania, negli anni ottanta del secolo scorso, ha coinciso con l'ascesa, sotto Reagan, della classe media americana e con il suo fortificarsi dietro muri protettivi – in entrambi i casi, i protagonisti si difendevano così dalla povertà e dalla violenza che loro stessi avevano provocato. Le ultime misure di fortificazione delle enclave e di estensione reale e virtuale delle frontiere – insediamenti, posti di controllo militare, muri e altre operazioni di sicurezza – si presentano in sintonia con il contesto della più recente «guerra globale contro il terrore», di cui perfezionano la politica di paura, divisione, isolamento e controllo visivo. L'architettura dell'occupazione israeliana potrebbe dunque essere letta come un acceleratore e un'accelerazione di altri processi politici mondiali, il peggiore tra gli scenari innescati dalla globalizzazione capitalista e dai suoi incidenti territoriali. L'importanza di questo "laboratorio" risiede nel fatto che le tecniche di dominazione, insieme alle corrispondenti tecniche di resistenza, si sono estese e moltiplicate lungo quello che il geografo critico Derek Gregory ha chiamato «il presente coloniale» e oltre – fin dentro i centri metropolitani delle città globali.

Superando la loro immediata realtà fisica, i territori di Israele/Palestina hanno infatti rappresentato una descrizione schematica di un sistema concettuale le cui caratteristiche sono state utilizzate per interpretare altri problemi geopolitici. L'"Intifada" che si sta sviluppando in Iraq è parte di una geografia immaginaria che Makram Khoury-Machool ha chiamato la «palestinizzazione dell'Iraq». Se la resistenza irachena viene percepita come "palestinizzata", ne consegue che l'esercito americano sia stato "israelizzato". Inoltre, sia l'esercito americano sia quello israeliano hanno adottato tattiche antinsurrezionali che somigliano sempre più ai metodi di guerriglia propri dei loro nemici. Quando il muro che protegge la zona verde americana a Baghdad sembra essere stato costruito con avanzi del Muro in Cisgiordania; quando i "blocchi temporanei" sono imposti a intere città e villaggi iracheni e resi concreti da trincee e filo di ferro; quando le regioni vengono allargate a forza di blocchi stradali e posti di controllo; quando le case di sospetti terroristi vengono distrutte e si introducono gli "omicidi mirati" in una nuova geografia globale, militarizzata – allora ci si accorge che i diversi conflitti ora raccolti sotto la generica etichetta di "guerra al terrore" fanno da sfondo alla formazione di complessi "ecosistemi istituzionali", che permettono lo scambio di tecnologie, meccanismi, dottrine e strategie territoriali non solo fra gli eserciti e le organizzazioni che essi affrontano ma anche fra la sfera militare e quella civile.


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La politica della separazione

Ognuna delle tecnologie e delle pratiche a cui sono dedicati i prossimi capitoli è allo stesso tempo un sistema di controllo coloniale e uno strumento di divisione. La dominazione israeliana in Cisgiordania e a Gaza ha sempre alternato in modo selettivo la presenza e l'assenza, legate rispettivamente alla strategia di espansione territoriale e alla strategia demografica, messe in atto allo scopo di annettere il territorio senza la popolazione che vi abita. Le tattiche di dominazione sono state attuate imponendo un complesso sistema di classificazione ed esclusione dallo spazio, che risulta essere diviso in due a ogni livello. La logica della "divisione" (o, per usare il più noto termine afrikaans, apartheid) fra israeliani e palestinesi all'interno dei Territori Occupati è stata estesa, su base nazionale, fino a diventare "separazione". In alcuni momenti la politica della divisione/separazione è stata presentata come una formula per la soluzione pacifica del conflitto, in altri come un dispositivo burocratico per la governabilità del territorio, e in seguito come mezzo imposto unilateralmente per la dominazione, l'oppressione e la frammentazione del popolo palestinese e della sua terra.

Gli accordi di Oslo hanno lasciato all'esercito israeliano il controllo degli interstizi di un arcipelago di circa duecento zone palestinesi separate, dotate di relativa autonomia. L'esercito ha amministrato l'area pilotando fra queste enclave flussi di diverso tipo (denaro, rifiuti, acqua, traffico). Durante la seconda Intifada, le linee di divisione decise a Oslo si sono irrigidite in meccanismi di controllo. I posti di controllo militare e il Muro, scivolando gradualmente in questa geografia, sono diventati non solo brutali mezzi di segregazione ma anche veri e propri sensori all'interno del sistema israeliano di sorveglianza, che registrano ogni palestinese che li attraversi. Il parziale processo di decolonizzazione, che nei primi anni duemila ha preso forma nell'evacuazione del suolo di Gaza e nella costruzione del Muro in Cisgiordania, indica il tentativo di sostituire un sistema di dominazione con un altro. Se il passato sistema di dominazione si basava sulla presenza territoriale di Israele all'interno delle aree palestinesi e sul controllo diretto della popolazione, il nuovo sistema cerca di controllare i palestinesi dall'esterno dei loro spazi a tenuta stagna, attraverso l'apertura e la chiusura selettive dei valichi, e si affida alla capacità dell'aviazione israeliana di centrare bersagli nelle aree palestinesi. In questo "assetto" territoriale il principio della separazione è stato anche ruotato di novanta gradi, con gli israeliani e i palestinesi separati verticalmente, a occupare diversi livelli dello spazio. Questo processo di "distanziamento", che ha visto la riduzione della presenza diretta degli israeliani sul territorio palestinese e con essa un certo aumento dell'autonomia della popolazione palestinese, ha avuto come risultato una crescita radicale delle violenze; il periodo seguito alla ritirata dalla Striscia di Gaza è stato uno dei più devastanti sul tenore di vita dei palestinesi dall'inizio dell'occupazione.

Questa fusione fra divisione/separazione da un lato e sicurezza, violenza e controllo dall'altro non è sorprendente se si considera che di norma sono stati proprio ufficiali dell'esercito israeliano, in carica o in congedo, a condurre i negoziati territoriali durante tutto il processo di pacificazione (o separazione) fra Israele e Palestina. Il "fare la pace", in Israele, è stato dominio esclusivo di chi aveva fatto la guerra. Nelle mani dei generali israeliani, la retorica territoriale della separazione ha confuso i confini fra guerra e pace. I piani per la separazione sono stati presentati come piani di pace, mentre i progetti d'insediamento, preparati dal governo israeliano o da esso commissionati, erano anche piani di separazione (i pianificatori hanno posizionato insediamenti in quelle parti del territorio che volevano che il governo annettesse).

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La struttura di questo libro segue i diversi livelli dell'assetto verticale dei Territori Occupati. Cominciando dalle profonde falde acquifere della Cisgiordania, prosegue attraverso la sua archeologia sepolta e poi continua lungo i vari strati della sua superficie per arrivare allo spazio aereo militarizzato che la sovrasta. Ogni capitolo, nel descrivere le diverse pratiche di elaborazione dello spazio e le tecnologie di controllo e divisione, si concentra su un particolare periodo nella storia dell'occupazione. Il libro segue dunque lo sviluppo storico delle tecnologie israeliane di dominazione e la corrispondente resistenza palestinese, e in questo modo registra anche un tragico processo cumulativo di radicalizzazione della violenza.

Eppure, proprio le tecnologie e le infrastrutture considerate necessarie per la segregazione fisica dei palestinesi dimostrano che la politica della verticalità e la logica della separazione hanno ormai fatto il loro tempo. L'insostenibile stallo creato dalla politica della divisione/separazione indica un problema fondamentale: nonostante le centinaia di proposte preparate dai tanti cartografi di buona volontà dal periodo del Mandato britannico a oggi abbiano tentato di localizzare una linea di confine e una configurazione geopolitica sulla cui base si possa separare Israele dalla Palestina, questa strada si è ogni volta rivelata politicamente e geograficamente inconcludente. I due concetti geografici e politici di Israele e Palestina si sovrappongono e aderiscono alla stessa identica porzione di spazio. Le complicatissime pratiche e tecnologie, chiaramente insostenibili, di cui ogni piano per la divisione come "soluzione" territoriale ha inesorabilmente bisogno, rivelano la natura di questo paradosso spaziale e ci spingono a chiederci se davvero la via politica della separazione sia quella giusta.


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L'architettura della distruzione

La sera del 10 giugno 1967, prima della fine delle ostilità e ancora in clima di guerra, l'esercito israeliano operò la prima significativa trasformazione urbana nei Territori Occupati, radendo al suolo l'intero quartiere (nordafricano) di Maghariba, che si trovava immediatamente di fronte al Muro del Pianto, sul limite sud-orientale della città Vecchia. Quest'opera di demolizione fu attuata per fare spazio a una enorme piazza fra il quartiere ebraico e il Muro del Pianto. Una tale trasformazione urbana, intrapresa dall'esercito senza espliciti ordini da parte del governo, dimostra prima di tutto che l'esercito non aveva alcuna intenzione di ritirarsi dall'area occupata. Chaim Hertzog, irlandese di nascita e primo governatore militare dei Territori Occupati, in seguito sesto presidente di Israele, si prese il merito principale della distruzione di questo quartiere densamente popolato, in cui vivevano diverse migliaia di persone distribuite in 125 case. «Quando visitammo il Muro del Pianto, vi trovammo attaccato un gabinetto [...] decidemmo di rimuoverlo, e da lì arrivammo alla conclusione che avremmo potuto evacuare l'intera area di fronte al Muro del Pianto [...] un'occasione storica che non si sarebbe mai più ripetuta [...] Sapevamo che il sabato successivo, il 14 giugno, sarebbe stata la festa dello Shavot e che in molti avrebbero voluto venire a pregare [...] entro quel giorno tutto doveva essere pronto.» Nel 1917 Chaim Weizman, presidente dell'Organizzazione sionista mondiale, pregò inutilmente per molti mesi l'esercito britannico di fare la stessa cosa dopo che le truppe avevano occupato Gerusalemme. Quando il quartiere Maghariba ancora era intatto, l'accesso al Muro del Pianto era consentito solo da un vicolo stretto e tortuoso, che era teatro di molti contrasti fra gli ebrei che vi passavano per andare a pregare al Muro e gli abitanti del quartiere.

Dopo la completa distruzione del quartiere Maghariba, le truppe iniziarono a evacuare i tremila rifugiati palestinesi della guerra del 1948 che si erano installati nel quartiere ebraico. Quest'ultimo, che prima si trovava a fianco del quartiere Maghariba, si affacciava ora sull'immensa distruzione che lo separava dal Muro del Pianto. Il quartiere ebraico era stato assediato dalla Legione giordana nel 1948 e la sua popolazione di duemila persone era stata costretta a darsi alla fuga. Per questo era poi diventato la meta dei rifugiati palestinesi in fuga dalle aree cadute sotto il controllo israeliano. Dopo la guerra del 1967 il governo aveva intenzione di ripristinarne il carattere ebraico. I primi abitanti a essere allontanati con la forza furono ottanta famiglie di profughi palestinesi che vivevano in edifici prima usati come sinagoghe. Gli altri abitanti del quartiere – musulmani e cristiani, palestinesi ma anche armeni – vennero gradualmente espulsi quando una sentenza dell'Alta corte di giustizia israeliana lo consentì. Prima della guerra del 1948, i confini del quartiere erano poco chiari e le sue dimensioni difficili da definire. Dopo la guerra del 1967, il governo sgomberò una zona di circa nove ettari, più vasta di qualsiasi altra estensione storica dell'area del quartiere registrata dalle fonti. Due mesi dopo la guerra, il 31 agosto, l'intera città Vecchia venne dichiarata patrimonio storico e non venne permessa nessuna attività costruttiva fino al completamento di un rilevamento archeologico. Il quartiere, ampliato e poi brutalmente svuotato della sua vita, divenne luogo di intense indagini archeologiche. Tre anni più tardi, nel 1971, venne istituita una società per il restauro e lo sviluppo del quartiere ebraico, con il supporto di Nikolaus Pevsner, storico dell'architettura anglo-tedesco.

L'archeologia fornì non solo un pretesto per il "ritorno" degli israeliani a occupare terre palestinesi ma anche, come ha sostenuto la scrittrice palestinese Nadia Abu El-Haj, un'"impronta" di autenticità storica da sviluppare in tre dimensioni per gli architetti israeliani. L'archeologia biblica è stata usata per convalidare la pretesa che l'architettura autoctona palestinese fosse in realtà ebraica all'origine. Come Nitzan-Shiftan ha dimostrato, ciò ha consentito alla "israelianità" di definirsi come la cultura "indigena" del luogo, fatta propria e alterata dai palestinesi, arrivati in un secondo tempo.


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Archeologia biblica

L'archeologia è stata fondamentale nella formazione dell'identità israeliana fin dalla fondazione stessa dello stato. Quando il primo ministro David Ben Gurion, primo capo del governo israeliano, dichiarò nelle sue memorie che il diritto ebraico sulla Palestina si «basa [...] sullo scavare la terra con le nostre stesse mani», faceva riferimento alle due pratiche che avrebbero stabilito e dimostrato il diritto sionista alla terra: l'agricoltura e l'archeologia. Dopo essersi affermato nella maggior parte della Palestina, un territorio straniero, il sionismo continuò verso il basso la sua ricerca della terra promessa. I paesaggi palestinesi esistenti furono visti come un velo contemporaneo sotto il quale, scavando la terra, potevano essere rivelati storici paesaggi biblici, campi di battaglia, insediamenti israelitici e luoghi di culto. Il ruolo nazionale assegnato all'archeologia fu quello di rimuovere lo strato visibile, esporre alla luce l'antico paesaggio israelitico e mostrare così la prova della proprietà ebraica. Gli strati sotterranei furono immaginati come una geografia parallela, analoga a un monumento nazionale. Essa offriva un alibi per la nuova colonizzazione, che poteva così essere presentata come il ritorno a un patrimonio sacro. L'archeologia influenzò la riorganizzazione della superficie del territorio anche in altri modi. Lungo tutta la storia del sionismo i nuovi villaggi, città e insediamenti sono stati regolarmente fondati vicino o letteralmente sopra siti che si ipotizzava avessero un passato ebraico, adottando pertanto il loro nome biblico. In realtà, solo pochi metri sotto la superficie, compresse sotto pietra e polvere, le tracce di cinquemila anni di storia si accumulano come una cronologia verticale di civilizzazioni, vite, storie, guerre e distruzioni. Gli archeologi biblici israeliani si sono interessati prevalentemente ai livelli più profondi, quelli dell'Età del bronzo e del ferro, che in genere coprono il periodo di tempo associato con la narrazione biblica, e al periodo tra il IV e il I secolo a.C., facendo riferimento ai più recenti studi religiosi di interpretazione della Mishna. I resti dei livelli superiori, dei periodi musulmani e ottomani, sono stati marginalizzati negli scavi e nei musei, spesso liquidati come periodi di stagnazione, scartati come "troppo recenti" o semplicemente lasciati a marcire e sbriciolarsi. Questo dimostra una tendenza alla manipolazione della storia fra gli archeologi biblici israeliani. In questo l'archeologia israeliana non è stata politicizzata in modi diversi da quelli impiegati al servizio di altri movimenti nazionali. I metodi dell'archeologia biblica israeliana, infatti, sono stati in larga parte ereditati dagli archeologi britannici e americani che hanno condotto scavi nell'area fin dall'Ottocento. A differenza dei loro predecessori, però, gli archeologi biblici israeliani hanno avuto aspirazioni nazionalistiche piuttosto che religiose. Gli scavi sono stati condotti per di più da laici che, come Ben Gurion, vedevano la Bibbia come un testo storico nazionale che riusciva a incarnare la relazione fra stato e identità nazionale. Gli scavi archeologici ricordavano spesso operazioni militari, dal momento che il lavoro era organizzato da ufficiali militari in pensione. Il 27 giugno 1967, lo stesso giorno in cui l'area araba di Gerusalemme e i suoi dintorni vennero annessi da Israele, il governo israeliano dichiarò che i siti archeologici e storici della Cisgiordania, in primo luogo quelli di rilevanza culturale ebraica o israelitica, erano «proprietà nazionale e culturale». Questo equivaleva di fatto all'annessione degli strati di terreno al di sotto dei Territori Occupati e ne faceva la prima zona a essere colonizzata. L'epicentro dell'attenzione degli archeologi biblici israeliani era l'area di Gerusalemme e, in particolare, il quartiere ebraico e la città Vecchia. Dopo la guerra, le fonti e i dati archeologici diventarono più facilmente accessibili, con l'arrivo in mani israeliane degli archivi archeologici e storici meglio organizzati – il Museo Rockefeller di Gerusalemme Est, la American School for Oriental Research, la francese École biblique et archéologique – insieme alle loro collezioni e biblioteche. Un tesoro di fonti favoloso si offriva così agli archeologi biblici israeliani.

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Il risultato del percorso frammentario del Muro è una mutua extraterritorialità, una condizione di doppia chiusura. Gli insediamenti nelle "zone speciali di sicurezza", come le comunità palestinesi nelle "zone militari chiuse", sono isole territoriali, fisicamente e legalmente separate dai luoghi immediatamente circostanti. Per effetto di questo ordinamento, il tradizionale concetto dello spazio politico come superficie ininterrotta, delimitata da confini continui, non è più valido.

La funzione delle barriere che circondano rispettivamente l'una e l'altra categoria di isole, tuttavia, non va fraintesa. I muri attorno alle "isole israeliane", dove viene applicata la legge israeliana, hanno la funzione di proteggere la vita dei coloni e di escludere quello che è all'esterno, percepito come una minaccia. I cancelli posti sulle recinzioni si aprono su corridoi di traffico protetti, veloci e ampi, che integrano a tutti gli effetti i coloni nello stato israeliano dal punto di vista economico e politico. Recinzioni, muri, fossati, dune e tutti gli altri tipi di apparati territoriali e invenzioni di varia natura che vengono collocati attorno alle isole territoriali palestinesi, invece, sono ideati per evitare che da esse scaturiscano «minacce alla sicurezza». Costruendo e limitando ambienti e segnando fisicamente i confini di diverse giurisdizioni, queste barriere hanno principalmente la funzione di apparati amministrativi di controllo della popolazione. Più che semplici sistemi di protezione, sono diventati strumenti burocratici e logistici per la creazione e il mantenimento della separazione demografica.

La fantasia israeliana della separazione cerca di creare uno spazio politico israeliano difendibile e omogeneo che possa garantire, se non la protezione dagli attacchi palestinesi, l'esistenza di uno spazio sotto il controllo ebraico, a maggioranza demografica ebraica. Perché si tratta di una fantasia? L'evacuazione unilaterale di più insediamenti è stata certamente discussa fino a poco tempo fa, principalmente nel contesto del "Piano di riallineamento" (un nome che involontariamente confermava la natura elastica del Muro), ormai abbandonato, del primo ministro Ehud Olmert. Eppure, nessun governo israeliano ha mai mostrato il desiderio o la volontà politica di smantellare davvero i larghi blocchi di isole d'insediamento in Cisgiordania o i quartieri ebraici nella parte annessa di Gerusalemme. La loro futura incorporazione nel territorio israeliano risultava persino sottintesa in una lettera mandata dal presidente Bush ad Ariel Sharon nell'aprile 2004. Senza queste evacuazioni il terreno rimarrà frammentario e discontinuo. Anche se il Muro non arriva a creare un confine politico permanente (o forse proprio per questo motivo), esso cerca comunque di rappresentarne la rassicurante iconografia. Nonostante il continuo spostamento del suo percorso, il Muro, con la sua ingombrante presenza, che ne ha fatto il progetto più ampio e costoso nella storia dello stato israeliano, cerca di apparire come una frontiera massicciamente fortificata. L'illusione che con una serie di linee fortificate unilaterali, rinforzate dal cemento, dal filo spinato e dalle tecnologie di sorveglianza, Israele e Palestina possano diventare normali stati nazionali territorialmente definiti nasconde in realtà l'essenza violenta di una frontiera coloniale mobile. 




La terra scavata

Dopo che il Muro si sarà fatto compatto attorno a uno stato palestinese permanentemente temporaneo – disperso in un arcipelago di "zone sovrane" isolate, costellate a loro volta da isole di territorio reclamato dallo stato d'Israele –, ci sarà ancora un altro paradosso da risolvere. La frammentazione della giurisdizione palestinese è apparentemente incompatibile con l'impegno preso pubblicamente da Sharon nel 2003, e con la promessa fatta al presidente Bush nel 2004, di ritagliare, con l'attuazione della roadmap caldeggiata da Bush, un'«area continua di territorio in Cisgiordania che permetterà ai palestinesi di viaggiare da Jenin [la città più a nord della Cisgiordania] a Hebron [quella più a sud] senza passare attraverso i posti di blocco israeliani sulle strade». Quando alcuni giornalisti hanno chiesto stupiti come potessero accordarsi in una singola realtà territoriale due termini apparentemente contraddittori quali continuità e frammentazione, Sharon ha risposto (probabilmente ammiccando come suo solito) che questo sarebbe stato ottenuto attraverso una «combinazione di tunnel e ponti». Se questo tipo di continuità – prospettato da Sharon per la prima volta nel 1996, quando, come ministro delle Infrastrutture nazionali nel governo di Benjamin Netanyahu, inaugurò la "Strada del Tunnel" – non può essere ottenuto in superficie, lo si deve ottenere sfruttando le tre dimensioni. La "Strada del Tunnel" collega la Gerusalemme ebraica con l'insediamento di Gush Etzion in Cisgiordania e, ancora più a sud, con gli insediamenti ebraici di Hebron. Quando la strada lascia Gerusalemme taglia in linea retta attraverso montagne e valli, proprio come le strade coloniali ottocentesche progettate dagli ingegneri della Scuola di ponti e strade francese (con lo scopo di addomesticare una natura imprevedibile ed esprimere la "logica cartesiana" dell'impero e i traguardi della Ragione). Per conseguire quest'impresa in Palestina, la "Strada del Tunnel" mette in atto una doppia contorsione: si inarca come un ponte al di sopra di valli palestinesi coltivate e affonda nella terra in forma di tunnel sotto la città palestinese di Beit Jalla. Meron Benvenisti, che per primo ha scritto di questa «meraviglia dell'ingegneria», ne descrisse gli effetti come «la spaccatura delle tre dimensioni in sei: tre israeliane e tre palestinesi». Anche se la strada è controllata dagli israeliani, tanto la valle sopra cui si snoda quanto la città sotto cui scorre sono aree controllate dai palestinesi. Mentre la strada avanza attraverso questa complessa configurazione topografica fatta di superfici sovrapposte, il territorio israeliano viene a trovarsi alternativamente al di sopra o al di sotto di quello palestinese. Questa separazione fisica delle infrastrutture di trasporto passa anche attraverso il labirinto territoriale creato dagli accordi di Oslo. Il tunnel e il ponte sono sotto il completo controllo israeliano (area C), la valle è sotto il controllo civile palestinese (area B), mentre la città al di sopra del tunnel è controllata in modo congiunto da militari e civili palestinesi (area A). Dove le colonne del ponte poggiano su suolo palestinese, il "confine" probabilmente passa lungo la giuntura termodinamica fra la colonna e i raggi.

Seguendo questo principio di separazione tridimensionale, il Dipartimento di pianificazione regionale e strategica ha ideato un intreccio di due reti stradali parallele che corrono attraverso la Cisgiordania, separate lungo linee nazionali, che sarà inaugurato con un progetto pilota di trentacinque strade. Nei punti in cui le due reti si incrociano uno scambio verticale di ponti e tunnel separerà i due sistemi di traffico, e con essi i palestinesi dagli israeliani. Venticinque di questi interscambi di separazione verticale sono già stati realizzati; i rimanenti diciannove sono al momento in progettazione o in costruzione. Seguendo questo principio, le città di Habla e Qalgilya in Cisgiordania, vicine ma divise dal Muro in due enclave separate nel 2003, sono state ricollegate l'anno successivo da un tunnel sotterraneo la cui costruzione è stata data in appalto dal ministero della Difesa. Il tunnel passa sotto il Muro e sotto la strada israeliana.

Danny Tirza ha spiegato questa logica della separazione dicendo che «i pericolosi attriti» fra i coloni e i palestinesi «potrebbero essere ridotti se speciali interscambi consentissero ai palestinesi di entrare da un lato [e ai coloni dall'altro]. Le nostre auto passerebbero da sopra e le loro da sotto, e viceversa». Questa separazione della rete stradale è un progetto complementare a quello del Muro, che facilita la possibilità di isolare territori palestinesi contigui senza dover pensare di evacuare gli insediamenti israeliani. Anche se le due reti passano una vicina all'altra, la loro configurazione preclude agli utenti perfino la possibilità di percepire la presenza dell'altro. Secondo Tirza, gli israeliani dovrebbero essere in grado di circolare attraverso le strade sopraelevate «senza nemmeno accorgersi del traffico palestinese al di sotto». Infatti, gli israeliani che guidano lungo la strada 443 da Tel Aviv a Gerusalemme via Modi'in passano attraverso una sezione della strada chiusa su entrambi i lati da alti muri di cemento armato. Nel 2004, la stessa strada è diventata un confine e i muri che la costeggiano, dipinti con idealizzate immagini dell'ambiente circostante, sono stati innalzati per proteggere i viaggiatori dai pericoli dell'ambiente reale. I muri, inoltre, nascondono agli occhi dei pendolari israeliani il fatto che quella parte della strada è un ponte che sovrasta un intero villaggio palestinese: Al-Muwahil (ovvero "la contrada del fango"). Un altro dei più ambiziosi strumenti di separazione verticale è la nuova tangenziale est di Gerusalemme, attualmente in costruzione. La tangenziale è uno snodo importante della rete, e serve sia i coloni sia i palestinesi (questi ultimi dovranno usarla per viaggiare da Betlemme a Ramallah, perché a loro non è consentito entrare a Gerusalemme, che si trova al di là del Muro). La strada è divisa al centro da un alto muro di cemento, che la divide in corsie israeliane e palestinesi. Essa attraversa tre ponti e tre tunnel prima di finire in un complesso raccordo a più dimensioni che si sviluppa a mezz'aria, incanalando separatamente palestinesi e israeliani lungo diverse sopraelevate a spirale che infine portano ciascuno dal suo rispettivo lato del Muro.

È nato un nuovo modo di immaginare lo spazio». Dopo avere frammentato la superficie della Cisgiordania usando muri e barriere di altro genere, i pianificatori israeliani hanno iniziato a cercare di cucire insieme i frammenti per farne due geografie nazionali separate ma sovrapposte: due reti territoriali che si accavallano sulla stessa area, lungo le tre dimensioni, senza doversi incrociare o incontrare. La prima è una terra alta — la terra degli insediamenti — fatta di borghi ben tenuti, sparsi sulle cime delle colline e cuciti insieme da moderne autostrade, il cui uso è riservato ai propri abitanti. L'altra, la Palestina, è fatta di città affollate, paesi e villaggi costruiti nelle valli, ai piedi delle colline, in cui la comunicazione è mantenuta fragilmente attraverso sottopassaggi improvvisati. In questo inedito spazio politico sono stati intessuti corridoi di sicurezza, infrastrutture, ponti e tunnel sotterranei che ne hanno fatto un paesaggio sconcertante, irreale, degno della fantasia di Escher, che si sforza di rendere molteplice una singola realtà territoriale. Eppure, attraverso l'estrema complessità che esso richiede, il sistema di tunnel e ponti mostra chiaramente gli stessi limiti della politica della separazione. Dall'infinita ricerca dei meccanismi e delle forme della separazione "perfetta", infatti, emerge la consapevolezza che una soluzione davvero attuabile potrebbe non accordarsi con l'ambito dell'architettura del territorio.


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8. Evacuazioni: decolonizzare l'architettura

La mattina del 12 settembre 2005, le forze israeliane completarono il ritiro dalla Striscia di Gaza. Il cancello attraverso il quale era passato il generale di brigata Aviv Kochavi (l'ultimo israeliano a lasciare la Striscia), comandante della Divisione Gaza, fu immediatamente sepolto dai bulldozer militari sotto metri di sabbia. Kochavi, che nove mesi più tardi avrebbe ordinato alla sue forze di rientrare a Gaza, convocò una piccola conferenza stampa in cui annunciò frettolosamente: «La nostra missione è compiuta... i trentotto anni di presenza israeliana [a Gaza] sono terminati». L'esercito si lasciò alle spalle le macerie spianate dai bulldozer di tremila edifici: prevalentemente case unifamiliari ma anche edifici pubblici, scuole, strutture militari, agricole e industriali costruite a beneficio dei ventuno insediamenti e delle numerose basi militari che li proteggevano. Questo numero, casualmente, coincideva con quello delle case palestinesi distrutte dall'esercito israeliano a Gaza dall'inizio della seconda Intifada nel 2000. Un giornalista israeliano che aveva visitato gli insediamenti di Gaza pochi giorni prima che l'evacuazione fosse completata descrisse così quello che aveva visto: «cumuli di macerie degli edifici al centro di quelli che una volta erano giardini privati... il cattivo odore del cibo andato a male... pozze di acqua e liquami... sciami infiniti di mosche... chilometri e chilometri di rotoli di plastica da imballaggio». Centinaia di gatti abbandonati vagavano randagi nel paesaggio apocalittico, morendo di fame e di sete. Le sole strutture che rimanevano a galla nella palude di macerie e acque di scolo erano le diciannove sinagoghe di Gaza, la cui distruzione era stata bloccata da un'ordinanza dell'Alta corte di giustizia israeliana e da una decisione presa all'ultimo momento dal governo. Una delle sinagoghe, disegnata come uno sviluppo tridimensionale della stella di Davide e costruita in cemento armato (in modo che «gli ebrei», come il suo architetto Gershon Shevah aveva affermato, «possano liberarsi del complesso della diaspora»), simboleggiava al meglio l'immediatezza estetica e l'inevitabile sorte dell'arte nell'occupazione israeliana. Il giorno dopo il ritiro, alcuni giovani palestinesi completarono quello che l'Alta corte di giustizia aveva lasciato incompiuto, dando alle fiamme gli edifici che ospitavano le sinagoghe. Migliaia di bandiere palestinesi di diverse organizzazioni e striscioni con le immagini di tanti leader e "martiri" palestinesi furono installati sulle rovine degli insediamenti. L'Autorità palestinese organizzò visite guidate e cambiò il nome di alcuni degli insediamenti distrutti in onore di militanti e leader morti. Le rovine di Neve-Dekalim diventarono Yasser Arafat City e quelle di Kfar Darom, Sheik Ahmed Yassin City. Quando i festeggiamenti giunsero al termine e tutto quello che poteva essere riutilizzato era stato prelevato, la maggior parte degli insediamenti distrutti fu occupata da organizzazioni di militanti; quelli più vicini al confine furono utilizzati come basi per il lancio di missili Qassam, fatti in casa, contro le città e i villaggi israeliani nelle vicinanze di Gaza. I bombardamenti da parte dell'aviazione israeliana e il costante fuoco d'artiglieria proveniente da Israele continuarono periodicamente a rimescolare le montagne di macerie, per attuare quella che l'esercito israeliano nei volantini gettati dai suoi aerei da combattimento chiamava «chiusura imposta dall'aria», il cui scopo era di mantenere nelle aree evacuate un «divieto d'accesso» per tutti i palestinesi.

Prima del ritiro, ignorando l'imminente distruzione degli insediamenti, numerosi gruppi di interesse locali e internazionali specularono sulle diverse possibilità per il riuso degli edifici degli insediamenti. L'evacuazione aprì per la speculazione un'arena irripetibile, nella quale fra l'aprile del 2004, quando i piani per l'evacuazione furono approvati, e l'agosto 2005, quando essi furono attuati, alcuni dei più potenti attori internazionali si occuparono di questioni normalmente appartenenti alle discipline dell'architettura e dell'urbanistica. Sebbene l'evacuazione fosse stata ideata e attuata come un'operazione unilaterale di Israele, il destino degli edifici degli insediamenti fu discusso da Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, da alcuni dei più facoltosi speculatori immobiliari arabi, diverse Ong e alcuni gruppi di ricerca sulla sicurezza e le politiche pubbliche. Inoltre, anche i partiti politici palestinesi e israeliani avevano ciascuno idee, opinioni e proposte diverse. Nella retorica politica che circolava nel periodo subito prima dell'evacuazione, le case sono state indicate alternativamente come entità fisiche che materializzavano relazioni di potere, come simboli di una serie di ideologie, come agenti attivi senzienti (o addirittura infestati), come armamenti militari o munizioni, beni da barattare, accumuli di rifiuti tossici o strumenti di un crimine.

Sebbene tutte le intenzioni di riutilizzare l'architettura degli insediamenti siano poi state sepolte sotto le macerie della loro distruzione, queste visioni sono state senz'altro utili come occasione per pensare al potenziale riutilizzo dell'architettura israeliana dell'occupazione, se e quando il resto dei Territori Occupati saranno restituiti (militarmente o pacificamente) ai palestinesi. Inoltre, questi piani ci offrono la rara opportunità di esaminare problemi più generali associati con il recupero dell'architettura dell'esclusione, della violenza e del controllo, nel momento in cui essa viene staccata dal potere socio-politico e militare che l'aveva creata e sostenuta. La rituale distruzione, il riutilizzo, il redivivus o il détournement della casa unifamiliare possono perfino suggerire un repertorio di azioni per la sua possibile trasformazione generale.


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Portare i profughi via dai campi

In vista di altre prospettive di sviluppo, il coordinatore delle politiche estere dell'Unione europea Javier Solana voleva che le "ville coloniali" fossero distrutte e rimosse in modo da «fare posto a nuove torri residenziali» per i profughi. Anche il ministero palestinese per la Pianificazione prese in esame alcune proposte inviate dalla Fondazione per la pace in Medio Oriente, un gruppo di ricerca indipendente di base a Washington secondo il quale, in un simile scenario di evacuazioni in Cisgiordania, era auspicabile la sistemazione dei profughi in insediamenti vicino alle città palestinesi.

Quelli che proponevano di far abitare i profughi palestinesi nelle case degli insediamenti abbandonati, o in blocchi residenziali di tipo europeo costruiti al loro posto, si muovevano su un terreno politico minato. I tentativi di trovare sistemazioni abitative definitive per i profughi sarebbero stati percepiti da molti palestinesi come un annullamento della natura provvisoria dei campi, e come la prova tangibile dell'urgenza delle richieste palestinesi di tornare nei luoghi da cui erano stati deportati nel 1948. Per molti profughi, avere un indirizzo in un campo non significava rinunciare ad avere un indirizzo nella città o nel villaggio di una volta. Costruire una nuova casa in un campo a volte viene visto come un tradimento della causa nazionale, ed è soprattutto l'ultima generazione a rifiutare i piani di ricostruzione. Le organizzazioni politiche palestinesi sottolineano il senso di temporaneità dei campi con l'insistenza a mantenerne le infrastrutture al minimo indispensabile. La rete fognaria spesso passa in superficie, non vengono piantati alberi e vengono evitati altri elementi che suggeriscano una dimensione di permanenza. Il campo profughi viene così mantenuto in uno stato orwelliano di eterno presente, senza passato e senza futuro. Questa strategia diventò evidente negli anni settanta, quando sotto l'influenza dell'ideologia marxista, all'epoca prevalente nell'Olp, il fatto di ambientarsi era visto dai rivoluzionari palestinesi come un'eresia. La "rivoluzione permanente" si basava sulla negazione della casa, intesa come segno della cultura borghese. Mantenere condizioni precarie e difficili nei campi faceva parte della strategia di guerriglia rivoluzionaria che in francese viene chiamata la politique du pire – la politica del rendere le condizioni peggiori di quanto possano essere: quanto peggio vanno le cose, tanto più profonda si fa la crisi e tanto più velocemente arriverà il cambiamento politico.

Pertanto, non sorprende che gli approcci controrivoluzionari abbiano spesso incoraggiato l'acclimatazione. Dai "nuovi villaggi" costruiti dai britannici in Malesia agli aldeamentos portoghesi in Angola, ai douars francesi in Algeria e agli strategic hamlets americani in Vietnam, i progetti di reinsediamento sono stati spesso componenti centrali delle strategie controinsurrezionali e di quelle di pacificazione, a dimostrare che la risposta di base alla violenza proveniente dal colonizzato è sempre stata una maggiore disciplina dello spazio. Questi progetti di edilizia residenziale furono visti come parte di una generale politica coloniale chiamata in diversi modi: modernizzazione, urbanizzazione, civilizzazione, igienizzazione, deruralizzazione o, in questo contesto, "decampizzazione" dei profughi.

Agli occhi dell'Idf, i campi profughi apparivano non solo come il luogo in cui la resistenza si localizza e si organizza ma anche come l'ambiente sociale e fisico in cui trova origine. Durante tutta l'occupazione, i periodici tentativi da parte dell'Idf di migliorare infrastrutture e tenore di vita proprio nei luoghi che erano considerati ostili hanno avuto come obiettivo l'eliminazione delle radici stesse del malcontento. Queste politiche hanno mirato a mettere in moto un processo di imborghesimento forzato, che avrebbe creato le condizioni per ridurre le ragioni del supporto della popolazione urbana nei confronti della resistenza attiva.

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Nella primavera e nell'estate del 2005 presi parte, insieme a pianificatori palestinesi e norvegesi del ministero palestinese per la Pianificazione (i secondi fungono da consulenti per il ministero dall'epoca degli accordi di Oslo), all'elaborazione di un diverso approccio architettonico al riutilizzo degli insediamenti di Gaza, in base al quale gli edifici sarebbero stati convertiti a un uso diverso da quello abitativo, ossia trasformati in istituzioni pubbliche: ospedali, cliniche, scuole, istituti universitari, centri di formazione, centri culturali. Per liberare la geografia dell'occupazione, pensammo, il suo potenziale avrebbe dovuto essere rivolto contro se stesso.

Quattro mesi prima dell'inizio programmato dell'evacuazione, nel maggio 2005, il ministero per la Pianificazione convinse il governo palestinese – ognuno dei ministri aveva diverse proposte e piani per gli insediamenti – a destinare gli edifici di tre delle colonie (Morag, Netzarim e Kfar Darom) a istituzioni pubbliche. Dal punto di vista israeliano questi tre piccoli insediamenti, costruiti come strategici avamposti di frontiera all'esterno dei principali blocchi d'insediamento, erano considerati "isolati". Invece, dal punto di vista delle città palestinesi che era loro intenzione sorvegliare, erano molto vicini, quasi una potenziale estensione del loro tessuto urbano. La prova che l'architettura era chiamata a superare consisteva nel trovare una collocazione razionale per una serie di istituzioni pubbliche nelle monotone carcasse delle case evacuate. A questo scopo si scelse di riconvertire l'insediamento di Morag in centro di formazione per le scienze agrarie, un'estensione dell'Università di Gaza. Le sue villette unifamiliari sarebbero state riadattate per ospitare aule universitarie, biblioteche e depositi di materiali. Alcuni piccoli giardini privati, campi e serre sarebbero diventati spazi per lo studio dell'orticultura. Le strutture edilizie di Kfar Darom, invece, sarebbero state assegnate al Comitato internazionale della Croce rossa, per farne un ospedale e un campus medico. Gli ampi magazzini agricoli dell'insediamento di Netzarim, il più vicino a Gaza City, sarebbero diventati parte dell'infrastruttura del porto di Gaza, da costruire su un vicino tratto di costa. La parte residenziale di Netzarim, che comprendeva cinquanta villette unifamiliari, sarebbe diventata un centro di formazione. In questo caso riservammo spazio per un archivio in espansione, in cui sarebbero stati conservati documenti, testimonianze, filmati e fotografie raccolti in grandi quantità da Ong locali e internazionali durante l'occupazione.

Le istituzioni pubbliche, occupando strutture architettoniche semplici, residenziali, avrebbero potuto generare un nuovo tipo di realtà. Era possibile immaginare la sovversione dell'intera geografia dell'occupazione in Cisgiordania, uno scenario in cui ognuno degli insediamenti residenziali sarebbe stato utilizzato in una maniera differente da quella per cui era stato concepito.

Alla fine, però, non c'è stato niente da riconvertire. Guidato dai suoi stessi impulsi distruttivi, e temendo che i coloni avrebbero tentato di ritornare alle loro case, il governo israeliano ordinò all'esercito di distruggere completamente gli insediamenti. Secondo le stime della Banca mondiale, le macerie prodotte dalla demolizione sarebbero in totale circa un milione e mezzo di tonnellate, fra i 60.000 e gli 80.000 carichi di autocarro. La demolizione e la rimozione delle macerie ha rappresentato un complesso problema logistico, dal momento che alcune delle strutture più antiche conteneva grandi quantità di amianto. Alla fine del 2005, Israele e il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) firmarono un accordo per il quale Israele avrebbe dato all'Undp 25 milioni di dollari, che sarebbero serviti a pagare imprese palestinesi incaricate di rimuovere, compattare e smaltire le macerie degli edifici distrutti. In una situazione in cui la popolazione non aveva né accesso a investimenti internazionali né la possibilità di lavorare in Israele o di esportare beni per via dell'interminabile assedio, gli israeliani poterono ironicamente presentare questo finanziamento – il cui fine era quello di ripulire il caos che loro stessi si erano lasciati alle spalle – in tono filantropico, come un progetto che aveva «lo scopo di dare una spinta all'economia della Striscia di Gaza».

Le macerie – composte di frammenti di case, edifici pubblici, sinagoghe, fortificazioni e basi militari che fino a poco tempo fa sostenevano il progetto coloniale israeliano a Gaza – ora vengono gradualmente trasportate verso il Mediterraneo e disposte sulla costa, a formare un ampio arco, una barriera contro le onde, nel luogo in cui dovrebbe essere costruito il porto di Gaza. Nella sua inattiva immobilità – l'inizio della costruzione del porto è infatti in eterna attesa del permesso delle autorità israeliane per la sicurezza – questo enorme terrapieno/molo potrebbe alla fine rappresentare l'uso migliore che si possa fare dell'architettura israeliana d'occupazione.


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9. Omicidi mirati: l'occupazione aerea

L'aereo da guerra è la quintessenza della civiltà moderna... Si eleva al di sopra del bene e del male, divinità celeste con una sete insaziabile di offerte sacrificali. Azmi Bishara 



Il 13 settembre del 2005 – il "giorno dopo il giorno dopo" – quando l'evacuazione israeliana dalla Striscia di Gaza era stata completata, le basi di terra delle forze occupanti furono trasferite nello spazio aereo al di sopra della Striscia, nelle acque territoriali presso la costa e nelle stazioni di frontiera lungo le recinzioni che la tagliavano fuori dal resto del mondo. La geografia dell'occupazione subì così una rotazione di novanta gradi: l'"Oriente" immaginario, l'oggetto esotico della colonizzazione, non si trovava più oltre l'orizzonte ma sotto la tirannia verticale della civilizzazione aerea occidentale, che da lontano, dall'alto, governava le proprie sofisticate e avanzate piattaforme tecnologiche, munite di sensori e munizioni.

Dall'inizio della seconda Intifada, le limitazioni imposte alla sua abilità di mantenere una presenza territoriale permanente in Palestina ha rafforzato la dipendenza di Israele da una logica tattica che ha cercato di colpire la resistenza armata e politica palestinese tramite omicidi mirati, ovvero esecuzioni statali extragiudiziali, eseguiti nella maggior parte dei casi dall'alto. In realtà, gli stessi presupposti tattici per la politica del ritiro territoriale israeliano prevedevano che i suoi servizi di sicurezza fossero capaci di mantenere il dominio delle zone evacuate con mezzi diversi da quelli del controllo territoriale. Un gruppo di esperti dell'Idf chiamato "Squadra alternativa" (come se si trattasse di un gruppo di eroi da fumetto) si è occupato di ripensare le politiche israeliane della sicurezza dopo l'evacuazione di Gaza. Il gruppo ha affermato: «non importa se siamo presenti nei Territori o meno, dovremmo comunque essere sempre in grado di dimostrare la nostra abilità nel controllarli e influire su di loro». Questi esperti, come altri specialisti di strategia militare, hanno definito l'occupazione che seguirà l'Occupazione – cioè la dominazione dei palestinesi dopo il completamento dell'evacuazione dello spazio territoriale della Striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania – "occupazione invisibile", "occupazione aerea", "occupazione in assenza".

L'abilità delle forze aeree israeliane di mantenere una "sorveglianza e capacità di attacco" costante sulle zone palestinesi fu una delle principali ragioni della fiducia con cui il governo Sharon, godendo del sostegno popolare, attuò ritiri territoriali unilaterali e modificò di conseguenza la logica dell'occupazione. Il licenziamento del capo di Stato maggiore Moshe Ya'lon da parte di Sharon e la sua sostituzione con il pilota ed ex comandante della forza aerea Dan Halutz, alcuni mesi prima dell'evacuazione di Gaza, ha confermato quello che veniva percepito come uno spostamento dell'attenzione dell'esercito dalla terra all'aria e come l'accettazione da parte del governo israeliano del mantra di Halutz: «tecnologia invece che occupazione». Fino a quando i risultati della guerra in Libano del 2006 non gli hanno fatto cambiare opinione, Halutz era conosciuto come il più acceso sostenitore dell'idea che la forza aerea potesse gradualmente sostituire molte funzioni tradizionali delle truppe di terra. In una lezione tenuta al Collegio di sicurezza nazionale nel 2001, Halutz spiegò: «oggi la capacità dell'Aviazione militare rende anacronistiche alcune convinzioni tradizionali, ovvero che la vittoria equivale alla conquista territoriale».

Infatti, durante tutti gli anni della seconda Intifada, furono convogliati grandi sforzi nello sviluppo e nel perfezionamento delle tattiche di omicidio mirato dall'alto. Da "metodo raro e di eccezionale emergenza", esso è diventato una delle forme d'attacco più comuni dell'Aviazione militare. Secondo Ephraim Segoli, pilota di elicotteri ed ex comandante della base aerea militare di Palmahim, situata a metà strada tra Tel Aviv e Gaza – da cui sono stati avviati la maggior parte degli attentati con elicotteri, oltre a essere al momento la base della più grande flotta di aerei killer pilotati a distanza (unmanned aerial vehicle, Uav) –, le "liquidazioni" dall'alto «sono un elemento centrale delle operazioni dell'Idf e l'essenza stessa della "guerra" che l'esercito sta portando avanti». Nel 2006, Segoli ha inoltre dichiarato che «le intenzioni di "perfezionare" queste operazioni hanno avuto come ulteriore effetto il fatto che le industrie di sicurezza israeliane iniziano a concentrare [i loro sforzi principali] verso l'elaborazione di sistemi che servono principalmente questa logica operativa».

Quasi tutti gli stati, in qualche momento della loro storia, hanno organizzato attentati per eliminare i leader militari e politici del nemico. Israele non fa eccezione e per molti anni, durante il conflitto con la resistenza palestinese e libanese, ha fatto ricorso ad attentati. Tuttavia, dall'inizio dell'Intifada Al-Aqsa nel settembre del 2000 e, ancora di più, dall'evacuazione di Gaza gli omicidi mirati sono diventati la forma di attacco militare israeliano predominante per importanza e frequenza. Dall'inizio dell'Intifada fino alla fine del 2006 sono morti in questo modo 339 palestinesi. Solo 210 di questi erano obiettivi prestabiliti, per il resto si trattava di palestinesi che la vita di tutti i giorni aveva portato nel posto sbagliato al momento sbagliato; 45 di loro erano bambini. Fra le vittime ci sono stati la maggior parte dei leader politici di Hamas. La strategia degli omicidi mirati, come questo capitolo intende dimostrare, non può essere considerata solo secondo la logica della prevenzione del terrorismo; essa è diventata piuttosto un'arma politica nel quadro del tentativo israeliano di mantenere il controllo nelle zone palestinesi da cui si è ritirato, e quindi possiede una dimensione territoriale.


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Tecnologia invece che occupazione

Un incessante, eccessivo ottimismo verso la forza aerea ha portato generazioni e generazioni di aviatori – dal primo teorico dei bombardamenti aerei, l'italiano Giulio Douhet, all'inizio del XX secolo, fino a quelli odierni – a credere che l'eccezionale sviluppo della tecnologia avrebbe permesso di vincere le guerre dal cielo, usando i bombardamenti per costringere i politici alla sottomissione, e di controllare le popolazioni locali tramite la forza aerea. Le fantasie di occupazioni che non richiedano grande dispendio di risorse, o di "colonizzazione imposta dall'aria", sono antiche quanto la nascita dell'Aviazione militare. Negli anni venti Winston Churchill, allora ministro della Guerra e dell'aviazione, era affascinato da quella che considerava essere una possibilità economicamente efficiente, veloce, pulita, meccanica e impersonale offerta dall'aviazione in alternativa alle altrimenti onerose e costose funzioni di controllo coloniale. Churchill, incoraggiato dal fatto che nel 1920 un micidiale attacco aereo a un leader tribale in Somalia aveva permesso di reprimere una sommossa, propose di adattare ulteriormente l'aviazione al mantenimento dell'ordine pubblico nell'impero britannico. Nel 1922 Churchill persuase il governo britannico a investire nell'aviazione militare e offrì alla Royal Air Force sei milioni di sterline perché rilevasse il controllo dell'operazione "Mesopotamia" (in Iraq), che fino ad allora era costata all'esercito otto milioni di sterline. La strategia, chiamata "controllo senza occupazione", permise alla Air Force di rinnovare con successo grandi e costosi contingenti militari. L'alto commissario a Bagdad, Sir Percy Cox, riferì che già alla fine del 1922 «in [almeno] tre occasioni, le dimostrazioni della forza aerea [sono state sufficienti per portare] a termine le lotte tribali. In un'altra occasione, gli aerei [...] hanno lanciato bombe su uno sceicco e sui suoi seguaci perché avevano rifiutato di pagare le tasse, rapinato viaggiatori e attaccato una stazione di polizia». Arthur "Bomber" Harris (così chiamato per le sue famigerate campagne di bombardamento su quartieri popolari tedeschi quando era comandante della divisione dei bombardieri della Raf durante la Seconda guerra mondiale) riferì di una sua missione in Iraq nel 1924 in questi termini: «Gli arabi e i curdi adesso sanno che cosa significa essere bombardati sul serio, in termini sia di vittime sia di danni. Ora sanno che nel giro di 45 minuti un villaggio intero può essere praticamente raso al suolo e un terzo dei suoi abitanti ucciso o ferito». I metodi usati in Somalia furono impiegati dalla Raf anche contro i rivoluzionari in Egitto, Darfur, India, Palestina (soprattutto durante la Rivolta araba del 1936-1939) e in Afghanistan, a Jalalabad e Kabul. Anticipando la logica degli attentati mirati, qualche tempo dopo Harris si vantò del fatto che l'ultima di queste guerre fosse stata vinta grazie a un singolo attacco sul palazzo del re.

Anche l'Aviazione militare israeliana, che condivideva l'idea di una "colonizzazione imposta dall'aria", era convinta di poter sostituire la rete dei posti di controllo inseriti nella topografia, traducendo le categorie di "profondità", "postazione fortificata", "vertice", "chiusura" e "panorama" in quelle di "difesa aerea in profondità", "cielo limpido", "ricognizione aerea", "chiusura imposta dall'aria" e "radar panoramico". La raccolta di informazioni avviene a tappeto, grazie a sensori installati a bordo di Uav, ricognizioni aeree, elicotteri da attacco, palloni aerostatici senza pilota, aerei Hawkeye per il controllo immediato e grazie ai satelliti militari, che captano la maggior parte dei segnali provenienti dallo spazio aereo palestinese. Dall'inizio della seconda Intifada, l'Aviazione militare ha dedicato centinaia di migliaia di ore di volo a raccogliere flussi d'informazione tramite la sua rete di piattaforme di ricognizione aerea, mettendoli poi a disposizione di diverse agenzie di spionaggio e di centri di comando e controllo.

Mentre in passato 1'Idf per bloccare una zona utilizzava recinzioni e terrapieni, e attivava posti di controllo sulle strade di ingresso, adesso l'occupazione aerea imposta su Gaza ottiene lo stesso risultato lanciando volantini sui villaggi e i campi profughi intorno all'area prescelta per la chiusura, vietando l'accesso alla zona e colpendo chiunque tenti di entrare. Allo stesso modo, dopo l'evacuazione del 2005 l'accesso agli insediamenti evacuati nel nord di Gaza è sempre rimasto proibito. Dopo che le colonie sono state abbandonate, una nuova procedura di demolizione delle case (nome in codice "bussare una volta alla porta") ha sostituito i bulldozer militari con gli aerei da bombardamento. La procedura prevede che un operatore dell'Aviazione militare telefoni ai residenti della casa che deve essere demolita, come è successo il 24 agosto del 2006 per la casa della famiglia A-Rahman nel campo profughi di Jebalia:

Giovedì 24 agosto del 2006, alle 23.30, qualcuno ha telefonato a casa di Abed A-Rahman a Jebalia, dichiarando di appartenere all'Idf. La linea telefonica era stata tagliata perché non era stata pagata la bolletta alla compagnia telefonica palestinese, ma fu ripristinata per permettere questa chiamata. La moglie di Abed A-Rahman, Um-Salem, ha risposto al telefono [e dall'altra parte della linea una voce] ha detto: «Evacuate immediatamente la casa e comunicatelo ai vostri vicini». «Chi parla?» ha chiesto lei, e la risposta è stata: «L'Idf». La donna ha ripetuto la domanda ma l'interlocutore ha riagganciato il telefono. Um-Salem ha provato a usare ancora il telefono ma la linea era stata tagliata di nuovo [...] l'intera famiglia ha lasciato la casa senza avere la possibilità di mettere in salvo niente. La casa è stata bombardata alle 24.00 da elicotteri militari e completamente distrutta.


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Legalizzare l'assassinio

Per descrivere questi attentati l'Idf usa termini asettici come "rimozione mirata" o "prevenzione mirata". Questo tipo di retorica viene ripetuta dalla gran parte dei mezzi d'informazione israeliani, che celano il più possibile il vero impatto delle uccisioni, in genere evitando di menzionare i nomi dei civili palestinesi uccisi durante gli attacchi israeliani e di mostrare cadaveri, sangue e parti del corpo – proprio le immagini su cui invece si soffermano nei servizi giornalistici sugli attacchi terroristici palestinesi. Infatti, l'uso selettivo di immagini da parte dei mezzi d'informazione israeliani permette loro di presentare gli omicidi non solo come necessari ma anche come etici, legalizzandoli secondo una strategia discorsiva che Nave Gordon ha chiamato «produzione retorica di un processo pseudogiudiziario». Le immagini riprese da videocamere "kamikaze" posizionate su "missili intelligenti" e da altri sensori aerei sono poi trasmesse dai media popolari per appoggiare le smentite dell'Idf in risposta ai palestinesi che accusano l'esercito israeliano di uccidere indiscriminatamente. In questo modo l'opinione pubblica e politica viene spinta a continuare ad applicare questa tattica. Le immagini e i video ripresi dalle armi utilizzate negli attacchi sono un prodotto per i media, oltre che parte delle operazioni. Non sarebbe sorprendente scoprire che la capacità di produrre immagini "trasmissibili" fa parte delle linee guida sul loro sviluppo tecnologico.

Un altro elemento che ha aiutato a mantenere alto il sostegno popolare sono stati i segnali d'allarme terroristico che il Gss di Dichter ha diramato ogni giorno, con una media, all'apice dell'Intifada – dal 2001 al 2003 –, tra i quaranta e i cinquanta al giorno, mentre il sostegno popolare per gli omicidi mirati si assestava sull'80% circa.

Il Gss ha presentato all'opinione pubblica le uccisioni mirate secondo una logica di vendetta che ha insistito sul fatto che le vittime avevano «le mani sporche di sangue». Ma i comunicati stampa che descrivono le vittime come "ricercati speciali" o come membri importanti di una particolare organizzazione palestinese sono stati rilasciati tanto di frequente che anche la bellicosa società israeliana ha cominciato a sospettare della loro accuratezza.

La vendetta, chiaramente, non è una giustificazione legittima per l'omicidio di stato. Quando sono stati chiamati a rendere conto degli omicidi davanti all'Alta corte di giustizia israeliana, i rappresentanti del governo li hanno giustificati con una logica di prevenzione che descriveva le vittime designate come una fonte di pericolo immediato, una «bomba a orologeria» prossima a esplodere in un imminente attacco terroristico, spesso persino in un «mega attacco terroristico».

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I leader "radicali" palestinesi possono dunque essere assassinati per aprire la strada a forme più "realistiche" di politica. I leader "realistici" possono essere assassinati per aprire la strada al confronto diretto, o per sbarrare la strada a un'iniziativa diplomatica. Altre uccisioni sarebbero eseguite per "riportare l'ordine", altre ancora per "creare il caos"; alcuni omicidi invece vengono eseguiti semplicemente perché è possibile farlo, perché troppo denaro è già stato investito nella caccia all'uomo, perché le forze di sicurezza sono attratte da una particolare prospettiva, per fare colpo sugli osservatori stranieri, per testare nuove tecnologie o perché il personale di sicurezza deve tenersi in allenamento. I membri delle organizzazioni che si occupano di queste operazioni sono gli stessi agenti che hanno bisogno di annoverare tanti "successi" nel loro curriculum per guadagnarsi una promozione, le persone addestrate per le uccisioni sono le stesse che ne controllano gli effetti, e sulla base delle loro valutazioni fanno pressioni sul governo per ottenere nuove autorizzazioni. Nei fatti, gli omicidi sono stati controllati solo dai loro esecutori.

Una parte considerevole della logica israeliana delle uccisioni è fondata sulla predilezione delle agenzie israeliane di sicurezza per l'analisi della personalità. Il sociologo israeliano Gil Eyal ha dimostrato che, seguendo una lunga tradizione orientalista, i servizi di sicurezza israeliani hanno preferito cercare le motivazioni di determinati sviluppi politici o degli attacchi terroristici non in una storia di repressione o in una ricerca di obiettivi politici razionali ma nelle irrazionalità personali, nelle idiosincrasie e nelle instabilità dei leader arabi. Quando si decide di intraprendere un'analisi politica ed economica, in genere i risultati offrono solo le informazioni preliminari necessarie per tracciare i profili psicologici. La conseguenza naturale di questa logica è la convinzione che, uccidendo, i servizi israeliani di sicurezza eliminino non solo un esponente di punta ma anche le radici del problema politico o della questione di sicurezza.

Anche se sono stati dedicati molti sforzi a creare modelli che riproducano il comportamento del nemico, e se i servizi di sicurezza sono ancora sicuri dei loro metodi, anni e anni di omicidi mirati non sono serviti a limitare la violenza; essi non hanno nemmeno ridotto la motivazione dei palestinesi a resistere, né hanno rinforzato l'autorità del presidente Mahmoud Abbas o «rinvigorito i moderati nelle strade della Palestina». In effetti questi omicidi non sono mai riusciti a «lasciare un segno nella coscienza dei palestinesi» che li convinca dell'inutilità della resistenza. Al contrario, hanno alimentato il conflitto stimolando la violenza come forma di vendetta e hanno drammaticamente accresciuto il sostegno popolare palestinese agli atti di terrorismo. La capacità degli assassini mirati di influenzare la politica, invece, è stata percepita più intensamente all'interno del sistema politico israeliano. Durante la prima metà del 2004, quando i politici cominciarono a discutere l'evacuazione di Gaza, fino al 6 giugno dello stesso anno, quando il governo votò e approvò il "Piano di disimpegno", essi subirono un'impennata che portò alla morte di 33 palestinesi. In preparazione alla stessa operazione di evacuazione, programmata per l'agosto 2005, il livello di esecuzioni aumentò nuovamente, e il luglio 2005 si rivelò il mese più sanguinoso dell'anno. Questo massacro aiutò Sharon a presentarsi come «intransigente nei confronti del terrorismo» nel perseguire una politica che in Israele era considerata di sinistra. In questo modo, paradossalmente, gli omicidi mirati fecero aumentare il sostegno al "compromesso territoriale".

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