Gaza Beach
un’estate coni corpi civili di pace
a cura di maurizio cucci
&
andrea pagliarani - luca pulitini - fabrizio bettini -
silvano tartarini - alberto capannini - licio lepore - barbara malfatti - michele gambini -
pierangela marsili - mariaida paolotti - carla biavati - andrea anselmi - andrea di torino -
francesco gaddi - eva murtas - lorenzo guidi - elena dei beretti -
alex faggioni - gianluca pederzoli - tina bertolini - elisa cantini ...
volontari
di operazione colomba e berretti bianchi
Sommario

introduzione ai corpi civili di pace Corpi Civili di Pace/Silvano

prologo/Fabio

la scelta/Andrea, Fabrizio, Fabio, Luca

... andare a Gaza

comunicato/Operazione Colomba

Gaza/Fabrizio

visita a Khamil/Fabrizio

Jabalia Camp/Maurizio

schegge inter-rotte/Maurizio

Abu Holi/Andrea

Khan Younis/Fabrizio

c’è una strada ad Abu Holi/Fabrizio

ho una casa, ma non posso abitarci/Maurizio

è dura essere positivi/Fabrizio

vicini di casa/Fabrizio

Shadi/Maurizio

Ahmed/Maurizio

Muhammed/Maurizio

... abitare il conflitto in medio oriente

comunicato/Operazione Colomba

Forte dei Marmi/Silvano

un villaggio beduino/Maurizio

Kussufin Road/Maurizio

storia di Rami/Maurizio

why the donkey?/Michele

storia di Selma/Maurizio

comunicato congiunto

la notte delle officine meccaniche/Maurizio

Al Mawasi/Fabrizio, Barbara

una donna sul martirio/Maurizio

riflessioni/Fabrizio

Il danneggiamento della pompa di drenaggio dell’acqua nel Blocco “O” di Rafah e l’azione diretta di interposizione nonviolenta per ripararla/Maurizio,Fabio,Luca.

1 luglio/Maurizio

Rafah city/Maurizio

legge islamica e nazionalismo/Maurizio

Nasser Hospital/Maurizio

briciole/Maurizio

polvere/Licio

i corpi civili di pace/Licio

ho visto/Licio, Pierangela …

comunicato/Operazione Colomba

Asmaar è morta/Michele, Francesco, Eva

Rafah e’ isolata/Andrea

Al Qarara/Andrea

lettera ad Asmaar/Francesco

buona fortuna Ahmad/Alex

due bambini/Alex

guerra e oasi/Alex

i segni/Alex

sotto tiro/Alex

Al Tufah/Alex

comunicato/Operazione Colomba

Il carretto/Alex

comunicato/Operazione colomba

un altro giorno/Fabio

... Jerusalem

ho visto/Licio, Pierangela ...

Jerusalem/Maurizio,Licio

Rabbi Jeremy Milgrom/Maurizio

Hebron: David/Maurizio

Haifa: Hani/Maurizio

Jerusalem: Idaia/Maurizio

introduzione ai corpi civili di pace
Corpi Civili di Pace
/Silvano

Dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della “guerra fredda”, si era sperato che il mondo si incamminasse finalmente sulle vie della pace. Era una ipotesi e una speranza che è stata, purtroppo, disattesa dai potenti della terra.
All’equilibrio del terrore è subentrato il terrore dei conflitti regionali, pagato soprattutto dalle popolazioni civili.
E nemmeno l’Europa è sfuggita alla piaga della guerra. Una parte della società civile ha reagito fin dall’inizio di questi percorsi di guerra. Già nel mese di ottobre del 1990, pacifisti di varie nazionalità accorsero in Iraq nel tentativo, non riuscito, di impedire che quel conflitto sfociasse in un attacco armato. Dopo quella prima esperienza, gli interventi di pace in zona di conflitto si sono moltiplicati. Ad oggi sono parecchie le Organizzazioni Non Governative (ONG) che sono intervenute e intervengono tutt’ora in zona di conflitto, e questo è avvenuto e avviene in quasi tutte le parti del mondo, dalla Bosnia al Chiapas, dall’Africa alla Cecenia, dal Kossovo alla Palestina.
Dunque, se da una parte i governi non riescono a costruire che risposte di guerra, è cresciuta e cresce sul pianeta una coscienza civile nonviolenta sempre più in grado di costruire sul terreno del conflitto almeno dei tentativi concreti di risposte di pace. Anche se non siamo stati ancora in grado di impedire le guerre, molte risposte in positivo si sono concretizzate, è stata fatta informazione che non si sarebbe mai avuta- come questa che qui riproponiamo-, ed è cresciuta la fiducia dove non c’era. In Italia, in particolare, esistono oggi più di una diecina di ONG impegnate su questo, e moltissime altre realtà associative sparse sul nostro territorio nazionale.
La complessità degli odierni conflitti sul pianeta e la necessità di contrastare fin dall’inizio il crescere della violenza, impone la necessità di un intervento esterno alle parti in conflitto, che non sia fatto dagli eserciti, ma dalla comunità civile internazionale, la sola che può realmente riferirsi ai bisogni delle popolazioni nelle zone di conflitto. La sola che può dialogare con la società civile dei due campi contrapposti e lavorare insieme a loro alla costruzione di risposte di pace in maniera nonviolenta, senza alcuna costrizione.
Ma per fare questo in maniera continuativa ed efficace, la comunità civile internazionale ha bisogno di un riconoscimento e di un aiuto dei governi e delle istituzioni internazionali. Per la verità, il nostro Parlamento Europeo a più riprese si è espresso in materia di interventi civili per la pace, chiedendo al Consiglio dei Ministri della UE e alla Commissione Europea la costituzione di un vero e proprio Corpo Civile di Pace Europeo. Anche se i pronunciamenti del Parlamento Europeo vedono il ruolo dell’intervento civile quale complemento alle azioni per la prevenzione dei conflitti di carattere militare in cooperazione con l’OSCE e l’ONU, l’importanza di questi pronunciamenti è grande.
Tuttavia, ad oggi, questi pronunciamenti sono rimasti lettera morta, come è rimasta lettera morta la raccomandazione approvata dal nostro Parlamento l’11 giugno 1998, che impegna il Governo “ a studiare forme atte alla creazione ed alla formazione operativa di un contingente italiano di Caschi Bianchi”. I Caschi Bianchi sono forze civili disarmate formate da obiettori di coscienza e non solo che intervengono all’estero in zone di conflitto. Non sono altro che una prefigurazione dei Corpi Civili di Pace. Esistono grazie al fatto che abbiamo in Italia una normativa sul servizio civile, che consente all’obiettore di partecipare a missioni umanitarie all’estero.
Come si vede, nelle istituzioni si affaccia, se pur timidamente e tra tante contraddizioni, l’idea di affidare a volontari civili un ruolo e un compito nella risoluzione dei conflitti.
Per fare avanzare questo processo nelle istituzioni è necessaria una crescita organizzativa all’interno e all’esterno delle varie ONG che operano per la costruzione della pace nella giustizia.
Da gennaio 2001 alcune ONG italiane hanno iniziato un percorso comune che tende alla costruzione, a partire dal nostro paese, di un Corpo Civile di Pace.
La collaborazione realizzata in Palestina tra l’Associazione Berretti Bianchi e l’Associazione Papa Giovanni XXIII è un primo passo in questa direzione. L’augurio è che questa esperienza di sinergia si allarghi ad altre ong e si rafforzi tanto da permettere quanto prima la creazione di un Corpo Civile di Pace organizzato ed efficace nel nostro paese.
Lavorare in questa direzione a partire da casa nostra è fondamentale per avere un giorno un Corpo Civile di Pace Europeo che ottenga il riconoscimento da parte delle istituzioni internazionali.
In questi giorni dove c’è chi già prepara una nuova guerra e le istituzioni internazionali sembrano impotenti a impedirla, le testimonianze che vengono riportate in questo libro e che si riferiscono a un periodo di circa tre mesi dal giugno all’agosto 2002-, non sono solo testimonianze di un lavoro di pace importante, sono anche il segno di una resistenza all’illegalità diffusa che la guerra rappresenta sempre.
E’ la resistenza di una umanità nonviolenta che vuole bandire la guerra dal pianeta, in difesa di se stessa, del proprio diritto e della propria libertà di vivere tra gli altri senza più il terrore di violenze e di morte.

prologo
/Fabio

come raccogliere il vento in un pugno…
come raccogliere il vento…
come raccogliere…

Inizio a raccogliere i pensieri sparsi su fogli, libri, occhi, mani … che è passato un mese… solo ora i pensieri sono alla soglia del trentunesimo giorno. Come sulla soglia di un trentunesimo piano, con l’odore delle vertigini e il retrogusto piacevole dell’essere in questa terra amara. Come un filo sotteso. Come un funambolo che ci cammina sopra. Rosso e’ il filo, sconosciuti i capi. Non si sa dove inizia il viaggio, non si sa dove finisce il filo. E’ permesso sapere dove siamo ora. Qui e’ la Palestina. Il filo è sotteso. Saranno dei frames, i frames di una ripresa cinematografica veloce. Come schegge, ogni frame e’ in se’ privo di significato se non e’ seguito e preceduto da un altro. Insieme fanno l’azione. E l’azione ora e’ un vortice di polvere, fogli di carta bruciacchiati, coriandoli di carne, grumi di sangue e sogni. “we have a dream” Qui tutti hanno un sogno. Tutti lo stesso sogno. Un bambino scalzo sulle barricate, un ragazzo sul cui volto leggi i segni di un sogno fattosi troppo forte, la donna dal volto nascosto dal velo. Chiunque sia, ha un sogno... è facile giocolare con parole quali pace terra e libertà. Giocolieri, acrobati, mangiafuoco, funamboli. Il circo. Lo sputafuoco ha in bocca ciò che farà infiammare la platea e la sua piazza. La fiamma. L’esplosione. La rabbia che esplode. Il tritolo che libera e che inchioda. E questa puzza di zolfo nell’aria, come la miccia appena accesa, come il detonatore appena liberato. L’istante fugace e fatale frapposto tra la calma e il delirio. Il punto di non ritorno. Si potesse fermare la scena in quell’istante frapposto tra il dito che preme e la fiammata. Si potesse fermare quell’istante tra il dito che preme e la scia muta del proiettile. Frames, schegge.

la scelta
/Andrea, Fabrizio, Fabio, Luca


La decisione di muoverci verso Gaza è stata presa dopo una valutazione di gruppo, nel proseguimento del lavoro d'emergenza iniziato con questo viaggio. Era importante che quanti più stranieri possibile andassero nella striscia di Gaza proprio perché sembrava che l'attacco israeliano fosse imminente. Abbiamo abbandonato il tentativo di entrare a Tulkarem perché sembrava che le operazioni militari stessero finendo e anche perché era impossibile entrarvi essendo il cordone militare strettissimo.
... andare a Gaza
comunicato
10 maggio/Operazione Colomba


Quattro volontari dell'Operazione Colomba, il Corpo Civile di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII, sono attualmente a Gaza, dove ormai da diverso tempo la popolazione teme un attacco dell'esercito israeliano.
L'operazione militare, che sembrava dovesse iniziare in poche ore nella giornata di ieri, è stata sospesa, ma tutto fa pensare che sia solo una questione di tempo. La presenza internazionale in questo momento è assolutamente indispensabile, considerando le gravissime violazioni dei diritti umani compiute dall'esercito israeliano dall'inizio dell'Intifada e considerando la quasi totale indifferenza della comunità internazionale di fronte a tale brutalità.
I nostri volontari e molti altri provenienti da diversi paesi dell'occidente sono a disposizione delle locali strutture mediche e di pronto soccorso, per garantire il funzionamento di tali strutture anche in caso di invasione, presidiando gli ambulatori medici, accompagnando le ambulanze, e tentando di difendere la popolazione attraverso la propria presenza. Inoltre è necessario essere presenti per poter essere testimoni indipendenti in una situazione in cui normalmente qualsiasi presenza esterna non è gradita da parte dell'esercito israeliano.
Ribadiamo ancora una volta la necessità di operare a livello politico in Italia e in Europa affinché si costringa il governo Israeliano a mettersi al tavolo delle trattative, ritirando il proprio esercito dai territori palestinesi occupati e avviando un processo di dialogo serio, che tenga conto dei diritti del popolo palestinese.
Ribadiamo inoltre il nostro assoluto dissenso nei confronti del terrorismo come strategia di lotta, ricordando pero' che chi aderisce a questi gruppi estremisti è solo una piccola parte del popolo palestinese, e che l'occupazione militare israeliana, la politica degli insediamenti, la confisca delle terre e le gravi mancanze della comunità internazionale sono le cause principali che generano questo genere di risposta.

Gaza
10 maggio/Fabrizio


Siamo arrivati a Gaza nel pomeriggio passando dal check - point di Herez senza problemi e ci siamo incontrati con gli altri internazionali e con il coordinatore di P.N.G.O (coordinamento delle ong palestinesi) dove siamo stati smistati presso i vari punti da presidiare. Alcuni sono stati mandati all'ospedale, altri in alcune cliniche e noi siamo stati ospitati dal referente del campo profughi di Jabalia che abita poco fuori dal campo. La gente era tesa e si aspettava l'attacco quella notte stessa anche se erano già arrivate notizie che smentivano l'invasione. Gaza si presenta con le strade semi ostruite da mucchi di terra che dovrebbero rendere difficile il passaggio degli israeliani.
Poche ore prima di noi erano arrivati gli esiliati dalla basilica della Natività, pare che dopo un passaggio in ospedale per dei controlli siano stati alloggiati in un hotel con vista sul mare. Due di loro rimangono in ospedale, pare picchiati dai soldati israeliani nel tragitto da Betlemme a Gaza.
I problemi di Gaza dall’inizio dell’Intifada sono sempre gli stessi: la chiusura dei varchi di frontiera, la scarsità di acqua e corrente elettrica, l'estrema difficoltà di movimento da nord a sud, le colonie e le incursioni militari con l'abbattimento di case specialmente nella parte meridionale, a Rafah.

visita a Khamil
12 maggio/Fabrizio


Khamil ha gli occhi spenti ma lo sguardo fiero, ha dieci anni e abita in un posto dove tira la lieve brezza del mare, dove le palme adonbrano le strade e i giardini delle case. Khamil abita a Gaza in Palestina. Khamil ha perso il padre a marzo. La casa di Khamil sta su una piccola collina che sovrasta un poco le altre. La casa di Khamil è una baracca del campo profughi di Jabalia dove sono concentrate 96mila persone in pochi chilometri quadrati.
Il mese scorso l'esercito è entrato nel campo che sta proprio sul confine con Israele e in circa mezz'ora di "azione chirurgica" sono state uccise diciotto persone tra cui il padre di Khamil che stava per strada ed è stato freddato dall'esercito israeliano che per l'occidente addormentato era in caccia di terroristi. Il padre di Khamil non era un terrorista, era sordomuto, profugo, scappato nel 1948 da un villaggio che si vede ad occhio nudo oltre il confine.
Il padre di Khamil lottava tutti i giorni con la povertà, una povertà data dalla sua situazione sociale che è conseguenza dell'occupazione, dell'apartheid che l'amministrazione israeliana impone ai palestinesi ufficialmente per paura del terrorismo. Gaza è un mondo a parte, è un ghetto. Gaza è una striscia di terra lunga quaranta chilometri e larga sette, abbracciata dalla green line per tre dei suoi quattro lati, il quarto è appoggiato all'Egitto di cui faceva parte fino al 1967, anno in cui gli israeliani lo hanno occupato. Nel 1994 con la firma degli accordi di Oslo è diventata una parte del territorio amministrato dall'Autorità Nazionale Palestinese.
Ci sono altri particolari che servono a completare la cartolina. La poca terra dove sono concentrati un milione e mezzo di palestinesi viene erosa sistematicamente da poche migliaia di coloni israeliani che con i loro insediamenti, protetti dall’esercito, occupano il 42% della terra prendendosi l'acqua migliore e in quantità sproporzionata rispetto agli assetati palestinesi.
Gaza doveva essere la porta d'ingresso principale di quello che avrebbe dovuto essere il nascente stato palestinese, gli stati arabi e l'unione europea avevano infatti finanziato la costruzione dell'aeroporto e del porto commerciale che sono stati distrutti, assieme a molte altre strutture dell'Autonomia Palestinese, dall'esercito israeliano che ha dichiarato di aver distrutto, così', le infrastrutture del terrorismo.
La soluzione, alla fine, sarebbe semplice, lo dicono anche i pacifisti israeliani; Fine dell'occupazione, smantellamento delle colonie, creazione di un vero stato palestinese (senza zone a, b o c ) poi si comincia a parlare. Ma tutto questo non ci sarà mai finché George Bush definisce Sharon "l'uomo della Pace".
Quando rivedo Khamil, è sul tetto della sua baracca, lancia sassi nel vuoto, forse vorrebbe colpire l'aereo spia che sorvola continuamente Gaza, l'aereo è telecomandato e supertecnologico. Neanche la dignità di un pilota per spiare Khamil e la sua gente!

Jabalia Camp
/Maurizio


Jabalia Camp è il campo di rifugiati più grande della Striscia di Gaza, vi abitano circa 80.000 rifugiati in un area di 2,5 km quadrati, con una densità di circa 32.000 persone per chilometro quadrato, in un abitato senza infrastrutture, con tubature dell’acqua e delle fogne improvvisate, così come gli allacciamenti elettrici.
La maggioranza dei rifugiati che vi abita sono stati sfollati dopo la costituzione dello stato di Israele nel 1948, altri dopo la guerra del 1967 e così via. Tutte queste persone hanno lo status di rifugiati e di conseguenza incontravano molte difficoltà ad andare a lavorare in Israele prima di questa Intifada, oggi è del tutto impossibile. La disoccupazione ha superato il 70% e questo provoca grandi frustrazioni e tensioni all’interno del campo, riflettendosi negativamente sulle relazioni interfamiliari, tra moglie e marito così come tra padre e figli. A causa di queste difficoltà, le priorità economiche delle famiglie vengono destabilizzate così che, ad esempio, i disabili vengono trascurati e i giovani hanno difficoltà ad accedere allo studio.
Molti si arrangiano coltivando la terra e praticando qualche piccolo commercio, per altro l’UNRWA (United Nations Relief Work Agency) provvede ai servizi sanitari e alle strutture scolastiche così come alle forniture alimentari (50 kg di farina al mese per ogni famiglia, per un totale di circa 10.000 famiglie) sostenendo, sia pure in maniera insufficiente, le esigenze primarie della pura sopravvivenza degli abitanti del campo.
All’interno del campo non ci sono ospedali, solo piccole cliniche sostenute dall’UNRWA, dall’ANP e dall’UPMRC (Union of Palestinian Medical Relief Commitees). Il funzionario del Medical Relief che mi parla, spiega che lavora nel campo ad un programma chiamato “Community based rehabilitation program” dove, con il suo staff, si prende cura dei disabili nelle loro case, seguendoli negli esercizi di riabilitazione e nella consulenza familiare, con lo scopo di integrare meglio i disabili all’interno della comunità.
Alla domanda sul perché mai non ci siano cantine sotto i palazzi e perché mai non ci siano rifugi antiaerei nella Striscia di Gaza, egli mi risponde che; “dopo cinquant’anni di guerre, che non abbiamo voluto noi, abbiamo costruito le nostre case senza cantine e le nostre comunità non hanno rifugi per difendersi da eventuali bombardamenti perché abbiamo creduto che il futuro dopo gli accordi di Oslo fosse migliore o almeno che sarebbe migliorato nel tempo. Nessuno poteva immaginare che ci saremmo trovati coinvolti in una seconda Intifada. E’ vero che se oggi bombardassero la Striscia di Gaza ci sarebbero centinaia di migliaia di morti, ma tuttavia non crediamo che gli israeliani arriverebbero a tanto. Comunque ormai non possiamo più farci niente, avremmo dovuto pensarci prima, ma non ci aspettavamo una seconda Intifada.”
A breve, oltre un centinaio di membri delle famiglie dei due attentatori del bus Emmanuel, attaccato vicino a Tulkarem il 17 luglio, andranno ad ingrossare le file dei diseredati della Striscia di Gaza, dove saranno deportati. Mentre le loro case saranno fatte saltare e spazzate via dai bulldozers.

schegge inter-rotte
/Maurizio


La Striscia di Gaza si estende su di un area di 360 km quadrati, di cui il 42% sono occupati dagli insediamenti; nel restante 58% vivono 1.220.000 palestinesi con una densità di circa 5.800 persone per km quadrato. Nei 150 km quadrati occupati dagli israeliani vivono 4/5000 coloni difesi da circa 8.000 soldati, con una densità di 25/30 persone per km quadrato (soldati esclusi).
A est di Gaza sono decine gli insediamenti militari che non sono stati evacuati nonostante gli accordi di Oslo del 1994, qui sono di stanza centinaia di carri armati, mai rimossi dai loro campi. Lo scorso gennaio in una sola notte, nella città di Rafah sono state distrutte 75 case. La gente che vi dormiva dentro ha sentito le mura tremare ed è dovuta fuggire precipitosamente, con appena il tempo di raccogliere i bambini ed uscire in strada con il pigiama che indossava. Dopo venti anni di sacrifici per costruire la loro casa, essa è stata distrutta in pochi minuti per “ragioni di sicurezza”.
Nella Striscia la disoccupazione ha raggiunto il 65/70%, dopo che 130.000 lavoratori sono stati licenziati all’inizio della seconda Intifada. L’ 80% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, i bambini cercano l’autosufficienza arrangiandosi, vendendo cose per strada o ai semafori.
Per arrivare nella parte meridionale della Striscia bisogna attraversare il semaforo di Abu Holi, che è sorvegliato da militari protetti da due torrette blindate e da un fortino. Non ci sono sbarre o blocchi stradali e chi passa col rosso non si becca una multa, ma gli sparano direttamente addosso. Su questa strada non passa altro traffico se non quello palestinese, tuttavia il semaforo diventa verde solo due volte al giorno per un paio di ore e non esiste un orario preciso: tutto è a discrezione dell’esercito. Noi abbiamo atteso circa cinque ore, dalle 12,45 alle 17,30.

Abu Holi
12 maggio/Andrea


Ci viene proposto di andare a Khan Younis dove non c'e' nessuno straniero, naturalmente sempre attraverso la rete del Medical Relief.
Ad Abu Holi c'è un semaforo, ma c'è qualche cosa che non va. Il rosso è troppo lungo.
Il check point di Abu Holi che taglia in due la striscia di Gaza è un ostacolo ancora più duro di quanto lo era stato nel precedente viaggio di febbraio. Pare che ora si passi solo un paio di ore la mattina e un paio il pomeriggio, i soldati fanno passare solo le macchine e gli automezzi che hanno a bordo almeno tre persone perché hanno il timore di attacchi suicidi (a febbraio erano due persone a volta).
Ci sono ragazzini che si guadagnano qualche soldo a fare da passeggeri avanti e indietro sulle macchine private. Quasi a prendere in giro chi aspetta ad un semaforo che è quasi sempre rosso. I soldati non sono per strada come ai check point in Cisgiordania ma chiusi dentro torrette blindate. Il check-point prende un ampia area e il tratto super blindato è di circa due kilometri, la strada è divisa in due da un muro e dall'altra parte circolano liberamente le macchine israeliane. Nell'area circostante sono state abbattute case e distrutte coltivazioni per motivi di sicurezza.
Passiamo dopo circa tre ore d'attesa sotto il sole, il verde dura pochi secondi poi di nuovo rosso, poi di nuovo verde e poi rosso, di modo da far passare al massimo dieci macchine per volta, questo avviene per circa una o due ore poi di nuovo tutto bloccato fino al giorno seguente.

Khan Younis
12 maggio/Fabrizio


Mi ricordo la mattina quando andavo a lavorare con i minuti contati, prendere un semaforo rosso significava perdere secondi preziosi che nel traffico cittadino volevano dire arrivare tardi a destinazione. Qui è diverso, questa fretta e questa ansia sono finite da tempo. Qui bisogna aspettare il verde per ore, a volte per giorni. Abu Holi è un imbuto che spacca la striscia di Gaza in due parti.
Per andare da nord a sud, per i palestinesi, c'è solo una piccola striscia d'asfalto lunga 2 km vigilata dal semaforo. Su di un lato della strada di Abu Holi c'è un muro, al di la' del quale corrono le macchine e gli autobus israeliani che non trovano, invece, semafori rossi sulla loro via. Sull'altro lato c'è il deserto per due kilometri poi un insediamento. La gente racconta che li' c'erano uliveti e coltivazioni, ma ora, "per motivi di sicurezza" tutto è stato desertificato.
Il semaforo e tutta la strada sono controllati dai soldati chiusi in torrette blindate da dove spuntano solo le canne dei loro fucili puntati sulla gente che aspetta il verde. Il sole, la vista dei soldati e degli insediamenti, l'attesa interminabile e l'umiliazione quotidiana di vivere nel ghetto di Gaza ogni tanto scalda gli animi. Qualche sasso verso i soldati, qualche lite fra chi aspetta, poi spari, lacrimogeni etc, alle volte ci scappa il morto.
Ogni tanto il semaforo di Abu Holi diventa verde, nessuno sa di preciso quando il passaggio è permesso. Quando i mezzi si mettono in moto, dopo ore, giorni d'attesa, pare la partenza di un gran premio. Di corsa tutti salgono in macchina, di colpo il mondo di chiacchiere, viaggiatori, venditori ambulanti e mendicanti, che era nato nell'attesa , si dissolve nello sgommare delle macchine. Il verde dura pochi secondi, passano una decina di macchine poi, di nuovo rosso.
Altri minuti d'attesa poi altre dieci, venti macchine. Questo spettacolo poco gratificante gestito dal soldatino con il dito sul pulsante di controllo del semaforo dura qualche ora, poi, di nuovo, un rosso interminabile fino al gran premio successivo. Ci sono dei ragazzi che si guadagnano da vivere facendo i passeggeri avanti indietro per quei due kilometri maledetti.
Abu Holi è uno dei moltissimi punti in cui Israele dice di fare lotta al terrorismo, dai due kilometri di Abu Holi le macchine non possono transitare con una sola persona a bordo; per paura di attacchi suicidi almeno tre persone in ogni vettura. Israele dice di combattere il terrorismo ma dalla rabbia che inevitabilmente si prova passando da Abu Holi ho capito che quei due kilometri sono una fabbrica di terroristi!
Arriviamo a Khan Younis nel primo pomeriggio dove con il referente del Medical Relief facciamo un giro per vedere la situazione.
A Tufah (sobborgo di Khan Younis) ci sono molte case distrutte e un enorme muro eretto dagli israeliani a protezione di un check point che porta nella zona degli insediamenti ma anche nel villaggio palestinese di Al Mawasi. Gli abitanti di Al Mawasi sono bloccati nel loro villaggio e l'unica via d'uscita è il check point di Tufah. Tutti gli abitanti di questo villaggio sono schedati e sono gli unici a poter entrare ed uscire dall'area che è interdetta a tutti, palestinesi e stranieri. Entrare ad Al Mawasi non è facile, anche qui l'attesa si conta in ore, si entra solo a piedi e solo in gruppi di cinque.
Tutta la regione di Khan Younis e quella di Rafah non hanno accesso al mare. In un altro sobborgo di Khan Younis vediamo alcune abitazioni tipo case popolari costruite dall'amministrazione con fondi dell'Unione Europea, il primo lotto è stato finito nel ‘98 il secondo è incompleto a causa della situazione. Nel complesso non ancora terminato, quindi senza servizi igienici, porte o finestre, sono state alloggiate le famiglie di Tufah alle quali è stata abbattuta la casa.
Questa zona si trova sulla linea di confine con un insediamento e quindi con i militari che spesso sparano sulle case. In passato si sono svolte vere e proprie battaglie in questo quartiere molto popolato dove oltre alle case non è stato nemmeno risparmiato il vicino cimitero, che è diviso in più parti perché la gente è quasi tutta profuga ed è seppellita a seconda del villaggio di origine.
C'è un piccolo campetto da calcio vicino al complesso delle case che è sovrastato da una torretta di controllo israeliana. Qualche mese fa dei ragazzini che giocavano nel campo sono stati uccisi.
Oltre un reticolato, guardato a vista dalle torrette militari, ci sono le serre di un insediamento dove tuttora, a causa della situazione economica disastrosa, alcuni palestinesi lavorano per gli israeliani. In tutta la regione la situazione economica è disastrosa, i contadini locali che riuscivano prima di questi due anni a ricavare 20 shekel da una cassa di pomodori, oggi, a causa della chiusura, ne ricavano solo 2.
Per la notte siamo andati nel villaggio di Abssan Kabira che sta a due kilometri dalla green line (confine con Israele). La serata scorre tranquilla senza corrente elettrica e con il ronzio da compressore dell'aereo spia che ci sorvola tutta la notte.

13 maggio/Fabrizio


Passiamo la mattinata dividendoci con gli operatori del Medical Relief che fanno un lavoro molto interessante.
Il Medical Relief a Khan Younis non fa un lavoro di emergenza ma ha un progetto di aiuto e riabilitazione dei disabili. Mohammed, il direttore del centro, ci spiega che nell'area c'è una percentuale di disabili che arriva al 40%. Le cause della disabilità sono molte: i matrimoni fra consanguinei, la giovanissima età delle madri, ma soprattutto a causa del conflitto. Molte madri a causa dell'isolamento sono costrette a partorire in situazioni difficili senza assistenza adeguata, a volte l'avvelenamento da gas lacrimogeni si ripercuote sui nascituri, poi ci sono tutti i feriti che diventano disabili a causa delle percosse o di ferite (per esempio un ragazzo di ventidue anni ferito alla testa mentre andava a lavorare il campo con il nonno, ora per metà paralizzato).
L'attività con i disabili va dalla fisioterapia alla logopedia all'inserimento scolastico nel caso dei bambini. Il Medical Relief fa anche un lavoro sulla società cercando di cambiare il modo in cui sono visti i disabili partendo dalla famiglia. Il progetto viene finanziato, almeno in parte, da Medicines sans Frontiers Grecia. Oltre a questo progetto che è partito nel ‘97 c'è un ambulatorio nel villaggio di Abu Taima fin dal ‘94.
Dopo le attività siamo andati a visitare Rafah dove le distruzioni delle case sul confine con l'Egitto continuano. Visitiamo un posto dove alcune case sono state abbattute qualche giorno prima, anche una Moschea, proprio sulla linea di confine è stata oggetto di spari ed è inutilizzata. Pare che ci sia una vera e propria strategia fatta di spari sulle case che spinge la popolazione a spostarsi, abbiamo visto molte case con le finestre chiuse con mattoni. Se la gente non si muove arriva direttamente l'ordine di abbattimento preceduto dal taglio della luce e dell'acqua.
Abbiamo passeggiato in una spianata dove ci dicono sorgevano delle case, c'è ancora una casa, ci dicono che la famiglia che ci vive dorme da un altra parte e la mattina torna a vedere se la propria casa è ancora in piedi. Le torrette e le prime case in territorio egiziano sono a poche centinaia di metri.
Il confine è gestito dalla polizia palestinese solo per quanto riguarda l'ordine pubblico, dove i palestinesi fermano il grosso della gente che chiede di passare, mentre, a poca distanza, gli israeliani procedono ai controlli che a volte durano anche un giorno. Sui flussi in entrata e in uscita pare che sia palestinesi che egiziani debbano sottostare al volere delle autorità israeliane.
Nello stesso pomeriggio abbiamo visitato l'aeroporto di Gaza che è stato costruito anche con il contributo dell'Unione Europea, e danneggiato, l'anno passato, dagli israeliani in modo da impedirne l'utilizzo. L'aeroporto è stato dapprima bombardato dagli aerei e poi con un azione di carri armati e bulldozers, l'asfalto della pista è stato in parte rimosso.
Abbiamo trascorso la notte sempre nel villaggio di Abssan dove abbiamo sentito botti in lontananza, c’ è stato riferito che proprio in quella sera una casa e un allevamento di polli costruite molto vicino al confine erano state distrutte dall'esercito israeliano.
Per aria il ronzio dell'aereo spia e i rombi degli F16.

c’è una strada ad Abu Holi
30 maggio/Fabrizio


C'è una strada ad Abu Holi, c'è anche un ponte che sovrasta un altra strada. E c'è un casa vicino al ponte e alla strada. Domani la casa non ci sarà più!
Imad ci racconta di quando intorno c'erano solo palme e campi quando, due anni fa, sono cominciati i lavori per la costruzione della strada e del ponte. Succede anche in Italia delle volte, che uno costruisce la sua casa in campagna e poi, dopo anni, si vede costruire a fianco una superstrada.
Qui è diverso, Imad non può nemmeno percorrerla quella strada con la sua vecchia Seat Ronda (la copia spagnola della Fiat Ritmo) e poi da due mesi c'è un altra strada, per ora solo sterrata, che gli passa proprio di fronte. Con Imad parliamo in serbo, la moglie è macedone e lui ha studiato a Skopie.
Ad un tratto è come fossi di nuovo nei Balcani, di fronte a me ho una famiglia che sta per perdere tutto, anche i discorsi sono simili, non solo per la lingua, a quelli di Bosnia, Croazia e Kossovo. Imad ci dice di aver lavorato tutta la vita assieme alla moglie e al resto della famiglia per costruire la casa e dare un futuro ai suoi figli.
Ora dice di dover ricominciare da zero. Nei Balcani la gente è buona e sanguigna, nei Balcani, però, ci sono i colpevoli. A volte sono i cetnici, altre volte gli ustascia o i fanatici bosniaci e anche l'UCK, quando ha potuto, ha colpito duramente. Ma qui, dove sono i cattivi qui? Dove sono i fanatici che il mondo non ha dubbi a condannare? Chi sono quelli che questa notte o domani mattina arriveranno ad abbattere la casa di Imad?
Qui siamo in Palestina, nella striscia di Gaza non ci sono i selvaggi cetnici, i sanguinari ustascia, i fanatici bosniaci e nemmeno quelli dell'UCK. Qui c'è un esercito regolare, un governo democratico. Qui sulla strada che scorre vicino alla casa di Imad passano macchine belle e costose, dentro probabilmente ci sono anche famigliole felici, passano anche i mezzi dell'esercito di Israele, i cui soldati, finito il periodo di richiamo alla leva, torneranno a fare una vita normale.
Proprio qui sta l'inganno; questo esercito regolare e questo governo democratico stanno schiacciando un popolo, oggi tocca alla casa di Imad, l'altro ieri a due donne uccise nei campi. Tutto questo nel nome della sicurezza di Israele, questo è il secondo inganno; qui non c'è in gioco la sicurezza di Israele qui si sta conquistando, o meglio rubando la terra ai palestinesi per costruirci insediamenti.
Lo so, in questi giorni ci sono stati degli attentati in Israele, anche una bambina di diciotto mesi è morta, ciò nonostante non penso che per fermare tutto questo odio serva costruire muri o abbattere la casa di Imad, non serve uccidere due donne nei campi, non serve far morire Aaisha Ali Asan, 21 anni, perché i soldati israeliani le hanno impedito di raggiungere Ramallah per sottoporsi a dialisi. La sicurezza di Israele si ottiene finendo l'oppressione; l'occupazione è una fabbrica di terroristi.
Imad non è antisemita, ci dice di aver studiato su molti testi di scienziati e dottori ebrei, Imad sa che il popolo ebraico non è un popolo da odiare ma dice che dalla sua casa questo non si vede, la moglie ci racconta di temere di più il passaggio delle auto dei coloni che quelle dell'esercito. Da due anni tutta la famiglia dorme in cucina perché è la stanza più riparata. Imad piange, ma poi tra se e se dice: "Non devo disperarmi, tanto ormai non c'è più niente da fare".
Dice anche che l'importante è rimanere vivi e c'è anche chi ci dice che dobbiamo andare in Israele a spiegare agli israeliani che cosa sta succedendo qui. C'è un camion parcheggiato di fronte alla casa, ci stanno caricando i mobili, per fortuna questa volta l'esercito è arrivato con due giorni di anticipo: sulla carta c'era scritto che la casa deve essere abbattuta per "motivi di sicurezza".
Guardo Imad vorrei dirgli una frase che molte volte ho ripetuto nei Balcani: "Bice bolije, treba cekati samo malo" (Andrà meglio, bisogna aspettare solo un po') ma oggi proprio non ci riesco. Ho lasciato quella casa facendomi delle domande scontate alle quali ogni volta do le stesse risposte.
Dove porta quella strada?
Quella strada porta ad un insediamento.
Cosa è un insediamento?
Un insediamento è una piccola città o un villaggio israeliano costruito in territorio palestinese, ossia fuori dai confini di Israele, quelli riconosciuti anche dai palestinesi, quelli ufficiali del 1948.
Poi c'è un altra domanda alla quale non so rispondere, perché Israele fa tutto ciò?

ho una casa, ma non posso abitarci
/Maurizio


Il nonno di mio marito era di Jaffa e fu sfollato nel 1949 quando vennero ad abitare nella Striscia di Gaza, poi il padre di mio marito si sposò e comprò questo terreno ad Al Qarara vicino alla strada dei coloni, infine i suoi figli hanno lavorato duramente per costruire questa nostra casa, ma i soldati ci hanno distrutto la vita senza alcuna ragione, senza che noi facessimo loro niente.
Ho conosciuto mio marito alla Facoltà di farmacia dell’Università di Skopje in Macedonia e dopo qualche anno ci siamo sposati, abbiamo vissuto insieme undici anni poi, insieme, abbiamo deciso di venire a vivere in Palestina. Per me l’importante era vivere in pace in casa mia, non m’importava in quale paese, era sufficiente che uno di noi vivesse nella sua terra. Quando siamo arrivati a Khan Younis nel 1995, siamo andati a vivere ad Al Qarara con la famiglia di mio marito, poi abbiamo aperto una farmacia a Khan Younis, ma dopo qualche tempo abbiamo constatato che era meglio avere un’altra entrata e così sono andata a lavorare come farmacista per la Mezza Luna Rossa Palestinese.
Mi piaceva la vita qui, il mio lavoro era buono e anche il posto in cui vivevo era un posto tranquillo, immerso nel verde, con molti alberi. L’unica cosa che non mi piaceva erano i filari di fichi d’india lungo la strada.
Io sono cristiana e qui hanno un’altra cultura e un altro modo di vivere e anche per questo, dopo tre anni, insieme ai due fratelli di mio marito, un farmacista e un avvocato, con grandi sacrifici abbiamo costruito la nostra casa nuova a due piani, dove ogni fratello aveva un appartamento di 170 metri quadrati in cui vivere con la sua famiglia sulla terra del padre. Questa casa è a pochi metri dalla strada dei coloni, ma quando l’abbiamo costruita non era un posto pericoloso, ma l’inizio dell’Intifada ha segnato la fine della nostra pacifica esistenza.
Tutto è cominciato la sera del 22 novembre 2000 in Al Qarara, dove i primi carri armati hanno scortato i bulldozers nella nostra via. Quando li ho visti arrivare, ho pensato che finalmente avrebbero spianato quei filari di fichi d’india spinosi, ma invece hanno sradicato i settanta alberi di ulivo del padre di mio marito. E’ stato orribile, sono corsa subito a casa e dal terrazzo vedevo i bulldozers che si avvicinavano alla mia casa, mi sembravano macchine strane, enormi, orribili come mostri. Non avevo mai visto niente del genere e non sapevo cosa fare, così sono scesa dal terrazzo, il bulldozer era fermo davanti alla porta di casa e io li pregavo di fermarsi sperando che provassero un poco di pena per me, ma se ne andarono solamente quando ebbero distrutto ogni cosa intorno alle case, la nostra e quella del padre di mio marito.
In seguito venivano tutti i giorni e se vedete quel posto oggi, non è più verde come prima, è diventato un deserto, abbandonato e desolato. Dopo quattro mesi abbatterono tutti i pali della luce, così avevamo i cavi dell’elettricità che correvano per terra lungo la strada. Ogni sera venivano con i bulldozer e due carriarmati di scorta e tagliavano l’acqua e la luce. E noi di giorno dovevamo riparare i danni da soli.
Ho cercato di parlare con i soldati, come un essere umano, dicendo loro che non avevo mai pensato che fossero miei nemici, che se non ci volevano far vivere lì lo dicessero chiaramente, ma che per favore non distruggessero più nulla. I soldati ascoltavano ma non rispondevano nulla, i soldati fanno il loro lavoro, io posso capirlo, ma continuavo a ripetergli che io non sono palestinese, che sono macedone e anche se i palestinesi si sarebbero arrabbiati con me, loro non erano miei nemici, io volevo solo vivere in pace a casa mia.
In seguito, la sera ci toglievano la luce dalla camera da letto, allora io ero costretta ad andare a dormire sul pavimento della cucina con le mie due figlie. Poi misero il filo spinato davanti alla casa e io ero costretta a fare un lunghissimo giro per riuscire a rientrare in casa dopo il lavoro.
Un anno dopo, quando il ponte sulla strada dei coloni fu terminato, i soldati vennero con un ordine di evacuazione della casa e ci dissero che noi eravamo brave persone ma che la nostra casa era troppo vicina al loro ponte e che dovevamo andarcene in 48 ore, ma che siccome loro erano democratici, nelle 48 ore potevamo chiamare un avvocato ed appellarci all’alta corte israeliana.
In seguito a ciò tornavamo ogni tre giorni alla nostra casa, solo per affermare il nostro diritto alla proprietà privata. L’ultima volta sono andata verso i soldati che mi hanno fermata chiedendomi cosa volessi. “Voglio andare a casa mia, quella è la mia casa”. Il soldato mi chiese se volevo prendere qualcosa ed io risposi che volevo solo andare a casa mia, allora lui chiamò il suo comandante che arrivò dopo una mezzoretta con la sua jeep, e mi disse che siccome io ero una persona per bene mi avrebbe accompagnato a prendere quello che mi serviva ma che poi nessuno sarebbe mai più potuto tornare.
A volte mi chiedo come ho fatto a vivere per due anni in queste condizioni. Ero molto avvilita e pensavo di non essere una buona madre perché facevo vivere le mie figlie in queste condizioni e forse avrei dovuto fare qualcosa per portarle a vivere in un altro posto.
Ho sempre pensato che se riuscivo a vivere in pace in casa mia con la mia famiglia non importava ciò che succedeva fuori. Ma i soldati non potevano capire questo e non capivano neppure che io non li odiavo. Ancora oggi è difficile per me comprendere perché mi hanno obbligata ad abbandonare la mia casa. Io sono una straniera in questo paese e l’unico posto dove non mi sentivo straniera era la mia casa.
Oggi le mie figlie hanno sei e quindici anni, la più grande è nata in Macedonia e forse ama la Macedonia più della Palestina. Se fossi sola tornerei a casa, a casa, a casa... ma ho la mia famiglia qui, mia figlia ha iniziato i suoi studi in lingua araba e per lei sarebbe difficile ricominciare in un altra lingua.
Io avevo un buon lavoro a Skopje, ma oggi sarebbe difficile trovarne un altro e cosa potrebbe fare mio marito? Non lo so. Sarebbe molto difficile ricominciare tutto dall’inizio, mio marito ama la sua terra e la sua famiglia, qui ha le sue amicizie e il suo lavoro, in Macedonia la situazione è difficile e noi non abbiamo soldi. Per tutte queste ragioni abbiamo deciso di rimanere qui, anche perché mio marito non potrebbe accettare di vivere mantenuto da me, non resisterebbe per molto tempo in Macedonia.
Oggi viviamo tutti insieme in un appartamento a Khan Younis, ma io mi sento sempre sotto pressione perché il loro modo di vivere è troppo diverso dal mio e sono stanca, vorrei stare un po’ da sola.
Ho una casa ma non posso abitarci.

è dura essere positivi
02 giugno/Fabrizio


Il cielo della Palestina è dominato dagli aquiloni, sono tantissimi, ci sono quelli più sofisticati fatti ad esagono con il nylon raccattato in giro, e ci sono quelli più semplici che sono fatti da un foglio di carta piegato. Volano gli aquiloni della Palestina, volano alto, volano nel cielo blu ma sopra di loro volano senza sosta altri oggetti, sono F16, gli aerei spia e gli elicotteri Apache dell'aviazione israeliana. Volano questi mezzi sofisticati e corazzati, volano e il loro rombo mette i brividi, fanno paura.
C'è una casa, è la casa della famiglia di H. S. l’ha costruita qualche anno fa vicino ad un mulino industriale, lì dove c'era la sua terra che dava, con i suoi frutti, la possibilità di vivere dignitosamente e di far studiare i figli all'università. Lì vicino c'era un insediamento israeliano, ma la sua terra era quella e lui non aveva altra scelta, d'altronde gli israeliani avevano le loro case e lui aveva la sua.
Il 15 ottobre 2000 la vita di H. cambia, nella sua abitazione, alle dieci di sera, si presentano i soldati israeliani che gli dicono che la sua casa non è più sua, quello sarà un avamposto militare, che controllerà la strada dei coloni che passa proprio lì di fronte. H. non ha dove andare e nonostante le botte ricevute quella sera decide di rimanere nella casa, si sa l'ospitalità palestinese... "casa mia casa tua" ,... i soldati si piazzano al secondo piano e nel terrazzo, il primo viene lasciato alla famiglia.
La casa viene trasformata in un avamposto militare, le finestre diventano feritoie, le mura esterne vengono coperte con teli mimetici e gli interni riadattati a seconda delle esigenze dei militari. La vedo, è lì a cento metri la casa di H., vedo la strada, vedo i mezzi militari, vedo le auto civili, quella striscia di asfalto davanti alla casa di H. è stata trasformata in un pezzo di Israele e nel caos palestinese il suo asfalto "nuovo" risulta agghiacciante, perfetto. Siamo seduti sotto una specie di tenda in mezzo ad un gruppo di tre, quattro case, baracche dove vivono i vicini di H. Il tè che ci offrono è dolce ma quello che vediamo e ascoltiamo è amaro.
In questa zona manca la corrente elettrica, un guasto; non viene riparato perché gli operai della compagnia elettrica di Khan Younis hanno paura a venire a lavorare fin qui. Temono gli inquilini di H. e quelli appostati sul tetto del mulino. Anche gli operai del mulino hanno paura, tutti i giorni cercano di arrivare al lavoro, ma non sempre ci riescono, i soldati li fermano per "motivi di sicurezza". La famiglia di H. è formata da 15 persone, ci sono anche dei bambini.
La notte è sempre lunga qui, il rumore dei generatori militari non da pace, ci sono le notti, poi, in cui i soldati sparano per la "sicurezza di Israele". H., quando torna a casa, non suona il campanello, non serve, ad aspettarlo trova dei solerti soldati che lo perquisiscono e gli controllano i documenti confrontando la sua faccia scura e grinzosa con quella che hanno su una specie di album dove sono schedati tutti i membri della famiglia.
I campi di H. e quelli dei vicini non ci sono più, i bulldozer li hanno arati, non per piantarci nuove piante ma per non farci più crescere nulla: "Motivi di sicurezza".
Il locale centro per i diritti umani ha avviato una causa legale presso l'Alta Corte israeliana per sfrattare gli inquilini indesiderati. Ma poco possono fare, quando si tratta di "motivi di sicurezza".
A volte, quando va bene, riescono a sospendere momentaneamente gli ordini di demolizione, come è successo per le case dei vicini di H. ma anche in questo caso da un momento all'altro potrebbe arrivare un bulldozer, come quello che vediamo all'orizzonte, e buttare giù tutto: come sempre "motivi di sicurezza".
Non voglio negare ad Israele il diritto a difendersi, e non nego nemmeno la brutalità degli attacchi suicidi ma voglio lasciare alle parole di Michael Warchawsky, israeliano, fondatore dell'AIC e persona illuminata, spiegarvi il perché non mi trovo in accordo con la politica di "sicurezza" israeliana:
"il popolo palestinese sta soffrendo, ma non ha bisogno di affermare la propria presenza, loro sono qua e nessuno può metterlo in discussione.
Noi israeliani invece continuiamo a ribadire la nostra presenza nell'area attraverso l'uso della forza. In questo momento Israele avrebbe la possibilità di cercare la pace con tutti i paesi arabi, invece continua con una politica miope e basata sulla forza militare.
E' necessario che il nostro popolo cambi mentalità, c'è qualcosa che non funziona nella nostra. Ci siamo costruiti un mondo basato su noi stessi, sulla minaccia del terrorismo e su altre cose "fantastiche". Siamo tornati indietro di 50 anni, non si guarda a quello che succede fuori, non si guarda al piano di pace Saudita. Sono tutti nemici, ad ogni modo.
In questo momento si possono identificare due piani, uno più grande che consiste nella guerra regionale, per buttare fuori tutti i palestinesi e trasferirli in Giordania. L'altro, più piccolo, è quello di colonizzare velocemente i territori, e circondare ogni città palestinese con gli insediamenti.
Se diamo un'occhiata alle mappe e guardiamo la disposizione dei check point questo è molto chiaro. Non è una strategia per la sicurezza in Israele, è una strategia di assedio".
Anche vicino alla casa di H. un bambino fa volare un aquilone, il volo degli aquiloni assomiglia al desiderio, di giustizia e di pace che molta gente coltiva come speranza.
Chiediamo a H. cosa pensa del futuro, lui risponde: "La speranza è tanta ma il giorno che viene non è migliore di quello passato". Molte volte il volo precario degli aquiloni finisce impigliato nei fili elettrici o nelle antenne sopra le case mentre più in alto sfrecciano gli aerei spia, gli F16 e gli elicotteri Apache.

vicini di casa
31 maggio/Fabrizio


In mattinata ci siamo recati a Tufah, che sta alla periferia di Khan Younis. Tufah è un quartiere a stretto contatto con la zona gestita dall'esercito e dalle autorità israeliane. All'orizzonte si vede il mare ma i palestinesi non ci possono andare, in certi punti anche la vista è negata da un muro eretto dagli israeliani a protezione dell'insediamento.
Nell'area di sicurezza dell'insediamento c'è un villaggio palestinese, Al Mawasi, ecco perché la strada di Tufah finisce con case distrutte e abbattute per "motivi di sicurezza" prima di un check point. Facciamo un giro e cerchiamo di avvicinarci alla sbarra, ma quando siamo a 20/30 metri qualcuno ci urla dalla torretta di controllo qualcosa che assomiglia ad un avvertimento.
Ad Al Mawasi non entra nessuno se non i residenti che sono registrati, pare che si possa entrare a gruppi di quattro, a piedi e solo una o due volte al giorno. Per i bambini che vengono a scuola a Khan Younis è la stessa cosa. Sotto le rovine di una casa, all'ombra, ci sono persone che aspettano, c'è anche una donna con un neonato, c'è chi ci dice che sono circa 20 giorni che cerca di entrare, evidentemente non è così facile entrare nemmeno per i residenti. Ogni volta che torniamo a Tufah, per me è la terza volta da febbraio ad oggi, troviamo la barricata palestinese che diventa sempre più grande segno di paura.
Le case portano il segno dei colpi israeliani ma noto che anche la torretta che controlla tutto è bucherellata, segno che probabilmente di notte, qui si spara dall'una e dall'altra parte. I muri sono pieni di scritte che inneggiano all'Intifada e che illustrano le imprese dei combattenti palestinesi, molti sono anche i murales con i volti di quelli che qui vengono chiamati martiri, ossia tutti i morti combattenti o civili morti per mano degli israeliani. Uno di questi è un ragazzo di vent'anni che con altri due amici, sei mesi fa, ha deciso di andare ad attaccare un insediamento, o un posto di controllo israeliano nei pressi di Rafah. A quanto pare i tre giovani sono partiti armati solo di qualche fucile mitragliatore. Naturalmente sono stati uccisi. Incontriamo la famiglia di questo ragazzo che abita proprio a Tufah, una nostra amica giornalista li ha conosciuti mesi fa e ci ha messo in contatto con loro ora che gli abitiamo vicino.
Parliamo con la sorella del ragazzo ucciso che ci racconta della loro vita. Ci dice che le regole dell'Islam dicono che chi muore per la causa è un martire, un giusto e che quindi la sua vita eterna sarà presso Dio, sembra felice di questo ma ci dice anche che delle volte preferirebbe il ritorno del fratello. Ci dice che vuole tornare a studiare per diventare infermiera, vuole aiutare la gente, ci dice di volere solo pace e libertà, non odia tutti gli ebrei, vorrebbe vedere, però, morto quello che ha ucciso suo fratello.
Racconta anche degli altri due amici del fratello, anche loro morti, dice che erano sempre a casa loro e che erano dei gran casinari, uno di loro voleva imparare l'inglese da lei che lo parla molto bene ma questo non potrà più succedere, sono morti. Ci racconta che il fratello ha preso la decisione di andare a combattere dopo che altri amici erano stati uccisi in uno scontro a fuoco con i soldati israeliani. C'è anche l'altro fratello, anche lui di circa vent'anni, ci racconta della sua vita, pare che i giovani palestinesi facciano "collezione" di ferite da arma da fuoco, lui ne ha già otto che si è procurato un po' per caso (vita da prima linea) e un po', con l'irruenza giovanile, andando a "sfidare" con un megafono i soldati dei posti di controllo; questo prima dell'inizio della seconda Intifada, ora i soldati mirano ad uccidere non più a ferire.
I fratellini minori giocano con una specie di carillon che ha come disegno di sfondo delle casettine rosse, simili a quelle disegnate nel murales che rappresenta la morte del fratello maggiore; le case col tetto rosso rappresentano l'insediamento, distinguendosi dalle case palestinesi che spesso hanno il tetto a terrazza.
Andiamo a vedere il circondario, ci porta nei pressi di un casa con vista su torre di controllo, sulla casa c'è il murales raffigurante un adulto e due bambini, anche questi tre sono morti, martiri come dicono qui. Pare che il padre con i tre figli stesse per la strade all'imbrunire e un solerte soldato li abbia uccisi, nello stesso punto ci sono, ora, donne e uomini che lavorano e bambini che giocano, i piani superiori delle case portano i segni dei colpi dei mitragliatori israeliani.
Una notte, verso le 23,00, due gruppi di forze speciali hanno oltrepassato il check point di Al Tufah. I soldati sono entrati nella case, poi sono scesi lungo la strada fino al mercato dove la resistenza armata palestinese li ha respinti verso il loro check point.

Shadi
/Maurizio


Prima di venire in Palestina, abitavamo ad Abu Dabi negli Emirati Arabi Uniti, ci siamo trasferiti nella Striscia di Gaza nel 1992 in seguito agli accordi di Oslo e alla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Shadi aveva 11 anni, io 12 e il nostro fratello maggiore Fadik 13, le mie sorelline erano molto piccole e i due fratellini sono nati qui.
Quando siamo arrivati alla periferia di Khan Younis vicino al check point di Al Tufah, qui c’era solo sabbia e i soldati israeliani non sparavano a nessuno. Mio padre tornò ad Abu Dabi per lavorare un altro anno e noi rimanemmo qui a vivere con i nonni. Quando mio padre ritornò da Abu Dabi, aveva risparmiato abbastanza denari per costruire questa casa dove abitiamo con tutta la nostra famiglia.
La vita era buona, non c’erano problemi con i soldati e noi potevamo vivere in pace. E’ stato solo nell’autunno del 2000 che la nostra vita si è trasformata in un inferno a causa di Sharon. Ho chiesto a mia madre se ricordava altri periodi come questo e mi ha risposto di no, nemmeno la guerra del 1976 è stata così brutta. Questo è il peggior periodo della storia della Palestina.
Molti nostri amici sono morti, erano ragazzi giovani di 20, 21, 19 e 17 anni. Shadi era sempre molto arrabbiato per quello che succedeva qua, ad Al Tufah, a Rafah e anche per quello che si vedeva in TV. Avevamo un amico che studiava all’università di Gaza e ogni giorno attraversava il semaforo di Abu Holi. Un giorno gli hanno sparato mentre era seduto in macchina in attesa di passare e l’hanno ucciso. Lui voleva solo andare a studiare, come molti altri quel giorno, ma l’hanno ucciso, hanno sparato su tutte le macchine in attesa di passare il semaforo. Shadi rimase molto turbato da quel fatto.
Un altro giorno alcuni elicotteri Apache fecero un incursione vicino al check point di Al Tufah e bombardarono alcune case, mio fratello Fadik si era nascosto in una di queste e un muro gli crollò addosso, un suo amico lo tirò fuori dalle macerie salvandogli la vita e lo accompagnò all’ospedale. Di ritorno dall’ospedale, questo nostro amico andò a sparare ad Al Tufah e fu ucciso.
Quel giorno Shadi disse che voleva anche lui un kalashnikov per andare ad uccidere i soldati, per lui le continue aggressioni e tutti quei morti erano diventati un incubo insopportabile, così insieme ai suoi amici andava a sparare alla torretta del check point di Al Tufah, per la rabbia di aver perso tanti amici e per l’impotenza e la disperazione di non aver alcun modo per difendersi dall’occupazione. Solo così poteva sentirsi meglio, perché aveva fatto qualcosa, forse era inutile ma almeno aveva fatto qualcosa. Noi a quel tempo non sapevamo nulla di quello che faceva Shadi, lui non ci raccontava nulla.
Una volta gli israeliani hanno risposto al fuoco con il gas velenoso e anche Shadi lo ha respirato. Lo hanno subito trasportato all’ospedale, dove per una settimana è rimasto immobile nel letto, stava molto male. Molti altri in questa zona hanno respirato i gas velenosi dei soldati israeliani. Durante la convalescenza all’ospedale, Shadi incontrò un uomo della resistenza armata palestinese che lo arruolò per combattere i soldati israeliani. Shadi non voleva uccidere civili, ma voleva combattere i soldati perché erano loro che ci aggredivano continuamente.
Più tardi, quando uscì dall’ospedale, fu chiamato per una missione a Rafah, la città al confine con l’ Egitto. In quell’occasione fecero saltare in aria un carro armato. Quando tornò a casa mi disse che un carro israeliano era esploso a Rafah, io gli chiesi come lo sapeva, perché la TV non aveva detto nulla, ma lui rispose solo: “Io lo so”.
Seppi che era stato lui solo dopo la sua morte, quando me lo raccontò un suo amico. Si era specializzato in esplosivi e lo mandavano in missioni per far esplodere i carri armati e i bulldozer che demoliscono le nostre case. Tutti i giorni andava con i suoi amici e partecipava a queste missioni oppure andava a sparare al check point di Al Tufah, ma non ci diceva nulla, solo che usciva con gli amici.
Una sera uscì di casa per andare ad una festa e mio padre gli disse di non fare tardi, verso mezzanotte e mezzo, qualcuno bussò alla porta e disse che c’era stato un ferito durante uno scontro a fuoco al check point di Al Tufah. Lo avevano portato davanti a casa nostra, in strada, e volevano un auto per accompagnarlo all’ospedale. Fadik, mio fratello maggiore, uscì per prendere l’auto e quando vide il ferito si rese conto che era Shadi: rimase lì davanti al corpo insanguinato di suo fratello, che era privo di sensi, rimase lì e non sapeva cosa fare. Poi finalmente lo portarono all’ospedale e videro che era ferito ad una gamba, lo medicarono e lo ingessarono.
Shadi rimase a casa immobilizzato dal gesso per due mesi, poi cominciò ad essere impaziente e andò a chiedere al dottore di togliergli il gesso, ma il dottore si rifiutò perché non era ancora guarito. Shadi insistette e minacciò il dottore, lui doveva liberarsi dal gesso che lo costringeva a camminare con la stampella, quella lì appesa al muro. Così, nonostante il dottore gli avesse proibito di togliersi il gesso, Shadi andò da un amico e con il suo aiuto se lo tolse. Quando tornò a casa stava molto male e rimase a letto per quattro giorni.
Poi venne a cercarlo il suo amico Ahmed. Io gli dissi che Shadi stava riposando e che non volevo svegliarlo, ma lui insistette che era molto importante, così andai a chiamare Shadi, che uscì insieme ad Ahmed per andare al matrimonio di un loro amico. Dopo la festa partirono per una missione.
Quella sera i miei genitori erano andati a trovare dei parenti e qualcuno telefonò a mio padre sul cellulare per informarlo che c’erano stati tre feriti sul fronte di Rafah. Mio padre, che lavora alla TV palestinese, trasmise la notizia in redazione, senza farci troppo caso. Poi il suo amico lo chiamò nuovamente e gli chiese dove fosse Shadi. Mio padre rispose che era ad una festa, non poteva immaginare che invece era morto a Rafah e il suo amico non sapeva come dirglielo, così gli chiese di mandare qualcuno a cercarlo.
Fadik andò a cercare Shadi ma non lo trovò in nessun posto. Mio padre capi che doveva essere successo qualcosa di grave e richiamò il suo amico, che gli disse che Shadi era stato ferito gravemente e stava all’ospedale di Rafah. Mio padre prese l’auto e corse a Rafah, quando arrivò all’ospedale vide i tre corpi di Shadi, Ahmed e Muhammed: erano tutti morti. Stavano preparando due mine anticarro da usare contro i bulldozer, ma i soldati li avevano visti e avevano sparato una granata che aveva fatto esplodere anche le mine, uccidendoli sul colpo. Shadi era tutto punteggiato di schegge sul volto e gli altri due erano sfigurati e irriconoscibili.
Quando mi dissero che Shadi era stato ferito non volli crederci, lui aveva moltissimi amici ed erano tutti là fuori, in strada, a sparare e piangere di rabbia, ma io non riuscivo a credere che gli fosse successo qualcosa e non volevo neppure uscire in strada, non volevo sapere nulla, i miei sentimenti mi soffocavano e non riuscivo a muovermi. Rimasi in casa a piangere per molte ore, mentre fuori gli amici di Shadi sparavano in aria, poi portarono a casa il corpo di Shadi per un ultimo saluto prima del funerale, allora lo vidi e credetti alla sua morte. Mio padre mi disse che Dio ci aveva dato il meglio e che Shadi era morto da martire.
Shadi diceva sempre che lui viveva per questa terra, la nostra terra e che non voleva nulla per se, solo morire per la sua terra.

Ahmed
/Maurizio


Siamo venuti ad abitare a Khan Younis nel 1996, vivevamo in Arabia Saudita e, come chiunque altro, volevamo rientrare nella nostra terra in seguito agli accordi di Oslo e alla creazione dell’ANP. Mio marito è un ingegnere edile e l’ANP gli aveva commissionato molto lavoro in Palestina. Oggi lavora ad Abu Dabi negli Emirati Arabi Uniti, ma non riesce a raggiungermi in Palestina, io vivo qui da sola con le mie tre figlie e, finché era vivo, con Ahmed.
Ahmed e Shadi erano legati da una profonda amicizia, anche più forte dei legami familiari, erano sempre fuori insieme, stavano in casa molto poco. Un giorno il fratello minore di Shadi era andato a tirare sassi al check point di Al Tufah, così Shadi e mio figlio andarono a prenderlo per riportarlo a casa, ma sulla via del ritorno si divisero, da una parte Shadi e il suo fratellino e dall’altra Ahmed. Sulla via di casa Ahmed si era riparato dietro un muro perché i soldati gli sparavano, ma alcuni proiettili dum dum raggiunsero lo spigolo del muro ed, esplodendo a pochi centimetri dalla sua faccia, sbrecciarono lo spigolo, così che le schegge del muro lo ferirono ad un occhio.
Quando lo portarono all’ospedale dissero che doveva essere operato perché rischiava di perdere la vista, allora l’ANP lo fece trasferire in Arabia Saudita dove lo operarono due volte e riuscì a recuperare la vista, anche se doveva portare gli occhiali.
Era un venerdì sera quando Ahmed mi disse che andava ad un matrimonio a Rafah con i suoi amici Shadi e Muhammed, io non sapevo nulla di quello che faceva Ahmed nella resistenza, però sentivo che sarebbe successo qualcosa di brutto, ma non sapevo che cosa.
Più tardi chiamai due volte mia sorella che vive a Rafah: la prima volta le chiesi di mandare suo figlio a vedere dove era Ahmed, la seconda volta parlai direttamente con suo figlio che era già tornato a casa e mi disse che Ahmed era ancora alla festa.
Era già notte quando mi chiamò il marito di mia figlia chiedendomi se Ahmed era tornato a casa. Gli risposi di no, che non era ancora rientrato. Quando mia sorella venne a Khan Younis e bussò alla mia porta in lacrime capii che Ahmed era morto.
Dopo tre giorni dalla disgrazia vennero a trovarmi la madre e la sorella di Shadi, che era morto insieme a mio figlio, ma io non riuscivo ancora a piangere, non so perché, forse il mio dolore era troppo grande.
Oggi quando vedo la TV e guardo tutti quei giovani che muoiono nella West Bank, mi ricordo di Ahmed e piango molto, ma non riesco a farlo davanti alle mie figlie. Piango da sola, non voglio che altri vedano il mio dolore.
Ahmed era il mio unico figlio maschio e quando tutte le mie figlie saranno sposate io rimarrò sola, non ho altri figli maschi che si prendano cura di me quando sarò vecchia.

Muhammed
/Maurizio


Sono nata a Sen Sen, un villaggio a nord di Heretz, fuori dalla Striscia di Gaza. Quando sono venuta ad abitare a Khan Younis con la mia famiglia avevo solo tre mesi, mio padre era stato ucciso durante la guerra del 1948 e noi siamo stati sfollati nella Striscia di Gaza e siamo venuti a vivere a Khan Younis. Oggi viviamo qui in questa baracca di lamiere con il pavimento di sabbia perché ci hanno bombardato la casa.
Mio figlio Muhammed era sposato e andava a lavorare in Israele come bracciante agricolo o muratore, era lui che manteneva la nostra famiglia. Quando è morto ha lasciato due figli, uno di tre anni che porta il suo nome e uno di tre mesi nato dopo la sua morte.
Non sapevo nulla della sua attività nella resistenza armata, quella sera Muhammed mi disse che andava ad un matrimonio con i suoi amici, Shadi e Ahmed. Più tardi, quella notte, qualcuno venne a dirmi che Muhammed era morto in uno scontro a fuoco con i soldati israeliani, poi venne un altro e mi disse che era rimasto ferito. Poi vennero i suoi fratelli e mi confermarono che era morto. Il giorno dopo portarono il corpo di Muhammed a casa ed io potei vederlo e salutarlo per l’ultima volta.
Ora siamo senza di lui e i miei due figli non lavorano e non c’è nessuno che ci aiuta ad andare avanti. L’ANP ci da’ una piccola pensione di guerra, ma è insufficiente; anche l’UNRWA ci da farina ogni anno, ma non ci basta per vivere. Mio marito è morto durante la prima Intifada e io sono rimasta con due figlie e quattro figli, compreso Muhammed che era il più giovane, aveva dodici anni quando è morto suo padre e dopo 11 anni è morto anche lui, sempre a causa degli israeliani.
I soldati mi hanno strappato il padre ancora prima che nascessi, poi hanno ucciso mio marito e ora mio figlio, mi hanno bombardato la casa costringendomi a vivere in questa baracca di lamiere, come posso desiderare la pace? Gli israeliani uccidono tutto ciò che è palestinese, animali, alberi, case, persone, molti dei nostri figli sono orfani di padre, per questo vanno a combattere e nessuno riesce a fermarli.
Noi amiamo la pace, ma finché Sharon sarà al governo non ci potrà essere pace.

... abitare il conflitto in medio oriente
comunicato
11 giugno/Operazione Colomba

Continua la presenza dei volontari dell’Operazione Colomba e dei Berretti Bianchi nei territori di Israele e Palestina.
Da circa tre settimane si trovano nel sud della striscia di Gaza, nella città di Khan Yunis. In una zona dove le condizioni di vita della popolazione locale sono critiche a causa della massiccia presenza degli insediamenti e dell’esercito israeliano. Lo scopo della missione è quello di assicurare una presenza internazionale a fianco della gente, come deterrente alla violenza e come testimonianza diretta e neutrale delle violazioni dei diritti umani.
In questi giorni i nostri volontari stanno intervenendo contro la demolizione delle case nel villaggio di Al-Qarara. Le demolizioni avvengono perché le case sono considerate troppo vicine alla strada percorsa dai coloni o alle postazioni militari israeliane.
Su richiesta della popolazione locale, da questa notte andranno a dormire in alcune di queste case sotto coprifuoco per impedirne la demolizione e per stare a fianco delle famiglie vittime di queste violenze.

Forte dei Marmi
14 giugno/Silvano


Il nostro Consiglio Nazionale ha deciso di realizzare una nostra presenza in Palestina. La nostra presenza è finalizzata ad aiutare il processo di pace in quella zona martoriata del mondo. A questo scopo sono stati presi accordi con l’Associazione Papa Giovanni XXIII, associazione già presente da mesi sul posto. I nostri volontari, che da giorni, sono in Palestina, hanno il compito di lavorare in aiuto e a fianco della popolazione palestinese e di prendere contatti in vista della futura possibilità di apertura là, su i due diversi fronti, di un’ambasciata di pace. Il lavoro che stiamo facendo con gli amici della Papa Giovanni XXIII vuole anche essere una prima verifica di pratica comune nell’ottica della costruzione di un Corpo Civile di Pace Europeo, a partire dalla costruzione di un primo nucleo in Italia. L’iniziativa verso la costruzione di un Corpo Civile di Pace Europeo è già stata avviata nel nostro paese da alcuni mesi e ha interessato molte delle associazioni nonviolente che attuano da tempo interventi di pace all’estero in zone di conflitto. Questo primo lavoro comune in terra di Palestina intende anche consolidare il processo in atto verso la costruzione di un Corpo Civile di Pace Europeo.
A questo primo gruppo di volontari seguirà a giorni un secondo gruppo e poi un terzo a rotazione. E’ nostra intenzione essere presenti il più a lungo possibile per avere i necessari contatti e rapporti con la popolazione civile in modo da sviluppare poi una sempre più utile presenza di pace. La zona dove si sta portando il nostro contributo di condivisione e di solidarietà nei fatti è quella della Striscia di Gaza. In questi giorni i berretti bianchi, come gli amici della Papa Giovanni, vanno a dormire nelle case sulla linea verde.
La linea verde è il confine con lo stato di Israele. Questa è una fascia di sicurezza larga due/trecento metri che separa i campi e le zone abitate dalla linea di confine. Le abitazioni che sorgono accanto a questa fascia, come nel caso di Al Qarara, dove anche questa notte andremo a dormire, sono sotto coprifuoco dalle 20,00 alle 06,OO. Ieri i nostri volontari sono stati a visitare una parte della periferia di Khan Yunis vicino al check point di Al Tufah dove la Comunità Europea ha finanziato una dozzina di palazzi in cui vivono moltissimi palestinesi. Queste case confinano con la striscia di sicurezza che separa gli insediamenti israeliani, che si estendono lungo il mare da Khan Yunis fino al confine con l’ Egitto, area chiamata Al Mawasi.
Dalle dune dove si sono stabiliti, di fronte a questi palazzi, lontani non più di duecento metri, i soldati israeliani sparano sulle facciate delle case e dentro le abitazioni, mietendo vittime soprattutto tra i bambini e obbligando le famiglie ad evacuare anche quelle nuove abitazioni.

un villaggio beduino
/Maurizio


Stanotte abbiamo dormito vicino alla strada dei coloni che porta al semaforo di Abu Holi, in un piccolo villaggio di quindici casette col tetto di lamiera abitate da 200/250 beduini appartenenti allo stesso clan familiare. La famiglia originaria fu sfollata dalla città di Beer Sheva nel 1948; rifugiati nel Sinai, furono poi obbligati dagli egiziani di Nasser a trasferirsi nella Striscia di Gaza.
La strada che porta al villaggio si snoda tra i campi di mais e pomodori, lungo un tratto di un paio di chilometri i filari di fichi d’india che costeggiavano la strada sono stati abbattuti dai carri armati qualche giorno fa, per permettere una completa visuale alle tante torrette di controllo e alle telecamere montate sui tralicci che sorgono sulla by pass road dei coloni.
Superato il pezzo di strada costeggiato dai filari abbattuti, procediamo lungo un profondo e stretto canalone che pare fosse un torrente prima che i coloni lo prosciugassero deviando il corso dell'acqua verso i loro insediamenti.
Il padrone di casa che ci ospita ha 28 anni, ha mandato la famiglia dall'altra parte della strada dopo che alcuni soldati sono entrati in casa sua, perquisendolo e domandandogli se aveva visto movimenti della resistenza armata palestinese. Sono ormai sette mesi che non vede la moglie e i figli, nonostante essi abitino a pochi metri in linea d aria.
Mentre camminiamo, il nostro ospite mi mostra lungo la via mucchi di immondizie, resti di abiti e altre cose e mi fa capire che lì alcuni palestinesi sono stati uccisi dai militari dell’IDF, che penetrano il territorio quasi tutte le notti. Sugli alberi lungo il canalone si possono ancora vedere i segni dei proiettili, per terra una scarpa bianca da donna ha il tacco spezzato.
Il villaggio sorge su di una spianata ed è punteggiato da alberi di fico e da giardini di ulivi. Quasi ogni casa ne ha uno, le piante di ulivo vicine alla strada sono state completamente estirpate, quelle cresciute nei giardini delle case sono tutte molto giovani.
Appena entriamo i bambini ci si fanno incontro curiosi, sulla by pass road, a pochi metri da lì, il traffico è scarso, si tratta principalmente di mezzi militari, perché tra poco inizia il shabbat shalom (la domenica degli ebrei).
Su tutti i lati del villaggio gli uomini hanno costruito degli argini di sabbia alti almeno 20/25 metri, per impedire ai bulldozer di entrare nel villaggio. Purtroppo i carri armati tengono facilmente sotto tiro le case dalla loro strada, mentre i soldati entrano a piedi e con le jeep quando vogliono.
Poco tempo fa hanno fatto saltare in aria una delle case e tutte quelle vicine sono state danneggiate dall'esplosione. In quell'occasione, i soldati hanno anche ucciso due asinelli di pochi mesi, una crudeltà che è rimasta incomprensibile per i beduini.
Mentre gli adulti, seduti in cerchio sotto un grande albero di fico, ci raccontano tutte queste cose, i bambini sgranocchiano cetrioli crudi come fossero dei Magnum Algida. Una jeep si ferma sul bordo della strada e osserva l'assembramento con il binocolo.
Più tardi ci spostiamo da sotto il fico per andare nel cortile di una casa dove ci offrono il caffè al modo beduino, anche lì ci sentiamo osservati da una telecamera a controllo remoto montata su di un traliccio. Non ci sono posti dove occhi indiscreti non possano osservare, registrare, fotografare ed archiviare la semplice vita di queste persone. Il caffè bolle sul fuoco preparato dentro un braciere e ci viene servito in piccolissime quantità dentro piccole tazzine. Lo si può sorseggiare una o due volte, mai tre, e non lo si deve prendere con la mano sinistra ma sempre con la mano destra. Se se ne vuole ancora basta muovere la tazzina e subito qualcuno ne verserà un altro goccetto. Non è zuccherato, ma è molto aromatico, buono.
Stiamo finendo di sorseggiare il caffè, mentre uno dei giovani ci racconta, tra le risate generali, di una volta che gli hanno sparato in casa proprio mentre stava facendo il suo dovere con la giovane moglie e dalla paura ha dovuto interrompere il coito. Non si può neppure far l'amore in pace in questo paese!!!
E' già sera quando sentiamo la voce di un megafono piazzato su di una jeep bianca, è quella dell'ufficiale responsabile della sicurezza dei coloni, egli informa tutte le sere la popolazione che dalle 20,00 alle 06,00 è in vigore il coprifuoco e che nessuno può uscire di casa fino al mattino, chi lo facesse metterebbe in pericolo la sua vita: "Entrate in casa, forza!!! Ialla al beit!!! Entrate in casa o vi spariamo".
Dopo questa ultima, allucinante intimidazione - almeno per un europeo panciuto come me - entriamo in casa, dove dividiamo una cena frugale con gli amici beduini. Anche qui il calcio mondiale impone i suoi noiosissimi riti. Un bambino seduto con noi continua a ripetere che gli elicotteri Apache uccidono i bambini e le mamme li piangono, l'avrà ripetuto almeno venti volte, mentre il suo amichetto più piccolino ce l'ha con Sharon e ne ripete il nome toccandosi la tempia con l’indice destro.
Finita la cena, una donna se ne torna a casa, ma prima si ferma alla finestra e ci informa che un carro armato si è appena posizionato sulla strada e terrà il villaggio sotto tiro. Comunque, la notte passa quietamente: solo qualche sparacchiare lontano, ma nulla di grave.
Al mattino salutiamo tutti e un anziano ci chiede di non dimenticarli, di parlare di loro e di ritornare.

Kussufin Road
/Maurizio


Alla fine della Kussufin Road, alcune torrette dell’IDF difendono la by-pass road ad est del semaforo di Abu Holi. A ridosso del muro prefabbricato e del filo spinato che separano le torrette dal territorio palestinese sorgono una mezza dozzina di casette dal tetto di Eternit, tanto vicine alle torrette israeliane che i soldati possono guardare dentro alle case dei palestinesi a occhio nudo. Da ogni finestra della casa si vede una diversa torretta, tutte a meno di dieci metri dalla casa.
La famiglia che abita le casette sulle dune a ridosso del filo spinato è felice di vederci e subito ci mostra i fori degli ultimi proiettili che i soldati annoiati hanno sparato dentro una delle loro case, solo per intimidirli, costringendoli a muoversi carponi nelle stanze.
Uno degli uomini della famiglia è laureato in pedagogia, mentre la sorella si laurea in lingua inglese durante le prossime tre settimane; il primo esame sarà di poesia e lei presenterà uno studio su T.S.Elliot.
“Sono nata qui, alla fine della Kussufin Road ventidue anni fa, anche i miei fratelli sono nati qui. Mia madre è nata a Khan Younis nel 1948 ed è venuta ad abitare qui dopo essersi sposata. Qui ha dato alla vita sei fratelli e sei sorelle, ma oggi vivono in queste case solo quattro dei miei fratelli, mentre io e la mia sorella minore viviamo con i nostri genitori. In tutto siamo in trentasei, compresi i figli dei miei fratelli.
Mio padre avrebbe voluto portarci in un’altra casa, ma non possiamo starci molto e quindi non ne vale la pena. Non c’è modo di andarcene da qui e non c’è nessuno che può aiutarci. Se abbandonassimo le nostre case, non sapremmo dove andare, non c’è una soluzione alla nostra condizione, dobbiamo per forza restare in questo posto fino alla morte.
Hanno costruito le torrette quando hanno finito la by-pass road che permette ai coloni di andare negli insediamenti, sono più di dieci anni ormai, è da allora che viviamo così, ma dall’inizio dell’Intifada i soldati si sono fatti più pericolosi, prima non venivano nelle nostre case a minacciarci e non ci sparavano come fanno dall’ottobre del 2000.
Noi non possiamo dormire come tutti gli altri perché ci aspettiamo che arrivino in qualsiasi momento. Vengono in silenzio e bussano improvvisamente alle nostre porte... Vengono una volta la settimana nel cuore della notte, aprono la porta ed entrano in casa. A volte impediscono ai bambini impauriti di andare in bagno e quando voglio andare io, vorrebbero venire con me, ma io mi rifiuto e non permetto loro di seguirmi in bagno a vedere che faccio. Il soldato mi capisce ma non dice nulla, resta in silenzio.
I bambini hanno paura e mia madre inizia ad urlare quando i soldati tentano di toccarmi, io ho paura, ma non lo permetto, e loro mi dicono brutte parole. Mia madre mi dice sempre di mettere vestiti brutti per non attrarli, perché sono tutti soldati molto giovani, non ci sono vecchi fra di loro.
Tutti i soldati israeliani sono nostri nemici, nessuno di loro è buono e fanno di tutto per mostrarsi nemici.
Io studio inglese e il mese scorso stavo preparando un esame, sono all’ultimo anno di università e nelle prossime settimane ho diversi esami da superare per ottenere la laurea in lingua inglese. Ma durante la notte arrivano i soldati e io perdo la concentrazione e non riesco più a studiare perché ho paura di ciò che possono farmi, non ho paura dei loro fucili o della loro forza, ma di ciò che potrebbero farmi ...
Quando sono andata all’esame ho spiegato la mia situazione al professore, ma lui mi ha detto che viviamo tutti in cattive condizioni. Io ho provato a insistere chiedendogli di venire a vedere dove vivo, ma lui non è venuto, aveva paura, perché nessuno vive così vicino ai soldati come noi e nessuno vuole credermi quando lo racconto.
Di notte non possiamo aprire le finestre anche se fa molto caldo, perché loro ce lo hanno proibito e anche perché poi potrebbero guardare dentro, ormai penso che possano vedere dentro anche con le finestre chiuse.
A volte mio padre non vuole aprire la porta ai soldati e allora mia madre si arrabbia perché non va bene che vada lei ad aprire, lei è una donna. Ma se non apriamo la porta i soldati sparano dalla finestra e mia madre soffre di reumatismi e quando sparano dentro le nostre camere non può muoversi carponi come facciamo noi.
Se qualcuno di noi si ammala e ha un’urgenza di notte, non possiamo andare all’ospedale e l’ambulanza non può venire fino a qui. E non potremmo neppure chiamarla per telefono perché hanno sequestrato il cellulare di mio fratello e ci hanno proibito di avere il telefono. Non possiamo uscire quando è buio, a causa del coprifuoco, e nessuno può venire da noi. Siamo molto stanchi di vivere così.
Tre mesi fa sono entrati in una casa laggiù e l’hanno riempita di esplosivi, prima di demolirla, poi sono tornati con i carriarmati e molti soldati erano nascosti dietro il muro per difendere il lavoro del bulldozer. Uno dei miei fratelli si è messo davanti al bulldozer per cercare di fermarlo, per impedire che distruggessero tutto, ma alla fine hanno fatto esplodere la casa e ci sono passati sopra, spianando tutto con il bulldozer e hanno distrutto anche tutte le nostre piante di ulivo. Grazie a Dio mio fratello è ancora vivo.
Una volta sono entrati con i cani, erano pastori tedeschi, hanno annusato dappertutto, i bambini avevano paura, mentre i cani annusavano anche i nostri piatti nella cucina, e dopo abbiamo dovuto lavare tutto, perché i cani sono sporchi e puzzano.
Una sera ero seduta sulla soglia di casa a lavare i piatti, loro mi hanno vista con la telecamera, quella sul traliccio, così sono venuti e mi hanno chiesto se aspettavo un terrorista, ma io stavo solo lavando i piatti e non aspettavo nessuno. Ho avuto paura che volessero uccidermi, ma hanno visto i piatti e mi hanno creduto.
Possono farci tutto quello che vogliono in nome della loro sicurezza, anche se noi non facciamo nulla di male, non tiriamo sassi e tantomeno spariamo, altrimenti ci hanno avvisato che vengono e demoliscono immediatamente tutte le nostre case senza alcun preavviso.
Ci osservano tutto il tempo con quella telecamera sul traliccio, la vedi che ci sta osservando? Se qualche straniero viene a trovarci, allora vengono e vogliono sapere tutto, chi è, perché è venuto e che cosa fa. No, con voi e diverso voi non siete palestinesi.”

Sentiamo ordini gridati dentro un megafono, poi un carroarmato solleva un nugolo di sabbia, probabilmente stanno facendo il cambio della guardia, arriva il turno di notte.

“Questo bambino è molto piccolo, è il figlio di mio fratello, la prima parola che ha pronunciato dopo essere nato non è stata papà o mamma, ma ‘tak’, sparo. Quando vede i soldati ha sempre molta paura e chiama ‘...mamma, mamma...’. Alcuni psicologi stranieri inviati dalle Nazioni Unite sono venuti per parlare con i nostri bambini, ma non sono stati in grado di trovare nessuna soluzione. Quando se ne sono andati, dopo cinque mesi, erano più depressi di noi. Non c’è speranza per noi, non c’è futuro.”

La notte passa, accompagnata da esplosioni e raffiche lontane, verso ovest. Qui invece regna il silenzio, il muezzin non può cantare alle quattro del mattino, come in ogni altro posto della Striscia di Gaza, perfino i galli sembrano essere introversi su queste dune di sabbia alla fine della Kussufin Road.

storia di Rami
/Maurizio


Incontriamo Rami davanti all’internet point Quick Net, l’algerino che gestisce il negozio ci traduce la sua storia.
Era il 22 aprile 2000, l’Intifada non era ancora iniziata, Barak era al governo in Israele e Clinton alla Casa Bianca. Sono le quattro del pomeriggio quando arriva la notizia che alcuni carri armati hanno oltrepassato la linea verde. Subito Rami, 20 anni, e suo cugino Ahmed, 12, corrono verso quel punto a circa 2 km dalle loro case, per vedere cosa succede.
Quando arrivano sul posto vedono due carri armati che sostano a copertura di un caterpillar gigantesco che sta demolendo una casa ormai disabitata, troppo vicina alla fascia di sicurezza. Il manovratore ha le cuffie e pare ascoltare musica. I due ragazzi iniziano a tirare sassi al bulldozer, quando vedono alcuni militari scendere da un blindato e venire nella loro direzione, si nascondono dietro un cespuglio. In quel momento uno dei carri armati apre il fuoco con proiettili da 55mm: uno di questi colpisce Rami di striscio alla testa. Rami cade in una pozza di sangue mentre Ahmed piange terrorizzato.
Da lontano altri osservano la scena e subito chiamano l’ambulanza che trasporta Rami all’ospedale di Gaza, dove rimane in coma per 12 giorni: quando i medici avevano ormai perso le speranze, Rami si sveglia miracolosamente, tuttavia le sue condizioni sono molto precarie e i medici consigliano di trasferirlo in un ospedale estero meglio attrezzato per la riabilitazione motoria. Ma questo è ovviamente impossibile per ragioni di costi e, oggi, a causa dell’Intifada.
Oggi Rami vive su di una carrozzina e racconta la sua storia ai pochi stranieri che passano da questa strada, per trovare il modo di andare all’estero ed avere una possibilità di ricominciare a camminare. E’ paralizzato al braccio e alla gamba sinistra, il proiettile ha lasciato una conca sulla parte destra del cranio delle dimensioni di un pugno chiuso.

why the donkey?
/Michele


Chissà se il clamore dei folli episodi di violenza israeliani e palestinesi vorrà lasciare un poco di spazio per la passione di un asino morto dissanguato in una notte ordinaria di spari nel buio.
Per capire l'esasperazione di questa gente bisognerà quindi rassegnarsi a stringere gli occhi abbagliati dall'F16 assassino e dal folle assassino-suicida per tentare di penetrare l'insopportabile normalità di chi, nella Striscia di Gaza, vive nei punti più caldi.
L'intero territorio di Gaza è diventato da due anni una gigantesca prigione; ma, a differenza della West Bank, la Striscia non è interamente occupata dall'esercito Israeliano. Qui esso si limita a svolgere la sua funzione di feroce carceriere dai confini, dagli insediamenti di coloni interni alla Striscia e dalle strade di collegamento fra insediamenti e Israele. Sono appunto questi i luoghi di contatto, quelli in cui si consumano le quotidiane, gratuite e logoranti violenze della Tsahal (l'esercito israeliano) fatte di coprifuoco, scorribande di carri armati su orti e campi coltivati, spari sulle abitazioni, visite di militari nel cuore della notte, uccisioni e ferimenti di persone e, appunto, di animali.
Non vorrei che nel descrivere queste sistematiche violazioni di diritti il rovesciare un elenco di parole mandasse perduto l'autentico dramma vissuto da queste persone: decine di raffiche di mitra contro le loro abitazioni ogni notte, significano la violazione dello spazio più intimo, nel quale all'improvviso non sei più al sicuro (le pallottole, una volta bussato alla finestra, si prendono la briga di entrare in casa e distruggere ciò che incontrano), significano il terrore di tua figlia che tu, impotente, ti ingegni di placare con innocenti bugie e forti abbracci.
Si provi ciascuno a figurarsi la propri tranquillità continuamente distrutta da queste cose, si immagini di non poter dare un sonno tranquillo ai propri figli perché i militari che sono appostati in torrette inattaccabili a 50 metri dalla tua casa si divertono a terrorizzarvi.
Ci si provi, e forse si potrà iniziare a capire come possono anche nascere dei pensieri strani... Perché la specifica odiosità di ogni violenza non si perda nell'indefinito ripetersi di angherie tutte uguali, varrà forse la pena di dettagliare la nostra ultima nottata.
Ci troviamo a Qarara, cittadina del sud della Striscia di Gaza infelicemente incastonata fra l'insediamento israeliano di Qatif ed una delle strade che lo collegano ad Israele. Gran parte della cittadina è sotto coprifuoco dalle 20.00 della sera. La nostra attività di interposizione e condivisione si concretizza, in questi giorni, nel passare le notti con le famiglie che subiscono coprifuoco e tutto il resto.
Siamo arrivati a metà pomeriggio a casa di Hasan, poco prima due carri armati israeliani erano entrati in territorio palestinese limitandosi questa volta a sradicare qualche albero e a lasciare evidenti tracce sull'asfalto. Ci conducono a vedere una serie di orti che si trovano lungo il confine con l'insediamento. Serre, piante, e sistemi di irrigazione sono stati completamente distrutti dai bulldozer. E' l'ora del coprifuoco e si iniziano a sentire le prime raffiche provenienti dalla torretta vicino la casa di Adel dunque ci incamminiamo per tornare.
A casa incontriamo Mohammed, un anziano signore che parla inglese e suo fratello Kamal. Ci informano che l'asino di Kamal è stato ferito ad una gamba. Il padrone dell'animale, un distinto signore vestito di tunica bianca, chiama a raccolta l'intera sua competenza in inglese per esclamare con rabbia e tristezza: why the donkey? why the donkey? why the donkey? Per tre volte.
Dopo la cena la nostra discussione è più volte interrotta dalle raffiche di mitra alcune delle quali colpiscono non lontano da noi. La figlia di Hasan piange terrorizzata ma sembra che le braccia del padre siano un efficace calmante. Si riaddormenta sfinita per poi svegliarsi di soprassalto ad ogni nuova raffica.
Marco, l'unico esperto di guerre del gruppo, ci spiega un curioso effetto delle mitragliate. I proiettili viaggiano ad una velocità superiore a quella del suono, così se si ha la sfortuna di essere vicini al bersaglio colpito si sente prima il suono forte e squillante del proiettile che esplode a destinazione e immediatamente dopo il rumore più sordo e lontano del colpo sparato con una strana inversione cronologica nella percezione di causa ed effetto.
Ad una certa ora sembra che l'esuberanza dei militari si sia placata e ci mettiamo a dormire un sonno disturbato, al vero, più da insetti ed afa insopportabile che da altro. Svegliati non troviamo nessuno in casa, usciamo quindi in strada dove si è riunito un capannello di persone al quale partecipa il nostro ospite Hasan. Qui ci informano che l'asino ferito è morto dissanguato durante la notte.
Per comprendere il piccolo dramma che può ruotare attorno alla sua perdita diciamo subito che da queste parti l'asino non è un imbellettamento presepizio ma ne più ne meno un fondamentale mezzo di trasporto. Ci rechiamo a vedere la carcassa che mostra, chiaro, il foro del proiettile nella coscia posteriore sinistra. Nel frattempo arriva Kamal, padrone della bestia, a bordo di un trattore. Attaccano la carcassa al trattore con una corda legata al collo.
Nel rimorchiare la bestia, il peso dell'animale lo fa girare sulla schiena con le gambe all'aria dando alla triste scena un tono grottesco. Guardando l'asino andare mi perdo...nella mente ho la stridente sproporzione fra il mostruoso bombardamento di 5 giorni fa e questo piccolo, vile crimine.
Non è neanche sufficiente a costituire una notizia in se. Ma quale deve essere il senso di frustrazione di Kamal: hanno ucciso il suo animale e sa perfettamente che nessuno griderà l'ingiustizia di ciò che è successo. Il suo personalissimo dramma non troverà nessuno sfogo, andrà, come le altre piccole e grandi anonime violenze, ad alimentare la sorda disperazione di queste persone ... Il trattore è andato, Kamal ancora si domanda why the donkey?

storia di Selma
/Maurizio


Nel 1948 la mia famiglia aveva 400.000 metri quadrati di terra vicino a Beer Sheba: sono venuti gli israeliani e ci hanno derubato di tutto, poi ci hanno sfollato e noi siamo venuti a vivere qui nella Striscia di Gaza, dove avevamo ancora 60.000 metri quadrati di terra, abbiamo costruito le nostre case e abbiamo ricominciato a vivere, ma gli israeliani ci hanno seguito fin qui.
Oltre un anno fa, il sole era già tramontato e tutta la famiglia era riunita intorno alla nostra mensa e stavamo consumando il nostro cibo, dopo il digiuno prescritto dal Ramadam. Improvvisamente e senza preavviso sono arrivati i soldati, con molte jeep e carriarmati e con i bulldozer hanno iniziato a spianare i nostri campi coltivati, fino a quando sono giunti vicino alle case e hanno iniziato a demolirle.
Allora sono corsa fuori urlando ai soldati di fermarsi e tutta la famiglia è corsa dietro a me e ci siamo schierati davanti ai bulldozer per impedire che abbattessero le nostre case. Allora i soldati ci hanno sparato delle bombe al gas velenoso, molte, forse dieci o anche più. Io sono caduta per terra insieme ai miei fratelli e sulla pelle sono comparse delle bolle a causa del gas.
In un’ora hanno distrutto dodici case, è stato come in un incubo.
La sola cosa che vogliono è buttarci fuori dalla nostra terra, avevamo 400 dunum a Beer Sheva e ce li hanno rubati, poi ci hanno seguito a Gaza e ci hanno rubato anche questi 60 dunum che avevamo vicino alla strada e alla città. Avevamo verdure e frutta sulla nostra terra e vivevamo in pace del nostro lavoro, ora non c’è più nulla e viviamo peggio dei rifugiati, peggio dei cani. Ma io preferisco morire piuttosto che lasciare la mia terra, ho costruito questa tenda con i teli di plastica e, grazie a Dio, vivo degli aiuti che ricevo. Non me ne andrò mai dalla mia terra, ma non è vita, i cani vivono meglio di me.
Sono venuti nel 1948 e hanno preso gran parte della Palestina: Haifa, Tel Aviv e Beer Sheba. Poi sono tornati nel 1967 e hanno preso il resto: la Cisgiordania e il Golan. Ma allora tanto vale che ci prendano tutti e che ci buttino a mare. Cosa vogliono ora a Gaza? Non ci vogliono qui, non vogliono che viviamo qui, né che cresciamo qui i nostri figli. Non vogliono lasciarci nulla, vogliono prendersi tutto. Quindi ora che non abbiamo più nulla, possiamo solo comperarci la morte.
Mio padre ha novantacinque anni e i miei fratelli vivevano tutti intorno a me e ora non li posso più vedere. Mio padre curava gli ulivi che crescevano laggiù, erano ulivi piantati al tempo dei turchi, avevano più di cento anni. Ora il sole sta in cielo, la terra è deserta e non ci sono più le case né gli ulivi.
Dicono che i palestinesi sono terroristi, ma chi sono i veri terroristi? Noi vivevamo qua in pace, coltivando la nostra terra. Non sono forse terroristi quelli che demoliscono le nostre case e terrorizzano i nostri figli? Venite a dormire qui una notte e vedrete che qui non si dorme mai, perché sparano e i carriarmati si muovono tutta la notte facendo un gran rumore e i nostri figli hanno paura. Sono venuti per un anno tutte le notti con le jeep e i carriarmati e i bulldozer e hanno distrutto tutti i campi e tutte le case. I palestinesi non hanno più nulla, sono dispersi, esiliati in tutte le parti del mondo. Ci vogliono cacciare e dove dovremmo andare?
Oggi mio padre e i miei fratelli vivono dall’altra parte della strada dei coloni e se voglio andare a trovarli devo fare un giro lunghissimo e non so se poi potrò tornare ancora qui. Le loro case sono a soli cinque chilometri da qui e non posso vederli, ma ho bisogno di loro e vorrei riabbracciarli, sono un essere umano anch’io! Ma per le nazioni arabe noi non siamo altro che cani, nessuno si preoccupa di noi!
Noi non siamo terroristi, hanno ucciso mio fratello mentre andava al lavoro, poi hanno detto che era un terrorista, ma se noi non abbiamo armi, niente! Sono loro che hanno tutte le armi, le jeep, i tanks, gli F16 e usano tutte le loro armi contro di noi. Dove possiamo scappare, dovremmo volare in cielo? Siamo stanchi di questa vita che dobbiamo vivere contro i nostri desideri. Gli asini vivono meglio di noi! Un giorno qui ci faranno altri insediamenti perché è l’unico modo per mandarci via dalla nostra terra. Questo è il nostro destino, ci vogliono sterminare.
Voglio farmi esplodere anch’io, perché è meglio morire che vivere questa vita. Non c’è nessuna speranza per noi, solo la guerra fino alla morte, perché la morte è meglio di questa vita. Nessuno si prende cura dei palestinesi, nessuno parla di noi, solo qualche piccola notizia sui giornali. L’unica scelta che ci rimane è di lasciarci esplodere come dei martiri, perché i palestinesi sono annichiliti dall’oppressione ed è per questo che si fanno esplodere. Non ho più visto mio padre da quattro mesi e lui ha novantacinque anni. Se voglio far visita a mio fratello devo spendere un giorno intero, restare ore al confine e poi camminare ancora. E non posso neanche telefonargli perché non abbiamo il telefono. Così non ci possiamo neppure parlare.
Ci hanno preso la terra, gli alberi, le case e anche i nostri uomini. Spero e prego che ci siano migliaia di martiri che si fanno esplodere. Noi avevamo una dignità sulla nostra terra e un giorno ci hanno privato di tutto.
Qui c’è il coprifuoco dalle sei di sera alle sei di mattina e chi va in giro viene ucciso. Cosa possiamo fare? Viviamo il presente, ringraziamo Dio per tutte le cose che ci ha dato e lo preghiamo che ci dia la pazienza e la vittoria: Dio ci darà la vittoria su di loro.
Non vogliono che i palestinesi abbiano uno stato, loro però uno stato ce l’hanno! Nessuno nel mondo soffre come i palestinesi sotto questa occupazione, Gli ebrei ci hanno derubato di tutto, non hanno pietà né per le donne né per i bambini, come si può aiutare gli ebrei? Sono solo dei banditi.

comunicato congiunto
19 giugno/Operazione Colomba - Berretti Bianchi


Ore 19
Ci e’ appena giunta notizia dell’ennesimo cieco, assurdo attentato a Gerusalemme. Altre sette persone si aggiungono alle diciannove vittime innocenti morte nell’attentato di ieri, 18 giugno, sempre a Gerusalemme.
La vita della gente è molto dura e in tutti gli aspetti della quotidianità l’occupazione è presente e condiziona tutto; dal lavoro all’istruzione, dall’economia alla vita personale, tutto ha a che fare con l’occupazione.
La rabbia e la frustrazione di molti viene sfruttata dai gruppi che credono che la strategia degli attentati sia l’unica possibile, applicando una politica di morte che non ha altro risultato che dare ancora più forza a chi, in Israele e nel mondo, sostiene la brutale politica di Sharon. Molta parte della società civile palestinese, invece, lavora per convogliare la frustrazione e la rabbia della gente in forza positiva, per cercare forme alternative di lotta dove non vengano coinvolti i civili.
Ci dissociamo totalmente con chi crede che la strategia violenta sia una strada che porta alla pace e con questo intendiamo sia gli attacchi suicidi in Israele ma anche la politica di occupazione, oppressione e umiliazione che Israele sta portando avanti nei territori occupati ancor prima dell’inizio dell’operazione “muraglia di difesa”.
In Israele molti la pensano come noi e sono molti ad aver capito che la sicurezza, per israeliani e palestinesi, si avrà solo partendo proprio dalla fine dell’occupazione: il motto dei pacifisti israeliani è “l’occupazione ci uccide”.
Impugnando il diritto di difesa, la politica messa in atto da Israele si dimostra oppressiva e violenta tanto quanto gli stessi attentati da parte palestinese, avendo quale unico effetto quello di fomentare ulteriormente l’odio e di favorire i gruppi estremisti.

la notte delle officine meccaniche
19 giugno/Maurizio


Poco dopo le 21,00: elicotteri Apache decollano verso la Striscia di Gaza, i loro obiettivi sono tre officine meccaniche, una alla periferia di Gaza City, la seconda dentro Gaza City e la terza a Kahan Younis. Alle 21,20 dal tetto della casa in cui viviamo ad Abssan Al Kabira, alla periferia di Khan Younis, si possono vedere chiaramente i bengala che scendono dal cielo, lanciati da un caccia F16 dell’aeronautica militare israeliana, e subito dopo i lampi giallastri delle esplosioni, provocate dai missili sparati dagli elicotteri Apache sui bersagli illuminati dai bengala. In venti minuti circa l’operazione si conclude, un ferito a Gaza e due a Khan Younis, nessun morto.
La mattina seguente andiamo sul posto dell’attacco a Khan Younis e ci raccontano che hanno sparato quattro missili aria-terra dentro una piccola officina meccanica dove, secondo la stampa israeliana, si fabbricavano bombe: naturalmente tra i palestinesi nessuno ne sa nulla.
Lo spostamento d’aria causato dalle esplosioni ha fatto uscire i muri di mattoni dalle loro cornici di cemento armato. Nel garage accanto all’officina, un’auto blindata è implosa a causa dello spostamento d’aria, l’appartamento sopra il negozietto ha riportato danni strutturali ancora da valutare, ma fortunatamente nessuno della famiglia, che pure era in casa al momento delle esplosioni, si è fatto male. La casa di fronte è stata scoperchiata e ora la cucina, la camera da letto, lo studiolo e il bagno hanno per tetto un cielo di stelle.

Al Mawasi
22 giugno/Fabrizio, Barbara


Questa mattina quattro volontari dell’Operazione Colomba e dei Berretti Bianchi hanno cercato di entrare nell’area di Al Mawasi che si estende all’interno della fascia costiera, nella parte meridionale della striscia di Gaza.
L’area di Al Mawasi è tra le più fertili e ricche di risorse idriche della striscia di Gaza e da circa vent’anni occupata da insediamenti. Le autorità israeliane giustificano tutte le restrizioni verso la popolazione civile palestinese con il pretesto della sicurezza dei tremila coloni israeliani, costringendo così gli ottomila palestinesi, residenti nell’area, in una situazione che ricorda molto i ghetti ebraici della prima metà del secolo scorso.
La zona di Al Mawasi è considerata “zona gialla” dopo gli accordi di Oslo, cioè sotto l’amministrazione civile e militare israeliana. Le ottomila persone palestinesi che vi abitano sono sottoposte a numerose restrizioni da parte delle autorità israeliane. Il coprifuoco viene imposto tutte le notti, è vietato ai palestinesi costruire nuove abitazioni o strutture pubbliche. La diretta vicinanza con gli insediamenti e la massiccia presenza di militari pone la popolazione civile in una continua situazione di pericolo, tensione e paura.
Nell’area non sono presenti strutture sanitarie e per i palestinesi che vi abitano è molto difficile entrare e uscire da essa. Vi sono casi di persone alle quali, pur essendo residenti nell’area, viene negata l’entrata e, spesso, sono costrette a bivaccare nelle vicinanze del check point di Al Tufah, considerata molto pericolosa a causa dei continui scontri tra l’esercito d’occupazione israeliano e le forze palestinesi.
La situazione economica ad Al Mawasi è disastrosa per la difficoltà, da parte dei contadini, di coltivare la loro terra e di trasportare fuori i prodotti. Anche la pesca risente di queste restrizioni, i due attracchi per pescherecci giacciono inutilizzati ormai da quasi due anni.
L’accesso per i palestinesi non residenti è vietato e anche gli stranieri sono costretti a richiedere un particolare permesso presso le autorità militari israeliane.
Miloon Kothari, Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul Diritto alla casa, afferma, nel suo recente rapporto, che Israele giustifica questi insediamenti come necessari a causa del “naturale” incremento demografico. Ma, mentre il numero dei coloni cresce del 12% all’anno, la popolazione israeliana è aumentata appena del 2% all’anno. “Israele ha utilizzato la crisi attuale per consolidare l’occupazione dei territori palestinesi”, ha riferito Kothari. “La costruzione di nuovi insediamenti israeliani è incendiaria e provocatoria e i coloni sono liberi di esercitare violenze e di occupare le terre. Israele ha costruito più di 100 colonie (case per circa 200.000 Israeliani) sulla terra occupata durante la Guerra dei Sei giorni e continua a costruirne.”
Condividiamo le affermazioni di Miloon Kothari e per questo siamo decisi ad entrare nell’area di Al Mawasi, per poter testimoniare la situazione in cui la gente vive.

una donna sul martirio
/Maurizio


E’ giusto che gli italiani possano conoscere le nostre storie, ma non ci sono parole per spiegare i miei sentimenti, quando vedo le immagini dell’Intifada in TV e vedo tutti quei ragazzi che muoiono per la nostra sofferenza, non riesco più neppure a trovare le lacrime, mi sono inaridita.
Tutti i palestinesi vivono questa sofferenza, se non hanno un morto in famiglia, hanno avuto la casa demolita o bombardata, oppure i loro frutteti sono stati estirpati e i loro campi spianati con i carri armati. I soldati non ci permettono di vivere tranquilli. I loro coloni vivono in pace e partecipano alle loro feste con gioia, ma noi qui non suoniamo più neppure la musica ai matrimoni, ci sono stati troppi morti durante questa Intifada e non abbiamo nessuna voglia di far festa, nemmeno quando ci sposiamo.
Il governo di Sharon non può comprendere cosa sta succedendo qui. Loro vogliono distruggere tutto, ma noi siamo persone umane. Loro vengono da tutte le parti del mondo per vivere nello stato di Israele, non capisco perché noi ce ne dovremmo andare, noi vogliamo vivere qui, sulla nostra terra. Loro hanno preso l’intera Israele, ma almeno lasciateci un poco di terra su cui vivere in pace.
Invece no, vogliono ucciderci tutti e noi non possiamo difenderci. Se spariamo da qui, da Al Tufah, o anche da Rafah, non gli facciamo nessuna paura, nessun soldato viene ucciso o ferito, muoiono solo i nostri figli, muoiono perché tirano sassi contro i loro carriarmati, muoiono perché non riescono più a controllarsi, nessuno riesce più a trattenere la loro rabbia, devono fare qualcosa, anche se è inutile, ma almeno sentono di aver fatto qualcosa. Noi non possiamo difenderci, ma nonostante tutto crediamo fermamente che questa è la nostra terra, la nostra patria, il posto in cui siamo nati, il posto in cui vogliamo vivere.
Se qualcuno venisse ad occupare il vostro paese, anche voi fareste qualsiasi cosa per riconquistare la vostra terra e la vostra libertà ed è lo stesso per noi. Io credo che i nostri martiri, quelli che si fanno esplodere dentro Israele, siano di aiuto alla nostra causa, perché Sharon non ha paura di nulla eccetto che dei giovani suicidi che si fanno esplodere. Questi giovani martiri credono una sola cosa: devo fare questo sacrificio per il mio popolo, per la mia terra.
Molti italiani non possono capire questo nostro modo di lottare contro l’oppressione israeliana, molti di voi credono che le nostre madri mandino i loro figli a morire, ma non è vero, le madri non sanno nulla di ciò che fanno i loro figli, se lo sapessero, forse tenterebbero di fermarli.
La verità è che in questa situazione, divenuta ormai insostenibile, non riescono a controllare la loro rabbia, la disperazione, il senso di impotenza che cresce loro dentro un giorno dopo l’altro. Molti di noi non credono che l’ANP possa difenderci, molti di noi pensano che dobbiamo difenderci da soli fino all’ultimo palestinese.

riflessioni
27 giugno/Fabrizio


Spesso, parlando con alcuni palestinesi durante le notti di coprifuoco, dettate dalla vicinanza della loro casa alla strada dei coloni, le discussioni sulla situazione sono accese. Spesso si parla degli attentati suicidi compiuti dai palestinesi in Israele. Molti sono contrari, altri sono favorevoli, tutti cercano di spiegarmi il perché di questi gesti. Quando si vive in Palestina, sia la Cisgiordania o Gaza, è facile capire che le bombe vengono fatte detonare dalla disperazione più che dal fanatismo. Naturalmente questo per quanto riguarda chi muore, "la bomba umana" non chi muove le pedine sullo scacchiere.
Chi contribuisce, però, alla creazione di tanta disperazione da far pensare che questa strategia sia giusta? Quale fenomeno aiuta la proliferazione e la crescita dei gruppi estremisti e terroristi che attuano questa strategia di morte e distruzione?
In questi mesi una risposta l'ho trovata, e la supposizione iniziale sta diventando sempre di più una consapevolezza. L'occupazione militare israeliana uccide dentro e fuori Israele. Non servono muri o ghetti per difendersi dalla disperazione, non ci sono forme di difesa armata, bisogna trovare un altra soluzione. Come dicono tanti pacifisti israeliani, la prima cosa da fare e finire l'occupazione e smantellare gli insediamenti, praticamente il contrario della politica di Sharon.
Nelle lunghe discussioni i palestinesi ci spiegano di non avere armi contro l'occupazione, che uccide quotidianamente. Vogliono giustizia, ma l'unica via che molti vedono è quella violenta nell'accezione più grave: le bombe umane. Durante la discussione cerco di spiegare che esiste una via alternativa, un metodo di lotta che sia strategicamente giusto ed eticamente corretto. Credere nella nonviolenza come forma di lotta mi porta ad avere poche proposte se non la via disarmata e popolare. Su questo piano, però, è facile scoraggiarsi, tutte le politiche mondiali mirano ad una pace armata e gli eserciti sono mascherati da portatori di Pace, e non, come in realtà è, da portatori degli interessi economico strategici delle potenze occidentali e non.
Ci sono dei fatti che fanno riflettere. Ora so con certezza cosa fa paura nei piani alti di Gerusalemme ovest. Le stragi, gli attentati, il nemico palestinese musulmano, sono funzionali ad una politica coloniale ed espansionistica di una parte della destra estrema israeliana, tra cui c'è sicuramente Ariel Sharon. La via violenta è quella più congeniale alla politica israeliana. Israele ha da tempo, anche per questioni difensive, un esercito tra i più potenti al mondo.
Cosa possono fare i combattenti palestinesi utilizzando una strategia violenta? Nulla, se non provocare una reazione sproporzionata che crea l'ennesima ondata di odio e rancore che allontanano ancor di più la Pace. In questi giorni la mia fede si è trasformata in convinzione, Israele teme, ha paura dei movimenti pacifisti, interni ed esterni allo stato.
Due fatti pressoché insignificanti mi hanno aiutato a capire ancor di più che anche qui non c'è alternativa alla via nonviolenta.
Il primo fatto è una sconfitta per noi pacifisti, ma fa capire quanto siamo temuti. Si tratta dell'espulsione, all'aeroporto Ben Gurrion di Tel Aviv dei manifestanti che erano giunti dall'Italia per partecipare ad un azione, autorizzata dal Ministero degli Interni israeliano, che prevedeva una catena umana che circondasse, simbolicamente, la Cisgiordania e Gerusalemme. Perché il potente stato di Israele temeva questa gente? Perché fanno così paura i pacifisti tant’è che questa parola al Ben Gurrion ha un accento profondamente negativo?
Il secondo fatto è una piccola manifestazione fatta da venti francesi e tre italiani (volontari dell'Operazione Colomba e dei Berretti Bianchi) nella cittadina di Rafah, nella striscia di Gaza, sul confine con l'Egitto. L'esercito ha, dall'inizio dell'Intifada, avviato una politica di "sicurezza" che ha portato all'abbattimento di 250 case troppo vicine al confine. Durante una di queste azioni con fini di sicurezza i bulldozer con la stella di Davide hanno danneggiato una pompa parte del sistema fognario della zona. Questo succedeva circa quattro mesi fa e da allora nessun operaio palestinese ha osato avvicinarsi al manufatto, pena una pallottola sparata dai solerti soldati.
Una volta si era addirittura giunti ad un intesa ma all'arrivo degli operai le raffiche israeliane hanno soffocato la volontà di lavorare. Sono bastati 23 europei determinati con il passaporto in mano a fermare le pallottole israeliane, o meglio, a deviarle sui mucchi di macerie o gli scheletri delle case vicine. Per far cambiare idea a quelli con il passaporto in mano l'esercito israeliano ha mosso anche un carro armato ma con scarso successo.
Gli operai palestinesi hanno lavorato e l'azione si è svolta, con identiche modalità, per tre giorni di fila fino a lavoro ultimato. L'esercito più potente del Medio Oriente non sempre si può permettere di sparare su dei cittadini europei o americani, anche se i loro governi avvallano la politica di Sharon. è una cosa importante, dimostrare ai palestinesi che una via nuova c'è.
Se i palestinesi si guardassero indietro scoprirebbero che la prima Intifada, sassi contro carri armati, ha ottenuto molti più risultati di questa che vede qualche fucile ma soprattutto l'abominio dei kamikaze contro un esercito che ha sempre il sopravvento.
Ci sono gruppi in Palestina che hanno capito l'importanza di una strategia non violenta ma purtroppo, nell'ultimo anno, anche nella società palestinese si sta aprendo un solco fra chi crede e sostiene una strategia violenta e chi crede in una seconda via non armata. In Israele è così, già da tempo. Anche fra i palestinesi c'è bisogno di informazione, bisogna raccontare che non tutti in Israele stanno con Sharon, non tutti sono militari e se lo sono magari rifiutano di combattere nei territori.

Il danneggiamento della pompa di drenaggio dell’acqua nel Blocco “O” di Rafah
e l’azione diretta di interposizione nonviolenta per ripararla.


Questo è il testo del documento distribuito dal Comune di Rafah che spiega il motivo della nostra azione:
Il danneggiamento della pompa di drenaggio
nel Blocco “O”/Rafah


L'esercito israeliano ha distrutto la pompa di drenaggio dell'acqua nel Blocco "0", la quale ha causato molti problemi nel sistema di drenaggio dall'inizio di maggio.
La municipalità di Rafah che coopera con gli internazionali ed organizzazioni speciali, ha cercato di coordinarsi per due volte con l'esercito israeliano, in modo da permettere ai suoi ingegneri e lavoratori di riparare la pompa e rimuovere i detriti.
A dispetto del coordinamento tra il Dipartimento per gli Affari dei Rifugiati, il Comitato Pubblico del Campo di Rafah, il Comitato del Blocco”O” e l'esercito israeliano, i soldati hanno aperto il fuoco sui lavoratori per impedirgli di continuare il loro lavoro e forzarli a lasciare il luogo.
In questi giorni, l'acqua di drenaggio ha cominciato a fuoriuscire dentro le case e le zanzare si sono diffuse da tutte le parti. Ciò comporterà un disastro ambientale e minaccerà la salute dei profughi, rovinerà il suolo e porterà malattie epidemiche.
La pompa di drenaggio dell'acqua è installata in un'area densamente popolata dove la povertà è ad alti livelli. Non c’è sicurezza nel campo profughi e le persone non possono lasciare le loro case, non possono nutrire i loro figli a causa dell'assedio economico imposto da Israele.
I soldati israeliani vogliono far emigrare la popolazione dalle loro case e questo rivela la brutta faccia degli israeliani.
Infine, il comitato popolare del Blocco "0" chiede a tutti gli internazionali e organizzazioni dei diritti umani di essere sostenuto e di mettere pressione ad Israele in modo da permettere ai lavoratori della municipalità di svolgere il loro lavoro e di stare con loro fino al completamento della loro missione.

25 giugno/Maurizio


Quando mi sveglio sono già sul taxi con i ragazzi per andare al Centro per i Diritti Umani (CDU) di Khan Younis ad incontrare un gruppo di francesi del Movimento Civile per la Protezione del Popolo Palestinese. Purtroppo però il pullman, atteso per le 8.00, era ancora fermo al semaforo di Abu Holi, qualcuno aveva scattato fotografie e i soldati avevano chiuso il semaforo e sequestrato le macchine fotografiche. Dopo di che, tutti francesi erano scesi dal bus ed avevano aperto una trattativa per riavere gli apparecchi. Quando, dopo un paio d ore, verso le 10.00, la compagnia di francesi ha ricuperato il maltolto ed è finalmente riuscita a passare, le tre ragazze dei Berretti Bianchi, sulla via del rientro in Italia, erano appena arrivate al semaforo già diventato rosso.
ore 10.30: i francesi arrivano al CDU
ore 11.00: incontro con il sindaco di Rafah
ore 12.00: inizia l’azione di protezione dei diritti umani del popolo palestinese.
Sulla linea di confine con l’Egitto gli israeliani si sono ritagliati due fascie di sicurezza. La prima di una dozzina di metri di larghezza, separa i due confini di stato. L’altra di circa cinquanta metri di larghezza è la fascia di sicurezza con il territorio palestinese, su questa fascia sono state demolite tutte le case che vi sorgevano.
C’è però, nel bel mezzo delle macerie, un casotto con una pompa per le acque chiuse che serve a far defluire le acque fognarie e i liquami che vengono dall’abitato palestinese. Purtroppo, durante le demolizioni, il pozzo nero è rimasto soffocato dalle macerie e ogni volta che i palestinesi si azzardavano ad andare a riparare la pompa i soldati gli sparavano addosso.
Così da tempo, il CDU aveva concordato questa azione con il movimento spontaneo francese per la protezione del popolo palestinese, i partecipanti all’azione si sarebbero interposti tra i soldati e i lavoratori per permettere la riparazione della pompa.
Ora questa faccenda non è affatto di secondaria importanza, la pompa è fuori uso da oltre quattro mesi e questo significa che, nelle case che si affacciano sulla fascia di sicurezza, i liquami rigurgitavano fuori dalle turche domestiche e, con il caldo che fa da queste parti, le mosche ed altre delicatezze, il rischio di epidemie aumentava di giorno in giorno.
Alle ore 12.00 entriamo nella desolata fascia di sicurezza, oltre alle due dozzine di europei con passaporto francese e belga, c’eravamo anche noi italiani; due dell’Operazione Colomba, Fabio e Luca e io dei Berretti Bianchi. Alla compagnia si erano aggiunti anche poco più di una dozzina di palestinesi, tra operai, giornalisti e funzionari del CDU.
Camminiamo compatti verso la pompa, alle nostre spalle la casamatta delle guardie di frontiera egiziane, davanti a noi la pompa e, oltre la pompa, in lontananza, la torretta con la bandiera israeliana. Superata la pompa, gli internazionali si schierano in una fila di interposizione tra la torretta israeliana e la pompa, subito la ruspa dei palestinesi con sopra l’autista e un francese inizia a spianare l’area e gli operai si mettono al lavoro.
Gli adulti dentro le case che guardano la fascia di macerie faticano a trattenere i bambini eccitati da questa stranissima novità. Qualcuno si sporge troppo dai muri pericolanti e dai mucchi di macerie che separano le case dalla fascia di sicurezza, così i soldati iniziano a sparare. Nessuno di noi si muove, mostriamo i passaporti e rimaniamo con il braccio alzato brandendo il libretto bordeaux come unica garanzia di immunità. Tra i francesi, una palestinese naturalizzata ha il fazzoletto in testa e l’abito classico delle donne di qui, c’è anche una marocchina che si è messa la camicetta tradizionale del suo paese.
Passa poco tempo e qualche altra schioppettata, quando arriva, sferragliando in una nuvola di sabbia, un mezzo blindato che si ferma di fronte a noi e alla pompa: gli operai continuano imperterriti il loro lavoro, due francesi si spostano a pochi metri dal blindato e rimangono col passaporto innalzato come una bandiera, immobili come statue di sale, mentre gli spari si fanno più vicini. Alcuni perdono l’iniziale sicurezza e si accucciano. Un elmetto verde spunta da dietro l’ultimo muro, è una guardia di frontiera egiziana che si ferma per tutto il tempo ad osservare la scena. Poi una mano esce da una feritoia della torretta blindata, ma dal movimento non si riesce a capire se intende: “vieni qui oppure vai via”. Uno degli operai scambia qualche parola con l’ufficiale corazzato, poi continua imperterrito a spalare merda. Poco dopo un’altro operaio si arrampica su di un traliccio della luce per la riparazione, lì in mezzo tra noi e la pompa, tutti lo guardano e trattengono il fiato.
Intanto uno del CDU mi ha detto che il sindaco è al telefono con gli israeliani e si sta accordando perché gli operai possano finire il lavoro in pace. Io cerco a stento di controllare la paura e quando vedo Fabio e Luca che sono ancora con gli altri sulla linea del primo schieramento, ancora immobili sotto il sole che nel frattempo ha raggiunto il suo zenit - non si muove un filo d’aria, anche l’ombra sembra scomparsa - mi faccio coraggio e m’incammino verso di loro guardando bene dove metto i piedi in quel groviglio di pavimenti, stele da lampadario inghiottite dalle macerie e tondini per il cemento armato che spuntano da ogni dove.
Raggiunti i ragazzi, per abbassare la tensione e recuperare un po’ di coraggio, ci mettiamo a cantare “Bella ciao” tra gli applausi dei presenti. Poco più tardi la tensione si allenta davvero e arrivano vassoi con te bollente e bottiglie di cola ghiacciata. Dopo un oretta arriva anche il pranzo, riso con carne, e così l’interposizione si trasforma in un pic nic e poi in un bivacco fino alle ore 17.00, quando, finite le riparazioni, torniamo tutti da dove siamo venuti.
Prima di rientrare a Khan Younis, il bus si ferma da una delle famiglie dei sei palestinesi uccisi la mattina precedente verso le 8. Questi viaggiavano su di un taxi alla periferia di Rafah, probabilmente per andare al lavoro, tra di loro un solo ricercato. Due elicotteri Apache rombano fuori dalla linea dell’orizzonte e sparano un missile aria-terra sul taxi, i sei muoiono sul colpo. Nelle auto che precedono e seguono il taxi e tra i passanti, i feriti sono più di una dozzina, alcuni molto gravi moriranno nelle ore seguenti all’ospedale di Rafah.
Sull’asfalto rimane la macchia bruciata dell’auto, una scarpa e un grosso buco che, attraverso l asfalto, ha scavato anche la sabbia sottostante. Dopo la visita di condoglianze, lasciamo i francesi e ritorniamo in taxi verso Khan Younis. Lì mi separo da Fabio e Luca, che se ne vanno a casa, mentre io raggiungo il presidio dei lavoratori disoccupati che mi hanno invitato a partecipare ai funerali delle sei vittime di Rafah.
Sono due i bus che partono per Rafah, io sono sul taxi del coordinatore del presidio di Khan Younis. Giunti a Rafah, i lavoratori si uniscono ai loro compagni del presidio locale e tutti insieme in corteo si fa il giro delle case in lutto, dove ci si siede su lunghe file di sedie mentre qualcuno della famiglia passa per offrire un goccetto di caffè beduino e qualche dattero. Dopo una mezza dozzina di caffè e una dozzina di datteri si ritorna a Khan Younis.
Finalmente a casa! Sono passate dodici ore da quando mi sono svegliato sul taxi stamane, ma pare che non sia ancora finita. Le tre ragazze dei Berretti, Barbara, Carla e Maria Ida, sono ancora ferme al semaforo di Abu Holi che non è più stato riaperto da quando sono passati i francesi. E’ già buio da un pezzo quando io e Fabio arriviamo in taxi a recuperare le ragazze. Giunti al famigerato semaforo, osserviamo una marea di auto e camion che stazionano lì da tutto il giorno, qualcuno si sta preparando per la notte, qualcun altro prega su di un tappeto, centinaia di persone confinate dentro i veicoli aggrovigliati tra di loro in un’inestricabile ressa di metalli e corpi umani sudaticci, bambini che piangono. L’unica luce è quella della luna piena che si affaccia ineffabile sulle miserie umane.
Ricuperate le ragazze, ritorniamo a casa sul nostro taxi.
Domani è un altro giorno.

27 giugno/Fabio


A due giorni dalla prima azione di protezione alla squadra di lavoratori palestinesi da parte della delegazione francese e di noi ‘infiltrati’ oggi, non essendo stata ancora completata la riparazione della pompa, ci accingiamo a parteciparvi nuovamente. La delegazione di francesi e’ ripartita alla volta di Gaza questa mattina e l’azione questa volta e’ organizzata dall’ISM che tra il suo coordinatore locale ed i volontari sono in tutto in tre e per questo hanno chiesto la presenza di noi quattro. I ragazzi dell’ISM, un americano ed un indiano, sono qui da pochi giorni e si trovano già’ catapultati in questa azione. Dal Centro per i Diritti Umani, dove salutiamo la delegazione francese che sta per ripartire, ci muoviamo alla volta di Rafah.
Prima di recarci sul luogo dell’azione, in quella terra di nessuno creata dai bulldozer israeliani li’ dove una volta c’erano delle abitazioni palestinesi, incontriamo il capo della squadra degli operai alla municipalità’ di Rafah.
Evitiamo volentieri un altro incontro con il sindaco, quindi a bordo di due pick-up ci dirigiamo nella ‘spianata’ a qualche decina di metri dal confine con l’Egitto e a qualche centinaia di metri dall’avamposto militare israeliano. Prima di uscire alla scoperta sfoderiamo il nostro passaporto e ci muoviamo verso il pozzo nero otturato dai detriti e la pompa non ancora riparata in fila, con le braccia alzate e il librettino bordeaux col simbolo della Repubblica Italiana.
Dopo aver percorso un centinaio di metri tra i cumuli di detriti, ci seguono i lavoratori palestinesi muniti di attrezzi da lavoro ed un camion con rimorchio. Li scortiamo formando una “linea di interposizione” tra la pompa e gli israeliani che non vediamo ma che sicuramente ci scrutano. Infatti, dopo alcuni minuti dall’inizio dei lavori di riparazione nonché’ di smaltimento delle pozze di liquami, dall’avamposto israeliano partono alcuni colpi che colpiscono il camion, fermo a pochissimi metri dalla nostra linea, colpendo il radiatore, il lunotto anteriore e il gancio meccanico, mettendolo così’ fuori uso. Subito ci accucciamo, poi ci tiriamo su guardando ancora verso la bandiera con la stella di Davide che sventola dall’alto dell’avamposto.
Successivamente in due ci stacchiamo dalla fila per scortare l’arrivo di altri operai e di altra attrezzatura. Poi con Luca torniamo indietro e saltiamo su un bulldozer giunto per rimuovere il camion con rimorchio ormai fuori uso, una mano ai maniglioni, un’altra col passaporto bene in vista. Gli spari senza dubbio ci hanno scosso ma continuiamo la nostra azione, aiutati ancora una volta da “Bella Ciao” che allieta il lavoro, e’ il caso di dire, di merda di questi lavoratori, in principio tesi, in seguito ai colpi sparati (non che non ne siano abituati).
Ci mobilitiamo per avvertire in Italia dell’accaduto, oltre che i nostri amici giornalisti che sono a Gerusalemme, il centro israeliano per i diritti umani Bt’Selem e il Consolato Italiano a Gerusalemme; ognuno a suo modo si muove. Il lavoro certosino, cominciato alle 10 del mattino, si protrae per diverse ore tra la riparazione delle tubature, la bonifica delle pozze di liquami con un autospurgo e la rimozione di detriti per mezzo di un bulldozer.
Alle 14 circa, il lavoro degli operai, che più’ volte nelle passate settimane era stato interdetto dal tiro dei soldati israeliani e’ ormai quasi del tutto terminato, con la tensione placatasi in seguito ad un colloquio di uno dei capi della squadra con un ufficiale israeliano.
In questo modo, in tre giorni di lavoro, grazie all’azione internazionale di interposizione, e’ stato possibile riparare la pompa ed evitare il rischio di epidemie in seguito allo stagnare dei liquami a poche decine di metri dalle case abitate, non ancora demolite, per le solite ragioni di sicurezza.

27 giugno/Maurizio


Il lavoro alla pompa non è ancora terminato, ieri i francesi si sono esposti di nuovo per alcune ore, ma oggi ripartono per Gaza, per cui tocca a noi quattro italiani, tre Colombe e il solito Berretto. Pare che arrivino anche altri due stranieri: un giornalista indiano e un ricercatore indipendente di Chicago (USA), col suo bel passaporto verde. Qualche dubbio sul numero esiguo, siamo solo sei, ma comunque arriviamo a Rafah e, con i passaporti innalzati verso il cielo, scortiamo gli operai, precedendoli, fino alla pompa. Arriva anche un camion del comune di Rafah, che parcheggia spavaldo in mezzo alla spianata, poco distante dalla pompa.
Passano pochi minuti e alcuni colpi ci piombano nel panico: i primi tre sono diretti al radiatore del camion, che è privo di passaporto straniero e quindi indifeso. Uno al parabrezza, altri al braccio meccanico sul cassone dell’automezzo. Nonostante tutto ci ricompattiamo e, per cacciare il panico, intoniamo “Bella ciao” impugnando il passaporto. Poi Fabrizio inizia a fare telefonate a Bt’Selem, alla sede delle Colombe a Rimini, a qualche giornalista e al Consolato Italiano a Gerusalemme. Più tardi, dopo che a gruppi di due ci spostiamo qua e là per fare entrare una ruspa da una parte e alcuni operai con un cavo per il traino dall’altra, il camion in panne viene rimosso.
Finalmente i telefoni della torretta israeliana di confine, da dove ci sparano addosso, iniziano a suonare e la tensione si allenta, arrivano le bibite e il tè bollente, il sole è altissimo e infuocato proprio sopra di noi, il cranio pelato dell’americano è arso dalla calura. Alcuni ramarri si rincorrono sulle macerie, non ci sentiamo ancora sicuri, ma va già meglio. Questa volta l’elmetto verde della guardia di frontiera egiziana che due giorni fa ci aveva osservati per tutto il tempo ci saluta in segno di solidarietà.
Poi arriva un escavatore e un camion con la pompa per gli spurghi che finiscono l’opera di pulitura del pozzetto. Nel frattempo l ufficio distrettuale di coordinamento palestino-israeliano ha raggiunto un accordo per finire i lavori e i palestinesi ci dicono che possiamo andare via perché si sentono tranquilli.
Così, dopo tre ore di tensione, ci allontaniamo dalla fascia di sicurezza con la consapevolezza del pericolo scampato ma anche con la certezza di aver fornito un valido sostegno alle famiglie che vivono sulla linea di confine, le quali, dopo quattro mesi, potranno finalmente tirare lo sciacquone quando vanno in bagno. Detta così pare una barzelletta, ma la realtà spesso supera la fantasia. Il nostro amico dell’UNRWA ci ha invitati a pranzo e lo raggiungiamo con grande sollievo e buon umore, mentre l’americano e l’indiano, che ancora non hanno ben realizzato che cosa gli sia successo questa mattina, se ne vanno verso il semaforo di Abu Holi per proseguire verso Gaza.

27 giugno/Luca


Siamo di nuovo a Rafah. Questa volta siamo tutti, compreso un gruppo di tre persone dell'International Solidarity Movement (ISM). Anche ieri i francesi si sono "interposti", permettendo agli operai di lavorare sulla pompa. Oggi, ci hanno avvertito che gli operai potrebbero finire il loro lavoro in poche ore, e quindi noi ci siamo mossi. Arrivati sul luogo, tiriamo fuori i nostri passaporti e ci incamminiamo verso la pompa. Si inizia già a respirare la tensione che ci accompagnerà per tutta la giornata.
Gli operai ci seguono e tra questi, alcuni arrivano con un camion che viene posteggiato (un po’ troppo spavaldamente) vicino alla pompa. Arrivano i primi spari, dalla torretta del confine israeliano. Questa volta sono vicinissimi. Vedo alzarsi la polvere a circa 6 metri da noi. Il primo istinto è quello di andarsene, ma poi pensiamo che è ciò che loro vogliono. Hanno sparato per intimorirci e soprattutto per rendere inutilizzabile il camion parcheggiato vicino alla pompa, colpendo il radiatore. Gli operai, nel frattempo, si sono nascosti e pare che non ne vogliano sapere di lavorare (almeno un gruppetto).
La prima cosa da fare è portare via il camion che non riparte. Con i nostri passaporti nella mano, scortiamo quindi la ruspa che è venuta per trainare via il camion dal luogo della sparatoria. Saliamo quindi nella ruspa sempre con i nostri passaporti in evidenza, a mo’ di protezione, mentre Fabrizio si siede sul camion.
Tra una manovra e l'altra, quindi, questa volta gli operai riescono a finire il loro lavoro in 4 ore circa. Abbiamo contattato (per denunciare l'accaduto e per sentirci più sicuri), più persone possibili: un giornalista della Rai, uno del Manifesto, Bt’Selem (associazione israeliana che si occupa di diritti umani) e il console italiano a Gerusalemme. Questa volta, il soldato egiziano che due giorni fa aveva sporto la testa per osservarci ci ha anche salutato, quasi volesse ringraziarci.

1 luglio
/Maurizio


In serata è giunta la notizia che hanno rapito un israeliano a Rafah. Poi, dopo un paio d’ore, è arrivata la rettifica: sono tre le persone arrestate a Rafah, due uomini e una donna, e non si è capito se fossero collaborazionisti palestinesi o israeliani sotto copertura. Di certo sono stati indicati come i responsabili dell’identificazione del ricercato che viaggiava sul taxi la mattina del 24 giugno e che fu colpito da un missile lanciato da un elicottero Apache, che causò la morte delle sei persone che viaggiavano insieme a lui e di alcuni passanti.
Più tardi, poco prima della mezzanotte, una squadriglia di elicotteri Apache è piombata come un uragano estivo su di una casamatta della polizia palestinese lungo la cosiddetta linea verde a est di Khan Younis. Truppe delle forze speciali dell’IDF sono scese dagli elicotteri e hanno catturato i sette poliziotti palestinesi in servizio di guardia nella baracca, portandoseli via a bordo degli elicotteri. Prima di rientrare la squadriglia ha compiuto un largo giro circolare dalla linea verde, ha sorvolato verso nord-ovest Abssan, dove abitiamo, poi Khan Younis a ovest e infine Rafah a sud, senza compiere altre azioni ostili ma, a mio parere, solo per far sapere a tutti che la ritorsione per l’arresto delle tre spie israeliane aveva avuto luogo con successo. Dal confine con l’Egitto, sopra Rafah, sono poi scomparsi a est oltre la linea verde, in territorio israeliano. Inghiottiti da una notte senza luna, mentre in lontananza un bengala illuminava la zona intorno al check point di Al Tufah, dove gli scontri notturni non segnano quasi mai battute di arresto.

Rafah city
04 luglio/Maurizio


Il quattro luglio incontro una delegazione di americani dell’International Solidarity Movement (ISM), stanno andando a Rafah per un’azione di interposizione, così mi unisco a loro. E’ già sera quando arriviamo a Rafah e veniamo ospitati dal Rafah Football Club che ha vinto il campionato di Gaza per tre anni consecutivi nel 1994/95/96.
La notte passa insonne mentre, poco distante, si sentono esplosioni sorde seguite a raffiche urlate da armi automatiche, ad ogni esplosione seguono alcune raffiche, poi il silenzio, e ancora altre raffiche e altre esplosioni che si susseguono per tutta la notte fino al canto del Muezzin, verso le quattro del mattino. Dopo il Muezzin, i galli si lanciano i loro messaggi da una parte all’altra del confine con l’Egitto fino a quando il sole illumina di nuova luce anche questa piccola fettina di mondo.
Purtroppo là dove ieri sera sorgevano nove case con rispettive famiglie che vi abitavano dentro, oggi ci sono solo macerie. Nella notte i bulldozer hanno prima scrollato un poco le case per svegliarne gli abitanti, mentre i blindati li difendevano dalla reazione della resistenza palestinese. Poi i soldati sono entrati nelle abitazioni e hanno dato un preavviso di dieci minuti alle famiglie per evacuare le loro case che si affacciavano sulla striscia di sicurezza che separa l’abitato di El Brasil dalla linea di confine con l’Egitto. Una dozzina di tende sono spuntate accanto al parcheggio dei taxi di Rafah, ma nessuno ci abita veramente, tutti sono andati a stare dai loro parenti.
Insieme alla delegazione dell’ISM andiamo sul posto a vedere i danni mentre un blindato passa di corsa ad un centinaio di metri da noi, sollevando un nugolo di sabbia. Poi una famiglia ci fa salire in casa per mostrare i segni della battaglia notturna. Ordinaria amministrazione di una cittadina di confine, quotidianità di un conflitto a bassa intensità che esplode improvvisamente per poi lasciare spazio alla calma piatta della calura estiva. Di giorno non si alza un filo d’aria e la notte l’umidità supera il 100%.
Quando la sera tentiamo di tornare sul posto per dormire nelle case più esposte e cercare, almeno per una notte, di evitare nuove demolizioni, il sindaco ci manda a prendere e ci fa rientrare nel centro cittadino dove ci intrattiene per alcune ore, spiegandoci che è per garantire la nostra incolumità che non siamo stati ospitati in quel luogo.
Said Zouarb, figlio del primo sindaco di Rafah, in carica da sei anni, ci spiega che la città è composta da grandi clan familiari, che ogni controversia viene regolata dai rappresentanti di queste famiglie e che la sua funzione è quella di mediatore delle dispute e, naturalmente, di risolutore dei problemi. Per chi non avesse la possibilità di essere ricevuto nel suo ufficio, esiste l’opportunità di sedersi la sera in un circolo di sedie dove chiunque può presentare le sue istanze e trovare l’attenzione del sindaco.
Qui a Rafah crediamo nella separazione tra stato e religione, a differenza di altri posti nella Striscia di Gaza dove vorrebbero condizionare lo stato con la legge islamica. Il nostro candidato alle prossime elezioni politiche in Palestina sarà Hanna Hashrawi.
A Rafah abitano circa 230.000 persone, sono state abbattute 245 abitazioni, 250 sono pericolanti, i senza tetto sono 10/12.000, durante l’Intifada ci sono stati 200 morti, di cui solo il 10% sono combattenti mentre il 90% sono civili tra i quali si contano 48 bambini sotto i 12 anni. I feriti sono stati circa 2.000. Oggi a Rafah ci sono 26.000 disoccupati: alcuni di loro due anni fa potevano guadagnare in Israele fino a 100 dollari al giorno. Oggi non riescono neppure a guadagnare 10 shekel perché Israele ha chiuso le frontiere di Gaza a tutti i lavoratori palestinesi.
Poi il discorso si sposta sul problema dell’acqua dolce, una delle priorità dell’amministrazione comunale: “Gli israeliani hanno costruito i loro insediamenti sulle falde acquifere più ricche della Palestina meridionale, oggi loro prendono la nostra acqua e la distribuiscono nelle città israeliane, poi da Israele ci rivendono l’acqua razionata. Ma quella è la nostra acqua!
Dopo questa piccola introduzione contenuta in un fluente discorso da politico navigato, Said ci racconta un piccolo episodio:
“Al mio amico della Banca Mondiale che era venuto a farmi visita ho detto che noi qui vorremmo vivere come vivono i cani in Europa.”
“Stai scherzando” mi ha risposto.
“No. Perché?”
“Perché i cani in Europa vivono al sicuro nelle nostre case”
“E perché non possiamo anche noi vivere al sicuro nelle nostre case?”
“Questa è la politica, amico mio” mi ha risposto il funzionario della Banca Mondiale.
“Manda all’inferno la politica, non m’importa chi comanda qui, se l’Egitto, Israele o l’ANP, noi vogliamo vivere in pace e costruire un futuro per i nostri figli. E’ un anno che non posso andare a Gaza, che è a 25km da qui e sono tre anni che non posso andare al mare con i miei figli, che dista solo 3km da dove siamo seduti ora.”

Un pasticciere di Rafah insiste per offrirci uno dei suoi dolci insieme alla sua visione del problema palestinese: “Il nostro problema è che gli ebrei hanno preso tutta la nostra Palestina, ora viviamo nella Striscia di Gaza che è solo un pezzetto della nostra Palestina. Non abbiamo le case, non abbiamo la libertà, non abbiamo l’acqua, gli ebrei uccidono la gente con le bombe dagli elicotteri. Perché se muoiono gli ebrei a Tel Aviv tutto il mondo s’indigna, ma quando uccidono i musulmani allora è tutto normale?
Noi siamo musulmani perché seguiamo la via che Allah ha tracciato per noi, la via dell’Islam. Gli americani e i britannici dicono a tutto il mondo che Osama bin Laden ha ucciso dei civili innocenti, ma Osama bin Laden non è il nostro problema. Il nostro problema è che vogliamo vivere come voi, come gli altri popoli del mondo. Ma purtroppo in Palestina non abbiamo nulla, vorrei vedere il sorriso sul volto dei miei bambini, non sorridono forse i figli degli ebrei? Degli americani? Degli italiani? Dei francesi?
Perché gli ebrei hanno completamente distrutto Jenin, le strade, le case, tutto? Dov’era il mondo? Dov’erano gli europei? Dov’erano le truppe americane? Solo in Afghanistan? Perché distruggono le nostre case? A Rafah hanno distrutto trecento case in un solo anno!
Qui a Rafah non è rimasto niente, non abbiamo lavoro per la gente, non ci sono scuole per i nostri figli, non possiamo andare a Gaza perché non sappiamo quando potremo ritornare attraverso il check point di Abu Holi, intendo dire che non pretendo di andare al Cairo o a Tel Aviv, ma a Gaza, a 25km da qui!!!
Tutto ciò che desidero è di andare a lavorare tutti i giorni per vivere come voi, ma non possiamo vivere come voi perché il mondo ha ucciso la nostra speranza e ha ucciso il mio paese insieme al mio pensiero. Se ci fosse un conflitto in Francia tutto il mondo vorrebbe aiutare a risolvere quel conflitto. Perché nessuno è venuto a vedere Jenin, perché nessuno viene a vedere Rafah? A vedere gli elicotteri che sparano sui taxi in mezzo alla strada? Dov’è il mondo?
Perché l’America e l’Europa rimangono in silenzio davanti al mio problema? Il vero problema è che i palestinesi vogliono vivere come qualunque altro popolo nel mondo. Vogliamo guardare i mondiali di calcio e divertirci anche noi come voi. Ma hanno preso tutta la mia Palestina, i miei soldi, i miei pensieri, il mio cuore, mi hanno preso tutto. Vogliamo vivere come chiunque altro nel mondo, l’Islam è solo la nostra religione, la via che Allah ha mostrato al suo popolo, per questo seguo la via tracciata da Allah.

legge islamica e nazionalismo
/Maurizio


Più che un’occupazione sembra una vera e propria persecuzione. Inoltre non ho ancora incontrato un palestinese che sia contento del lavoro dell’ANP. Tutti si lamentano che non si sono ottenuti miglioramenti e nemmeno una piccolissima vittoria; i ministri, a detta di coloro con cui parliamo, non servono a nulla perché non hanno libertà di movimento e quindi non possono esercitare pienamente le loro funzioni.
Molti pensano che questo di oggi sia il periodo peggiore dal 1948, perché allora, quando furono espropriati, partirono portando con sé la speranza di poter tornare, un giorno, nella loro terra: oggi non riescono neppure a coltivare quella speranza ma vivono nella consapevolezza che la situazione possa solo peggiorare.
In questo contesto si espande con grande facilità l’integralismo religioso: solo nella zona confinante con il semaforo di Abu Holi, un area di dodici km quadrati chiamata Al Qarara, sono state costruite cinque moschee dall’inizio della seconda Intifada.
In breve; la rivoluzione Kohmeinista della fine degli anni settanta, fece molta impressione nel mondo islamico dove portò una nuova visione dell’Islam. Per tutti gli anni ottanta si andrà sviluppando, in Palestina, l’opera caritatevole e religiosa della Fratellanza Musulmana dal cui agire nasceranno le due formazioni di Hamas e della Jihad Islamica. Israele in quegli anni pensò bene di sostenere la crescita di Hamas che in prospettiva si mostrava ostile alla politica nazionalista di Fatah e degli altri componenti dell’OLP. Oggi chi ha seminato vento, raccoglie tempesta. Sia in Israele, come in Palestina le posizioni religiose si sono sempre più irrigidite. E il Likud è al Governo, mentre la Fratellanza Musulmana controlla con la legge Islamica tutta la striscia di Gaza.
La domanda è la seguente: - Come si concilia la visione nazionalista e secolarizzata dell’ANP con la Sharia, la legge islamica che vige in tutta la striscia di Gaza?
Un funzionario del Medical Relief ha qualche difficoltà a spiegare la situazione, non si possono separare le due cose, ci sono molte pressioni intorno alla popolazione; le speranze di un miglioramento, la volontà di uscire da questa situazione frustrante, tutto questo innervosisce le persone, le fa diventare aggressive, ma così la vita rimane non solo senza speranza ma anche senza valori. La Sharia è in grado di ravvicinare le persone ai valori religiosi e quindi agisce positivamente.
Il direttore del Medical relief spiega che è chiaro a tutti coloro che vivono in Palestina, che noi viviamo sotto l’occupazione diretta dell’esercito israeliano. L’occupazione israeliana, fin dal 1967 incoraggia il movimento musulmano a rafforzarsi contro il movimento palestinese e contro il nazionalismo secolare dell’OLP prima e dell’ANP in seguito. Sono convinto che i regimi arabi, con l’Arabia Saudita in testa, i paesi del Golfo e perfino l’Egitto, sostengono e incoraggiano il movimento musulmano a rafforzarsi contro la sinistra nazionalista, finanziando con grandi quantità di denaro il movimento musulmano contro le sinistre palestinesi. Anche Israele e gli USA li incoraggiano, per questo sono così forti.
La seconda ragione è il fallimento dell’ANP a risolvere i
problemi delle comunità palestinesi negli ultimi otto anni. Inoltre l’azione continua di sostegno dei più deboli che ha praticato il movimento musulmano, gli ha permesso di acquisire conoscenza e potere. Mentre la mancanza di supporto e di finanziamenti da parte delle sinistre di governo per migliorare la vita dei palestinesi hanno causato la perdita del consenso.
Per ritornare ad Israele, tutti devono capire che noi siamo le vittime dell’occupazione israeliana. Non si possono paragonare le due parti, non si possono paragonare le vittime ai carnefici. Dove i palestinesi sono le vittime e gli israeliani sono gli occupanti.
Le leggi internazionali riconoscono l’autodeterminazione dei popoli e quindi il loro diritto a lottare per la propria liberazione. Con tutti i mezzi. Questa è la principale differenza tra le due parti in conflitto in questo paese. E troppo spesso gli europei sembrano non capire questa fondamentale differenza.
Noi siamo le vittime di una occupazione costante da parte degli israeliani. Esistono estremisti nelle nostre comunità, a causa della pressione quotidiana che l’IDF esercita sulla popolazione palestinese, mietendo vittime ogni giorno.

Nasser Hospital
/Maurizio


Parla il Dr. Hader El Gadera, primario del Nasser Hospital di Khan Younis:
“In questo ospedale viviamo un emergenza continua, i nostri chirurghi sono esausti, perché il nostro è l’ospedale di riferimento per tutta la parte meridionale della Striscia di Gaza. Gli scontri a fuoco qui sono quotidiani e riceviamo vittime ogni giorno. E in qualunque momento dobbiamo essere pronti a fronteggiare ogni tipo di emergenza.
Nella Striscia di Gaza siamo assediati dall’esercito israeliano e non abbiamo libertà di movimento, io andavo a Gaza una volta ogni due o tre giorni prima dell’inizio dell’Intifada, per incontrare il ministro della sanità e per altri affari correlati con la mia attività di primario del Nasser Hospital. Oggi posso andare a Gaza una volta ogni due o tre mesi, perché non ho mai la certezza di poter rientrare in tempo nel mio ospedale. Questa è la situazione.
Per quanto riguarda le forniture farmaceutiche e gli altri approvvigionamenti necessari al funzionamento dell’ospedale, dall’inizio dell’Intifada sono diminuite considerevolmente, tuttavia possiamo far fronte alla situazione generale e il nostro ministero della sanità non ci fa mancare il suo appoggio coprendo tutte le forniture di emergenza. Per quanto riguarda i feriti, ne riceviamo ogni giorno, ma non c’è una media standard: un giorno ne abbiamo ricevuti cento, altri giorni due forse tre, dipende dagli eventi.
All’inizio dell’Intifada, quando i ragazzini andavano a tirare pietre al check point di Al Tufah, i militari israeliani risposero con grandi quantità di bombe al gas velenoso che avevano effetti sconosciuti su chi lo respirava. Alcuni avevano le convulsioni, altri battevano la testa contro il muro: anche dopo essere stati ricoverati e trattati con sonniferi, le convulsioni si ripresentavano improvvise. Altri ancora presentavano macchie nere sulla pelle che, nei casi meno gravi, sono sparite dopo alcuni mesi. Ma molti altri sono morti a causa di questi gas. Purtroppo, a tutt’oggi non conosciamo la natura del gas e non abbiamo un antidoto per curare coloro che lo respirano. Il nostro ministero della sanità ha mandato molti campioni di questo gas a diversi laboratori stranieri, ma al momento non abbiamo ricevuto alcuna risposta.
La popolazione vive nella paura, nessuno vive in sicurezza né in libertà, tutte queste cause creano gravi stress nelle fascie più deboli della popolazione, e lo stress causa depressione, e aborti spontanei e altre patologie che affliggono la nostra popolazione.
Nelle ultime settimane ci aspettiamo un’invasione della Striscia di Gaza da un giorno all’altro e la temiamo perché è sotto gli occhi di tutti ciò che sta succedendo nella West Bank, dove hanno chiuso gli ospedali e né feriti né ammalati possono accedere ai servizi sanitari. Così li lasciano morire per strada senza che nessuno possa aiutarli, in quanto l’esercito israeliano impedisce ai gruppi di pronto soccorso di prestare aiuto e cure ai feriti o agli ammalati, anche a causa del coprifuoco. Così viviamo nell’attesa di ciò che può capitarci nel prossimo futuro.
Io non mi occupo di politica perché naturalmente sono concentrato sulle esigenze del mio ospedale. Ma come cittadino comune penso che la soluzione politica a questo conflitto debba essere presa dalla comunità internazionale. Sfortunatamente la comunità internazionale parla di aiuto e di comprensione ma non fa nulla di concreto. Tutti sono concentrati sul problema dei martiri suicidi che si fanno esplodere in mezzo alla popolazione civile israeliana, ma nessuno si domanda perché accade tutto ciò. Come medico, io so bene che per curare una malattia occorre rimuoverne le cause e, una volta rimosse le cause, gli effetti scompaiono. A mio modo di vedere il problema, questa strategia vale anche per la nostra situazione di conflitto.
Abbiamo oltre un milione di abitanti nella Striscia di Gaza, altri due milioni nella West Bank e sette milioni sono all’estero in esilio, molti di loro sono divenuti apolidi e senza una patria riconosciuta. Ora io credo che se si vogliono rimuovere le cause di tanta violenza occorre una soluzione politica e una pace giusta che soddisfi le aspirazioni di libertà e indipendenza del nostro popolo.”

Parla il chirurgo Dr. Salim Saker:
“Noi chirurghi siamo sempre a disposizione per qualsiasi emergenza, grazie a Dio. E spesso lavoriamo 24 ore su 24 per far fronte agli impegni della sala operatoria.
Il problema più difficile da affrontare, per noi qui nella parte meridionale della Striscia di Gaza, è il semaforo di Abu Holi. Spesso abbiamo la necessità di trasferire dei pazienti all’ospedale di Gaza, ma le ambulanze rischiano di rimanere bloccate indefinitamente al semaforo, con grave rischio per la vita dei pazienti.
Come chirurgo ho trattato pazienti con problemi all’arteria femorale, nonostante io non sia specializzato in quella materia, perché purtroppo l’alternativa era di esporli ad un più elevato rischio di morte trasferendoli all’ospedale di Gaza ed esponendoli ad un attesa indefinita al semaforo di Abu Holi. Sono molti i pazienti deceduti a causa di soste prolungate arbitrariamente a quel semaforo.
Per quanto riguarda i bambini, abbiamo avuto una piccola vittima di soli tre mesi di vita, morta in seguito ad un bombardamento israeliano. Inoltre molte madri abortiscono spontaneamente a causa della guerra e i loro figli non possono neppure sentire il profumo della vita. Quando ci sono i bombardamenti io danzo insieme ai miei figli per distrarli dalla paura, ma io sono un medico, non tutti riescono a vincere la paura delle bombe e della morte e, inevitabilmente, la trasmettono anche ai loro figli.”

briciole
09 luglio/Maurizio


Ci infiliamo nella stradina che porta verso la casa dove passeremo la notte, dopo pochi passi iniziano a sparare ma il nostro ospite ci tranquillizza spiegandoci che non sparano a noi ma ai container dell’acqua domestica sopra i tetti delle case. Lo fanno tutti i pomeriggi poco dopo le cinque. Prima o poi gli abitanti devono salire sulla terrazza del tetto a stuccare i buchi con il rischio di essere bersagliati al posto dell’acqua.
Più tardi ci portano a fare un giro lungo la linea di confine con l’insediamento, non ci sentiamo molto tranquilli, da dentro il fortino dell’IDF ci spiano con i binocoli e forse, come al solito, ci fotografano. Tuttavia i nostri accompagnatori sembrano sicuri di sé così ci rilassiamo e li seguiamo.
Una lunga rete di filo spinato separa il territorio palestinese da quello israeliano, al di là del filo si vedono i tetti rossi delle casette immerse tra gli alberi dove abitano i coloni, al di qua del filo i cingoli dei carri armati hanno lasciato i loro segni incontaminati sulla sabbia. Ieri mattina intorno alle dieci quattro tanks hanno scortato un bulldozer enorme che, di fronte ad una ressa di palestinesi attoniti, ha spianato quattromila metri quadri di serre piantati a pomodori e cipolle.
Il ragazzino quindicenne che traduce per noi mi spiega che un giorno stava dando da mangiare ai suoi conigli, proprio vicino alla strada, sotto il fortino israeliano e gli hanno sparato uccidendogli tutti i conigli - non ho avuto paura, qui siamo abituati agli spari, i soldati sparano tutti i giorni anche dentro le case - e mi mostra i fori dei proiettili sulle case vicine che guardano la linea del filo spinato. Poi aggiunge che ha perso due amici, uno si è fatto esplodere dalla rabbia vicino ad Al Tufah, l’altro è morto combattendo.
Nel frattempo raggiungiamo un area più povera delle altre che abbiamo attraversato, i rifugi per gli animali si mescolano alle povere case dove vivono un migliaio di persone. Ci mostrano la pompa dell’acqua dolce e la cisterna che fornisce acqua a tutto il villaggio. I bulldozer l’hanno semidistrutta, i segni dei proiettili sulla cisterna sono stati stuccati, lì accanto un casotto che contiene la pompa e il compressore è ancora in piedi, mentre l’altro casotto che sorgeva lì affianco è stato demolito.
Ci sediamo con alcuni anziani nel cerchio tradizionale della cultura beduina, intorno al quale si socializza e si sorseggia te o caffè beduino al cardamono. Non riusciamo a comunicare bene perché nessuno parla inglese, tuttavia il nostro ospite ci fa capire che vorrebbero parlare di politica e, a fatica, ci traduce le parole di uno degli anziani, il cui pensiero politico si basa sul seguente concetto: Bush e Sharon sono come due amanti e Arafat è il loro figliolo.
Più in là un’asina incinta si rotola nella sabbia mentre uno sciame di mosche pasteggia sul suo muso. I bambini più piccoli hanno le pancie gonfie, mentre i più grandicelli giocano a calcio in un campetto di sabbia a circa cinquanta metri dal fortino dell’IDF con relativa bandiera che sventola nel cielo terso.
La notte passa tranquilla.

polvere
10 luglio/Licio


Tra la solita polvere e il sole cocente già la mattina presto, qui la natura non si risparmia, e con il sudore ti crea addosso un bell’impasto appiccicaticcio, passano le giornate di ordinaria violenza. I pacifisti a volte hanno bizzarre idee, ora si sono messi in testa che andare a dormire nelle case di poveri cristi che vivono vicino alle zone israeliane possa in qualche modo dissuadere i militari dal ripetere le loro quotidiane angherie -possono chiamarsi così i colpi di fucile nei bidoni dell’acqua, le incursioni notturne nelle case, gli arresti arbitrari, la distruzione di case e coltivazioni con enormi bulldozer protetti da carri armati.
Forse non è niente di nuovo rispetto a quello che già si sa, ma cosa potrebbe esserci di nuovo in questa terra: la libertà, la fine dell’occupazione. Ebbene, questa bizzarra idea pare funzionare, almeno un pochino. Se ci sono questi osservatori stranieri un po’ scalcinati, senza alcuna investitura ufficiale, almeno per quella notte, quella famiglia e tutto il circondario dormono tranquilli, almeno così pare. E allora viene da chiedersi, perché mai l’ONU non è qui. Quale potere può mai avere una nazione sull’insieme di tutte le altre. Ma che razza di storia è questa.
Qui c’è un posto che si chiama Striscia di Gaza, completamente circondato dall’esercito israeliano. Non si entra e non si esce se non quando lo decidono loro. All’interno ci sono continue incursioni finalizzate a far posto a nuovi insediamenti di coloni, a erodere il già precario equilibrio psichico della gente, senza il benché minimo rispetto dei diritti umani. Gli abitanti vivono prigionieri avendo perso ormai ogni speranza e nessuno muove un dito.
E’ in corso un genocidio, noi ne siamo testimoni oculari, capaci di fare quel poco che è nelle nostre possibilità. Certo è che la sola testimonianza non cambierà la storia ... almeno questa.

i corpi civili di pace
/Licio


Tanto per cominciare direi che ci vorrebbero innanzitutto degli anticorpi per la guerra e per ogni tipo di violenza che si possa generare, perché ogni esperienza di degrado e discriminazione produce un controeffetto per cui c’e’ sempre qualcuno più’ debole su cui sfogare le proprie frustrazioni, personali o collettive che siano.
Ed e’ proprio mentre faccio queste considerazioni che l’ennesimo volo di caccia israeliani sulla nostra testa mi riporta alla realtà’ di un pericolo imminente. Del resto l’altra sera si sono alzati in volo elicotteri da combattimento ed hanno bombardato una zona alla periferia della città’ perché, questo battevano le agenzie, li’ stava fino a cinque mesi fa un presunto terrorista. Risultato: sette feriti, case distrutte e un nuovo pieno di odio e rancore che in qualche modo si sfogherà, dando il pretesto per un nuovo massacro e così via fino alla soluzione finale.
Del resto, qual e’ il limite raggiungibile? Fino a quando un esercito invasore può spingersi nel mortificare e uccidere un popolo invaso, prima che qualcuno almeno si scandalizzi? E quanta gente e’ necessario che si scandalizzi prima che la riprovazione per quanto sta accadendo lasci spazio ad un minimo di speranza? E’ possibile che nessuno riesca ad interporsi fra l’aggressore e l’aggredito? Qua ce lo chiedono: ma voi, che siete venuti a fare? Qual e’ il vostro progetto?
Noi, nella nostra impotenza, ci guardiamo negli occhi, aspettiamo che qualcuno parli e poi cominciamo a balbettare: condividere? Osservare e riportare come stanno veramente le cose? Allora siamo osservatori internazionali? Siamo civili ... siamo i corpi civili di pace. Siamo noi, finalmente li abbiamo costituiti. Ma a ben pensare e’ da un po’ che ci sono. Il fatto e’ che forse non hanno peso politico, un po’ come la pace, che in realtà conta poco, perché non rende, non produce e in questo contesto economico non può avere quotazioni in borsa. E allora i corpi civili di pace prima devono avere una quotazione almeno in politica e poi possono cominciare a produrre effetti concreti. Anche perché, parliamoci chiaro, anche noi abbiamo bisogno a volte di esporre simboli che abbiano un effettivo peso e poter affermare con autorevolezza: questo territorio e’ sotto il nostro controllo.
Certo che di territori liberi ce n’e’ rimasti ben pochi ... qui poi nessuno.

ho visto …
/Licio, Pierangela


per onorare un impegno verso tutti coloro che ci hanno chiesto di dire al mondo ciò che succede da ‘quelle parti’:
ho visto
incredulità, rabbia, dolore, dolcezza, speranza, disperazione, pietà, risentimento, odio e amore, in un oblio di distruzione e di incontenibile voglia di vivere.
ho visto
bambini girare a ‘branchi’ per le strade, tanto esasperati. Soli e poveri, così abituati alla violenza da essere essi stessi pericolosi.
ho visto
estrema povertà, umiliazione e sofferenza dalla parte palestinese, benessere e arroganza da quella israeliana.
ho visto
una ruspa rimuovere cumuli di rifiuti, scortata e protetta da pacifisti internazionali perché senza la loro presenza i soldati israeliani avrebbero sparato sull’operaio che lavorava.
ho visto
la pista dell’ Aereoporto di Gaza distrutta dai carri armati e dai buldozers israeliani per impedire l’atterraggio e il decollo degli aerei.
ho visto
l’acqua e la luce tolta per ore e ore, nelle case dei palestinesi, dagli israeliani che controllano pompe e centrali.
ho visto
intere famiglie abitare da più di un anno e mezzo sotto le tende perché le loro case sono state distrutte e loro non hanno altro posto che quello.
ho visto
un taxista ringraziare calorosamente per la presenza di pacifisti italiani in Palestina .
ho sentito
dagli altoparlanti, posti in prossimità della linea di demarcazione tra la zona palestinese e quella dei coloni israeliani, annunciare l’inizio del coprifuoco, erano circa le18.00, e minacciare di morte chiunque venisse trovato per la strada.

comunicato
24 luglio/Operazione Colomba


L’attacco israeliano della scorsa notte su Gaza aveva l’obiettivo di uccidere il leader militare di Hamas, Salah Shehade. L’esercito israeliano ha compiuto la sua missione. I nostri volontari presenti nell’area di Gaza da alcuni mesi con progetti nonviolenti di interposizione, protezione, accompagnamento e raccolta denunce però ci raccontano che sul campo, sotto le macerie delle case abbattute dalle bombe sganciate dagli F-16, sono rimaste 15 persone tra cui 8 bambini e 140 feriti.
Oggi, andando a visitare i feriti all’ospedale hanno trovato ancora una volta molti bambini, molti dei quali rimasti orfani. Siamo profondamente addolorati per l’ennesimo atto irresponsabile e di inaudita violenza compiuto da uno Stato che si definisce democratico. Siamo agghiacciati dalle dichiarazioni del primo ministro Ariel Sharon che giudica la missione un successo. Siamo agghiacciati perché siamo sicuri che questo atto favorirà le organizzazioni estremiste palestinesi che sicuramente continueranno a mietere vittime tra i civili israeliani.
Questo tipo di azioni non fanno altro che togliere spazio a quelle organizzazioni che come noi si oppongono al terrorismo stando anche dentro la società palestinese. Subito dopo l’attacco della scorsa notte la rabbia dei palestinesi è scoppiata, molte organizzazioni estremiste hanno incitato alla rivolta la popolazione, e probabilmente tutta questa rabbia sarà strumentalizzata dalle organizzazioni terroriste per arruolare sempre più giovani che un giorno andranno a farsi saltare nelle vie di Tel Aviv o di Gerusalemme.
La prima vittima dell’occupazione israeliana è da tempo la stessa società civile israeliana. Con questi atti Israele non si sta difendendo ma ponendo le basi per una nuova ondata di terrore che lo investirà. Dopo mesi, durante i quali i nostri volontari hanno condiviso le sofferenze del popolo palestinese ma anche ascoltato le ragioni israeliane, siamo sempre più convinti che l’unica via di uscita per il conflitto medio orientale sia una via non armata. Purtroppo sempre più israeliani e palestinesi si stanno accorgendo che il motto dei gruppi pacifisti israeliani risponde a verità: l’occupazione uccide entrambi i popoli.
Gli Stati Uniti e la diplomazia internazionale devono uscire immediatamente da un silenzio colpevole e fare pressioni al governo Israeliano affinché si ritiri dai territori, ponendo così le basi per aprire un dialogo e togliendo così forza ai gruppi estremisti palestinesi. Lo stato di Israele incomincerà a difendere i suoi confini e a dare sicurezza ai suoi cittadini solo quando il suo esercito si ritirerà dai territori occupati.

Asmaar è morta
01 agosto/Michele, Francesco, Eva


Giovedì 1 agosto, alle 19.30, in tre eravamo in compagnia di Mohammed, nostro ospite di quella notte. Ci stavamo trasferendo a piedi dall'abitazione dei genitori di Mohammed alla sua. All'improvviso una raffica di mitra investe la zona in cui ci troviamo. Immediatamente ci buttiamo a terra dietro un cumulo di macerie, da dove abbiamo modo di vedere ad altezza uomo la scia luminosa dei proiettili traccianti.
Nessuna provocazione era stata fatta ne ci sono stati fuochi di risposta. La raffica si è dunque esaurita in una manciata di secondi. Mohammed ha fatto capire con un gesto, a noi tre terrorizzati, che il pericolo era passato. Di nuovo in cammino verso la sua abitazione dopo qualche minuto vediamo passare un'ambulanza. Passata la notte da Mohammed veniamo a sapere che la stessa raffica che ci ha sfiorato ha ucciso una bambina.
Le notizie sono diverse e a volte contrastanti; dunque impieghiamo tutta la giornata per ricostruire la dinamica di questo assassinio. Solo attraverso la visita ai genitori della bimba al suo funerale riusciamo a capire: Asmaar, 8 anni, giocava insieme ad altri bambini dietro casa sua. La raffica l'ha raggiunta in più punti del corpo, una raffica uguale alle tante che quotidianamente l’esercito israeliano spara sui civili, senza motivo alcuno che non sia terrorizzare ed uccidere.
Asmaar è morta assassinata senza un perché da un soldato israeliano che quasi sicuramente rimarrà impunito per questo folle crimine. Sappiamo, perché testimoni diretti, l'ora esatta e il punto di partenza della raffica ma questo non servirà a fare giustizia ne ad impedire che l'assassino torni a fare servizio nella stessa torretta.

Rafah e’ isolata
08 agosto/Andrea


Ci troviamo a Khan Younis, da ieri mattina circa un centinaio di carri armati israeliani si sono dispiegati lungo il confine con l'Egitto e attorno alla città' di Rafah. Tutte le strade di accesso sono bloccate, compresa la strada principale che parte da Khan Younis. Chiusa anche la frontiera con l'Egitto. Sono ore di attesa, i preparativi militari fanno pensare che l'ingresso dell'esercito israeliano dentro Rafah sia solo questione di tempo, nessuno è in grado di prevedere se e quando questo avverrà ne se questo coinvolgerà anche la città di Khan Younis.
Per ora la situazione e' stazionaria e da Rafah giungono solo notizie di sporadiche e isolate raffiche di mitra.
Scriviamo questo articolo nella speranza che quello che sta succedendo qua non rimanga nel silenzio e nell'indifferenza della comunità internazionale; e nella speranza di non dovere -nei prossimi giorni- scrivere altri comunicati in cui descrivere la tragica cronaca di un'invasione militare .
E' doveroso ricordare pero' anche la quotidianità di questo conflitto che quando non raggiunge l'interesse dei media continua a mietere vittime, creare povertà e alimentare la spirale dell'odio che appare ogni giorno sempre più difficile da fermare.
Il 42 per cento dei palestinesi che vivono nei territori occupati sono in condizioni di malnutrizione, secondo uno studio fatto da agenzie internazionali. Nonostante questa situazione di palese ingiustizia, dovuta non a cause naturali o a sottosviluppo culturale o economico, ma a una lucida e mirata politica di apartheid e di occupazione militare- l'esercito israeliano continua a mettere in atto le scelte del governo Sharon: le coltivazioni distrutte dai bulldozer, che escono dai recinti dell'insediamento e sradicano ulivi, abbattono serre, distruggono pomodori. Le case demolite, poichè considerate troppo vicine agli insediamenti, alle torrette militari, alla strada dei coloni. E' necessaria infatti una fascia di sicurezza che separi i palestinesi dagli israeliani, il problema è che sono gli israeliani che decidono dove costruire e allargarsi, e di conseguenza abbattere tutto ciò che da fastidio.
Qualche giorno fa è morta una bambina di 8 anni, una raffica è partita da una torretta militare e l'ha colpita in pieno mentre giocava in strada. Non c'era stata nessuna provocazione da parte palestinese, lo sappiamo perché alcuni di noi erano li' presenti e si sono trovati sotto il fuoco della stessa raffica. Ma in quel posto, tutte le sere, ad una determinata ora, dalla torretta iniziano a sparare. Non si sa dove colpiranno di preciso.
Fa tutto parte di una strategia di guerra psicologica che a lungo andare ottiene gli stessi effetti di un annientamento fisico del "nemico", costringendo la gente ad andarsene per salvare la propria vita e quella dei propri figli, ma è una strategia che ha il vantaggio di essere invisibile e silenziosa, così che si possa salvaguardare la propria immagine di fronte al resto del mondo.
E' per questo che è estremamente importante una presenza internazionale a fianco della gente; per smascherare quella falsità che c'è dietro ogni conflitto, per gridare che non esistono guerre giuste ne tantomeno guerre pulite, e per condividere la vita di quelle persone che hanno la sfortuna di trovarsi in mezzo senza averlo scelto.

Al Qarara
09 agosto/Andrea


L'altra notte a Qarara sono entrati i carri armati israeliani. Circa cinquanta persone sono state arrestate. Lo veniamo a sapere la mattina dopo, da un amico che alla domanda "come stai?" ci ha risposto "Bene, non sono stato arrestato". E' stata un'azione lampo, i mezzi militari sono entrati verso le due di notte fino nel centro del villaggio, sorprendendo le famiglie nel sonno e arrestando a casaccio, senza un obiettivo preciso.
Tutti sono stati rilasciati nel corso della giornata. Probabilmente e' stata solo una dimostrazione di forza, un tentativo piuttosto originale di scoraggiare eventuali "strane idee". I rilasciati si incontrano per strada e si scambiano i reciproci racconti; non capiamo l'arabo, ma si avverte il tono sarcastico e ironico con cui i palestinesi sono ormai abituati a parlare delle angherie che subiscono. Un meccanismo di difesa -crediamo- per evitare tutte le volte di mangiarsi il fegato per la rabbia e l'umiliazione.
La notte successiva abbiamo dormito a Qarara da una famiglia. Niente di nuovo fin qui, visto che tutte le notti siamo in una famiglia diversa. Questa volta però siamo rimasti più colpiti del solito. Camminiamo per due chilometri per raggiungere il gruppetto di case un po' isolato dal resto del villaggio, due chilometri nella direzione della strada dei coloni che congiunge Israele agli insediamenti nella striscia di Gaza.
Quando arriviamo ci rendiamo conto di essere molto vicini alla strada, e i nostri amici locali ce lo confermano, portandoci dietro la casa. La strada dei coloni è a non più di venti metri. Le auto lussuose e i mezzi militari sfrecciano su questo nastro d'asfalto liscio e perfetto che stona tantissimo con il paesaggio circostante, fatto di povere case, stradine sterrate, campi incolti e distrutti dal passaggio dei carri armati. I soliti due mondi paralleli, che si intersecano senza mai incontrarsi. Due mondi di cui uno, quello israeliano, si impone prepotentemente sull'altro, quello palestinese, attraverso i bulldozer, le postazioni militari... una "erosione" lenta ma inesorabile che la politica del governo Sharon sta attuando.
Ci sediamo all'aperto, in casa fa troppo caldo. Tutti i vicini di casa si riuniscono attorno alla candela accesa. Si scherza e si affrontano cose serie. Ci sono i grandi e i bambini, e il tempo passa. I blindati e i carri armati dietro le orecchie fanno avanti e indietro dalla base militare e il passaggio che usano è rasente al muro di cinta della casa dove siamo ospiti.
Ci mostrano i panni stesi: di giorno non li possono stendere a causa della polvere che alzano i cingoli dei blindati, di notte è un po' meglio. A un certo punto si sente un urlo, incomprensibile per noi italiani, ma dal tono sembra un ordine-minaccia. E' il soldatino israeliano di guardia alla torretta. Scopriamo che si trova anche lui a poche decine di metri di distanza dalla casa. Ordina-minaccia di spegnere la candela e di rientrare in casa. C'è il coprifuoco, e noi lo stiamo violando! Seguono momenti di attesa al buio, si sente il rumore di una jeep che parte e si dirige verso di noi. Poi passa e se ne va. Si entra in casa nella stanza dove dormiremo, la finestra è sigillata e ci spiegano che non la possono aprire neanche di giorno, perché si affaccia sulla torretta militare.
Come si fa a vivere così? Con questa costante presenza, i fucili puntati, i tuoi figli che giocano fuori. Ma soprattutto ci chiediamo come si fa a mantenere questo insopportabile stato di cose, a non rendersi conto, da parte israeliana, della immensa ingiustizia che si compie e si continua a imporre a questa gente. E' umiliante vivere così senza poter decidere niente, è logorante vedere che ogni giorno è peggio del precedente, e che il futuro non riserva niente di nuovo per te e per i tuoi figli, perché tutto va avanti nel silenzio, con la complicità del mondo, inesorabilmente.
Dove prima c'erano i campi coltivati ora c'è solo la sabbia e i solchi dei cingolati, dove prima c'erano le palme e gli ulivi, ora sono rimasti solo alcuni tronchi mozzati e abbandonati. Dove c'erano case ora ci sono macerie. E adesso c'è questa strada nuova, moderna e illuminata, dall'asfalto liscio che passa sopra quella che prima era la tua terra e la tua casa, e che è ben protetta dal filo spinato e dal mirino sempre puntato delle mitragliatrici, per impedire che questi due mondi sovrapposti si incontrino.

lettera ad Asmaar
10 agosto/Francesco


Trucidata il 1° agosto scorso da un soldato israeliano davanti all'uscio di casa.

Cara Asmaar,
ti conosco da meno di una settimana ma già posso dire che mi piaci. Quando sono stato in Congo ho visto molti bambini e bambine, ma purtroppo sono riuscito a conoscerne pochissimi. La povertà creava una distanza enorme tra me e loro. La mia condizione di privilegiato occidentale non mi ha mai permesso di conoscerli a fondo. Invece sento che con te è diverso. Non che tu non sia povera: tutt'altro! Ma la tua povertà non è una condizione di lontananza fra noi due. C'e' come un'intesa tra di noi. Gli adulti qui nella Striscia di Gaza sono sempre contenti di sapere che siamo italiani. E' come un "lascia passare" che ci permette di entrare nel vostro mondo, nel dolore che provate per la vostra terra rubata, per le vostre case violate, per i tuoi giochi interrotti dai soldati... E forse questo "passe par tout" lo conosci anche tu, che hai solo 9 anni ma già mi hai dato il permesso di entrare a piccoli passi nella tua vita.
E' bello vedere i bambini come te giocare nelle strade di Khan Younis e di Qarara: sembra che basti pochissimo a farvi divertire. Se poi vedete uno di noi italiani subito ci venite incontro dicendo "Shalom! au ariu'?". In Italia dovrò giurarlo che dei bambini palestinesi ci salutano dicendo "pace" nella lingua dei nemici dei loro genitori: nessuno mi crederà! Mi hanno spiegato che voi ragazzini confondete facilmente gli israeliani con gli stranieri in genere e quindi salutate ogni forestiero col saluto ebraico. I paradossi della violenza e l'innocenza di voi bambini: che dolce dissonanza! Sai dalla settimana scorsa, quando io, Michele e mia moglie Eva abbiamo visto quegli spari passarci sopra la testa, non mi do pace. Non riesco a credere che quei proiettili, che mi hanno così spaventato, ti hanno uccisa. Vedere degli spari è un po' come vedere un film di guerra: all'inizio non fa tanta paura. Non sembra vero. Poi vedi gli altri intorno a te ripararsi dietro qualcosa allora capisci che la faccenda è seria. Anch'io mi sono nascosto dietro un cumulo di macerie e sabbia, insieme a Eva... abbiamo avuto paura. Ed ora siamo vivi.
Probabilmente se qualcuno di noi fosse morto il nostro governo avrebbe fatto "un gran casino diplomatico" come solo noi grandi sappiamo fare! E forse il criminale che da quella torretta ti ha ucciso ora sarebbe in prigione o in una specie di castigo per gli adulti. Ma tu, non avendo uno Stato, non hai neanche un governo che ti possa difendere. Mi dispiace tanto sai che tu sia morta, l'abbiamo detto anche ai tuoi genitori al tuo funerale. La mamma era giù, ma il babbo e' stato molto forte e le diceva parole di conforto. C'era un sacco di gente, soprattutto anziani e bambini, tutti vestiti bene. Ci hanno offerto datteri e caffè.
E' stato al tuo funerale, la settimana scorsa, che ti ho visto per la prima volta. Il papà mi ha dato una foto di te in un piccolo manifesto in cui sei ritratta davanti ad una moschea. Sei diventata famosa sai? Quel manifesto e' appeso su molte vie di Qarara e la gente ti chiama "martire". Oggi l'ho visto con Eva dal taxi che ci riportava a casa dopo una notte passata in una famiglia di Qarara, che vive davanti agli insediamenti israeliani. Ci sono tantissimi altri manifesti in città. Alcuni ritraggono giovani armati, altri mostrano un volto davanti ad una moschea e alla bandiera della Palestina.
Non ti preoccupare non credo che i grandi ti celebreranno come celebrano i kamikaze o gli altri "eroi"... tu sei solo una bambina e per giunta non hai ucciso nessuno. Ma credo che per questo avrai un posto importante nel mio cuore. Sai vorrei proprio che si facesse giustizia circa quel soldato che ti ha ucciso. In fondo conosco l'ora e il posto e sono stato testimone, insieme ad altri italiani, degli spari che partivano dalla torretta che già altre volte abbiamo visitato. Mi hanno detto che c'è un'associazione israeliana a cui mi posso rivolgere, ma sarà difficile che riesca a fare giustizia... i militari sono protetti da mille armature. Mentre tu avevi solo il tuo corpo. Ma io ci voglio provare lo stesso. Andrò da questa associazione e parlerò loro di te e di come sei morta. Credo che la nostra amicizia continuerà per molto tempo.
Nell'attesa di farti visita un giorno di persona ti mando un grande abbraccio

buona fortuna Ahmad
/Alex


Questa notte tocca a me e a Lorenzo passare la notte fuori casa. Continua ad aleggiare nell'aria qualche cosa di strano e nel pomeriggio dall'Italia ci comunicano che le Nazioni Unite hanno spedito un fax circolare alle organizzazioni non governative che lavorano qui intimando agli operatori di ritirarsi dalle zone in prossimità dei distretti di Khan Younis e Gaza.
Viene rinviato il viaggio a Gerusalemme di Andrea che voleva riprendere alcuni contatti con la società civile israeliana in modo da poter completare il senso della nostra presenza qui in Medio Oriente, presenza che vuole essere un tentativo diverso di approcciarsi al conflitto. E' indispensabile svincolarsi dalla logica che vuole la ragione o da una parte o dall'altra in una visione della realtà deformata che non lascia spiragli alle sfumature.
Noi rivendichiamo il diritto di non schierarci, se non contro le ingiustizie. La nostra vuole essere la testimonianza di chi non sta ne dalla parte dei militari ne dalla parte dei terroristi ma di chi vuole essere a fianco delle vittime dell'esercito della stella di David allo stesso modo in cui sta dalla parte di chi è vittima della follia cieca degli attentati suicidi.
Ci avviamo con il taxi verso la casa dove saremo ospitati. Ci accoglie Ahmad che ci aiuta a contrattare il prezzo della corsa. Lui parla il russo e per me è strano poter parlare questa lingua in questa terra. Mi ritornano in mente molte storie lette, storie che narrano dell'emigrazione dei sovietici verso questa regione, gente che fuggiva durante gli anni del regime per cercare ciò che l'uomo cerca da sempre: terra e libertà.
Divago con la mente mentre parlo con Ahmad mentre lui mi racconta di quando quindici anni fa studiava all'università Ucraina di Kiev, e di quell'anno in cui dopo gli studi si è fermato in Ucraina ad insegnare. Ahmad ora manda avanti una piccola bottega che si affaccia su una strada battuta spesso dai carri armati e dai soldati israeliani, discendenti di chi un tempo, figlio della diaspora, sognava una terra in cui vivere in pace. Discendenti di chi un tempo fu oppresso ed ora lascia opprimere perché senza l'esercizio della ragione e della memoria nessuno è vaccinato e ciascuno di noi è un potenziale carnefice.
E' bello parlare con Ahmad, io e Lorenzo ci sentiamo accolti con calore. Chiacchieriamo un po' seduti fuori dalla sua bottega e quando comincia a fare buio spegne le luci e chiude il portone del negozio. Tutti ci avviamo verso casa sua. Ci sediamo in cerchio e mi rendo conto che siamo in parecchi: Ahmad ci presenta a tutti i suoi amici e parenti mentre andiamo avanti a capirci con una accozzaglia di idiomi che comprende inglese, russo, italiano, arabo e perché no, anche qualche parola di dialetto trentino e romagnolo. Fumiamo i narghilé, scisha in arabo, preparati dalla sapienti mani di questa gente e piano piano emergono le storie delle varie persone. C'è chi fa il contadino, chi l'allevatore, chi il muratore. C'è chi ora è disoccupato perché prima lavorava in Israele.
Si spengono le luci perché va via la corrente elettrica e Ahmad mi spiega che sono "gli israeliani" ad aprire e chiudere a proprio piacimento. La luce come le frontiere. Si parla di molte cose come si fa tra vecchi amici. Si parla di politica, di calcio, di loro che non mangiano il maiale e di noi che adoriamo il prosciutto, si parla di macchine italiane che sono molto apprezzate e di quelle tedesche che spesso sono belle ma poco durevoli. Si parla del chek-point di Qarara e dei soldati che la notte entrano nella via e bussano alle porte fiondandosi nelle case di chi esce ad aprire, spaccando tutto e arrestando la gente per portarla al chek point ed interrogarla.
In lontananza sentiamo delle raffiche di mitra e dei colpi sordi, probabilmente di mortaio. Ahmad dice qualche cosa per tranquillizzarci. Gli chiedo che cosa ne pensi della guerra e mentre gli rivolgo la domanda mi rendo conto di quanto sia stupida. Mi pare di star rovinando tutto vestendo i panni del reporter indiscreto ed impassibile che fotografa i bimbi che piangono per la morte dei genitori che sono rimasti sotto le macerie della loro casa abbattuta da un missile offrendo poi qualche soldo di mancia. Mi sento stupido e la stessa cosa la provo del resto quando tiro fuori la macchina fotografica per scattare. Mi sento un idiota ma pian piano mi rendo conto che Ahmad è felice di poter raccontare a qualcuno di straniero quello che lui vive tutti i giorni.
Sostiene che le guerre passano sempre sopra il volere della gente perché sono le leadership a sostenerle. Non gli americani, non gli israeliani ma i loro presidenti. La gente ama fumare il narghilè, raccontarsi le storie, giocare a carte e lavorare in pace, niente di meno e niente di più. L'indomani ci mostra la campagna della sua famiglia, una distesa di terra enorme, palme cariche di datteri che solleticano il cielo e piante di fichi, di melograni, di limoni, di arance. Una serra di pomodori e delle piante di granturco. Tutta la terra è irrigata da una canalizzazione superficiale in plastica che attiva delle girandole pescando l'acqua da delle vasche artificiali riempite da un pozzo che penetra nel terreno per più di quaranta metri.
Questa terra mi affascina per la perfezione con la quale è lavorata. Nulla è fuori posto. Tutto sembra procedere con armonia ed il tempo sembra trascorrere più lentamente. Ripenso a ciò che per anni ha rasentato i contorni dell'utopia: terra e libertà. Qualcuno potrebbe pensare che Ahmad sia una persona ricca ma qui il concetto di ricchezza è abbastanza aleatorio. La strada dei coloni è molto vicina. Il chek-point è molto vicino. Ripenso a quei motivi di sicurezza e a quel campo di peperoni e melanzane che l'altro giorno un bulldozer stava ricoprendo perché troppo vicino ad un insediamento di coloni...

Buona fortuna Ahmad

due bambini
15 agosto/Alex


Aiman Basim Fares, di 5 anni, è stato ucciso da un proiettile di carro armato sparato dal vicino insediamenti di Gush Katif, a ridosso della città di Khan Yunis. Intorno alle 18.00 di giovedì Aiman si trovava con i suoi genitori ed alcuni parenti in un campo coltivato nella zona di Satar, a nord della città, a poche centinaia di metri dall'insediamento. Secondo i testimoni, il colpo di cannone è partito in risposta alla provocazione di un ragazzino che ha tirato delle pietre contro il mezzo blindato. Nell'assassinio è rimasto ferito alla gamba destra anche il padre del bimbo, che si trova tutt'ora all’ospedale in gravi condizioni.
La sera dello stesso giorno, nella stessa zona, un altro bambino, Mohammed Taisir Fares, di 6 anni, è rimasto gravemente ferito dall'esplosione di un'altro colpo partito dall'insediamento mentre giocava nel cortile del nonno materno. Ora si trova nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Nasser di Khan Younis, in condizioni critiche. Ha perso l'indice e il medio della mano destra, il piede destro e' gravemente ferito e ha il corpo completamente trafitto dalle schegge. I medici sostengono di dover intervenire con numerose operazioni chirurgiche al termine della fase critica che sta attraversando il bambino.
Episodi di questo genere sono all'ordine del giorno lungo tutta la linea che separa l'insediamento di Gush Katif dal resto dei territori palestinesi. Recandoci a visitare le famiglie che vivono sulla linea di fuoco delle torrette israeliane, siamo stati testimoni della pericolosa e inaccettabile situazione in cui sono costretti a vivere migliaia di civili palestinesi presi di mira quotidianamente dalle raffiche e dalle cannonate sparate dai militari.
I proiettili perforano le pareti delle case penetrando all'interno delle abitazioni, quasi sempre i colpi partono senza alcun tipo di precedente provocazione da parte palestinese.

guerra e oasi
16 agosto/Alex


La settimana scorsa questa città è stata bombardata. Non per finta. Non per gioco. Un pilota dell'aviazione israeliana ha inquadrato nel mirino del lanciamissili l'obiettivo ed ha fatto fuoco contro un'abitazione civile, non sapendo quali sarebbero stati gli effetti del suo premere quel tasto. L'ordine, questo è chiaro, non può essere discusso. Questo avrà pensato anche chi sganciò le atomiche su Hiroshima o su Nagasaki, sapendo di celare la propria responsabilità dietro alla presunta necessità di rispettare le disposizioni senza mai obiettare, senza mai ragionare con la propria testa, certo di star facendo la cosa giusta perché sissignore, questo è ovvio, gli ordini non si discutono.
Da ragazzino adoravo i film di guerra. Ricordo ancora la faccia di mia madre quando, poco più che infante, le dissi che da grande avrei voluto fare il soldato. Molti di noi sono cresciuti col mito del marines che lotta contro le ingiustizie. La guerra è stata portata all'interno delle nostre famiglie da programmi televisivi che hanno fatto di noi spettatori passivi di abominevoli falsità fatte di guerre del bene contro il male che piano piano ci hanno vaccinato alla sofferenza facendoci spesso confondere la realtà con la finzione, le bombe dei telegiornali con quelle dei marines di Holliwood che combattono contro il nemico di turno della libertà.
Nelle pellicole il fine ha sempre giustificato i mezzi, prima nella lotta contro il comunismo, oggi nella lotta contro il terrorismo. Ed in nome del bene contro il male, oggi come ieri, nella pellicola come nella realtà, l'essenza non cambia e i grandi crimini contro l'uomo vengono spacciati come necessari per raggiungere giustizia e libertà.
Gaza è una città che ha imparato a convivere con la guerra. Io che sono cresciuto guardandola in TV non ho imparato a farlo. E' strano vedere i semafori coperti dalle barricate di terra e da sacchi di sabbia e vedere dai finestrini del taxi le macerie degli edifici bombardati. Pensare che una notte di pochi giorni fa qualcuno da un elicottero ha schiacciato un pulsante ed ora quel qualcuno ha qualche merito da annoverare nella sua carriera. E' strano pensare che gli abitanti di Gaza da annoverare hanno invece due feriti in più all'ospedale e due in più al cimitero.
Cammino per le strade della città pensando a tutto questo mentre un autobus passa per la strada strombazzando. Fuori dal pullman sventolano le bandiere nere di Hamas. Una notizia che ho letto poco fa su un dispaccio di agenzia comunica che la lotta del gruppo armato non cesserà fintantochè non terminerà l'occupazione, dato che il popolo palestinese ha il diritto di resistere all'invasione. I bambini che sono sul pullman si sporgono per salutarci dato che gli stranieri da queste parti sono sempre accolti con felicità soprattutto dai più piccoli. Continuo ad osservare e tra tutti i ragazzini non posso fare a meno di notarne uno, l'unico che dal finestrino aperto mi guarda con ostilità e serio ed inequivocabile mi fissa con il braccio teso ed il pugno stretto con il pollice rivolto verso il basso.
Ripenso così ai campi estivi, ai numerosi centri di animazione sul mare che si vedono percorrendo la strada che collega il nord con il sud della striscia di Gaza, centri dove sventolano le bandiere nere di Hamas. Qualcuno, prima di venire qui, mi ha raccontato di quanto poco denaro venga investito per l'educazione dei bambini in rapporto alle esigenze. La povertà è molto marcata ed i bimbi sono spesso quelli che più risentono di queste deficienze. Così le organizzazioni estremiste hanno la possibilità di radicarsi sul territorio, diffondendo il loro pensiero, agendo proprio su chi è più soggetto alla precarietà. Chi non avrebbe altra possibilità viene facilmente adescato da questa gente ed educato secondo la mentalità di questi gruppi che fanno leva sulla povertà per perseguire i propri programmi di propaganda, indottrinando i bambini secondo il proprio pensiero.
Ho negli occhi lo sguardo di quel bimbo con il pollice abbassato quando arrivo nel centro di rieducazione con il quale siamo in contatto. Una delle cose che più mi ha colpito quando sono stato in Chiapas, due anni fa, è stato rendermi conto di quanto la guerra venga somatizzata dai ragazzini. Ogni volta che un bimbo aveva la possibilità di disegnare, esprimeva tutto il dramma che la guerra porta con se disegnando missili, fucili, carri armati, elicotteri da combattimento e cannoni che sparano sulla gente. I soggetti preferiti dei bimbi di guerra, quelli del Chiapas come quelli di Gaza. Triste realtà di questo mondo moderno. Ma in mezzo a tanto odio c'è chi lavora per contrastare questo stato delle cose.
A Gaza fortunatamente c'è un oasi in mezzo al deserto, un oasi in cui ho incontrato persone molto motivate, gente che per una manciata di denaro tenta di fare l'esatto contrario di ciò che Hamas vuole. Un centro dove i ragazzini vengono istruiti al rispetto dei diritti umani e viene insegnato loro a ragionare con la propria testa, passo importantissimo nell'educazione. Un posto, se posso usare questa parola, rivoluzionario, che tenta di insegnare quelli che sono i diritti fondamentali della persona umana, portando avanti una sensibilizzazione che coinvolge anche le famiglie, lavorando con loro per innescare quel pensiero critico che può essere l'inizio per un cambiamento che parte dal basso, dalla società. Al Jabalia center, il centro che ho visitato a Gaza, ho visto un tentativo di sradicare la logica della violenza agendo su chi rappresenta il futuro e troppo spesso non ha la possibilità di scegliere da che parte stare.

i segni
18 agosto/Alex


I segni sono proprio li, sulla strada, ma per vederli occorre chinarsi e scrutarli in controluce. E’ impressionante quanto siano grandi i carri armati con i loro cingoli che arrivano ad essere alti quanto un'automobile, macchine progettate per seminare morte tra la gente. Macchine non pensate per transitare sulle strade asfaltate, mezzi di morte che quando entrano prepotentemente per le vie di una città lasciano dietro di se i segni inequivocabili ed indelebili del proprio passaggio nella memoria della gente imprimendo quelle tonnellate d'acciaio sui cordoli dei marciapiedi e sulle vie lastricate d'asfalto.
L'insediamento di Gush Katif fa parte di quella terra rubata agli arabi in cui gli israeliani vivono difendendo con i fucili e i carri armati la prepotenza di chi non vuole la pace ma vive per la guerra. L'insediamento stringe in una morsa i palestinesi che si vedono soffocare ad ovest dai coloni e ad est dal confine con Israele. Una situazione inaccettabile che va avanti ormai da anni. Morti che si sommano a morti in una partita che vede perdente sempre la stessa squadra, quella della gente comune.
Pochi giorni fa un ragazzino è stato assassinato da un colpo di cannone sparato da un blindato. Un colpo che gli ha squarciato la testa ed esplodendo ha ferito anche il padre. La sua unica colpa, dopo quella di essere palestinese, è stata l'aver lanciato una pietra.
Un tragico epilogo per una tragica storia in questa terra che non lascia vie alla ragione. La famiglia stava lavorando la propria campagna che si trova vicinissima alla linea che demarca l'insediamento quando è passato il mezzo militare. Il ragazzino ha lanciato un sasso nella stessa direzione ma non ha fatto in tempo a scappare prima che i soldati, sentendosi minacciati, decidessero di rispondere alla provocazione facendo fuoco. Con un cannone. Contro un bambino.
Pietre contro carri armati, in questo gioco che si protrae da ormai troppo tempo. Mi piacerebbe poter vedere in faccia la persona che ha deciso di sparare. Quel ragazzo, magari della mia età, che premendo un tasto mentre inquadrava nel sistema di puntamento la sua vittima, è stato poliziotto e giudice nello stesso istante emettendo una tragica sentenza di morte. Un verdetto inappellabile che ha segnato per sempre l'esistenza di una famiglia.
Qararah è un villaggio che si trova tra Khan Younis e il chek point militare che presidia la strada che unisce l'insediamento di Gush Katif con la terra d'Israele. Qui la normalità della vita è alterata dalla possibilità delle incursioni israeliane e la gente convive con gli spari che tutti i giorni partono dalle torrette militari. Sabato sera abbiamo dormito da una famiglia che vive a poche decine di metri dal confine tra l'insediamento e le case degli arabi. Mentre facciamo conoscenza con i sei fratelli che ci ospitano la stanza si riempie di bambini; ci capiamo parlando un misto di arabo ed inglese. La gente è sempre contenta di potersi sfogare con noi, di poter raccontare a qualcuno le angherie subite costantemente ogni giorno da cinquant'anni a questa parte.
Khamal ci racconta di come da un pezzo non possa più permettersi un pacchetto di sigarette dato che il denaro dev'essere razionato per sfamare i propri figli. Ci racconta di quanto sia duro non poter più lavorare, lui che prima dello scoppio dell'intifada era dipendente di una ditta israeliana e che ogni giorno si svegliava alle due del mattino per essere al lavoro alle sei. Lui che non poteva dormire in Israele perché per farlo era necessario un permesso speciale e quindi era costretto a sopportare l'umiliazione giornaliera delle perquisizioni, dei chek point, della discriminazione. Lui che per sfamare la sua famiglia era disposto ad abbassare la testa ed accettare i lavori più umili, compiendo quella strada comune a migliaia di palestinesi che vivevano con i soldi delle rimesse.
Casa sua, iniziata molto tempo fa, deve ancora essere finita ma lui e i suoi fratelli ci vivono ugualmente assieme ai loro ventisette figli. Ci vivono nonostante gli spari che ogni giorno partono dalla torretta militare e si conficcano nelle pareti dopo aver attraversato finestre, porte, muri. Per paura di questi colpi hanno deciso di abbandonare le stanze orientate verso l'insediamento, quelle più esposte ai colpi che direttamente o di rimbalzo, finiscono per raggiungere tutti gli angoli di quelle stanze. Khamal ci tiene molto a mostrarci i segni degli spari. Ci mostra i vetri forati, le pareti con gli ultimi fori e con i segni delle stuccature di quelli vecchi.
Ci porta sul tetto e ci mostra i fori nelle cisterne dell'acqua, sulla parabola del ricevitore satellitare, sui pilastri sgretolati in cui sono tesi i fili per stendere i panni.... La torretta è proprio l’, dietro di noi, a poche decine di metri. Tra un po' inizierà il solito macabro tiro al bersaglio contro le case, contro le persone, contro la ragione. Quale futuro avranno i figli e i nipoti di quest'uomo che oggi non sono neppure liberi di giocare in strada per paura degli spari? Quale futuro per loro che sono solo liberi di piangere la propria disperazione quando di notte si svegliano di soprassalto per gli spari che colpiscono la loro casa? Quale futuro per Khamal che vestendo i panni del padre non sa come rispondere alla disperazione dei figli se non piangere con loro?
Prima di addormentarci iniziano gli spari che ci accompagneranno fino al mattino. Fuori, verso sud, alcuni razzi luminosi illuminano il cielo e poco distante dalla casa dove siamo ospitati si alza un nuvolone di fumo dietro un carro armato. Lo strano modo degli Israeliani per augurarci la buona notte.

sotto tiro
2O agosto/Alex


Ultime ore della sera, io ed Andrea passiamo la sera in casa di una persona che vive molto vicino al check point di Abu Holi. La recinzione elettrificata che delimita il territorio è proprio lì a due passi da noi e quando scende la notte un potente faro illumina il perimetro controllato squarciando il buio con i suoi movimenti repentini e scostanti. Mentre chiacchieriamo sulle possibili conseguenze degli accordi di pace appena siglati tra Israele e l'ANP che dovrebbero prevedere l'allentamento della pressione militare israeliana anche qui nella striscia di Gaza, il cielo è continuamente solcato da aerei militari che sfrecciano in tutte le direzioni. Poco distane, raffiche di mitragliatrice violentano il silenzio notturno che si crea tra il passaggio di un aereo e l'altro, un razzo luminoso illumina per alcuni secondi le case circostanti. S. ci racconta di quando poco tempo fa i soldati sono entrati proprio lì ed hanno arrestato una decina di persone. Di quanto male stiano andando le cose rispetto a pochi anni fa quando la sua famiglia era conoscente di alcuni coloni che addirittura venivano invitati a casa sua per condividere la stessa mensa.
Dopo aver mangiato la persona che ci ospita ci invita in casa per guardare la TV. Scorrendo un po' la lista dei canali che si ricevono con la parabola, ci fermiamo su Rai Uno pronti per aprire una parentesi virtuale in questa realtà, per catapultarci qualche istante nel nostro paese. Il telegiornale della sera, uno dei più seguiti in Italia, apre con la notizia dell'assalto all'ambasciata d’Iraq in Germania da parte di un gruppo iracheno di opposizione a Saddam Hussein, . Continua offrendo un servizio dettagliatissimo sugli ultimi sviluppi del mondo del calcio italiano e solo dopo liquida in poco tempo due notizie drammatiche che riguardano il conflitto di Cecenia e gli sviluppi di quello palestinese trattando con la solita noncuranza e poca voglia di scoperchiare responsabilità e crimini contro l'uomo, due guerre che mascherate da azioni antiterroristiche continuano a mietere vittime civili in un clima di impunità esistente sia a livello mediatico sia a livello istituzionale.
S. è li con noi. Vive ad un passo da un check point militare da dove, ogni giorno, partono dei colpi che colpiscono le case della gente. Mi ritornano in mente le case del quartiere di Mamsawi, costruite con fondi elargiti dall'Austria ma disabitate perché bersagliate dai colpi dell'artiglieria israeliana. Penso alle migliaia di fori di proiettile che hanno demolito queste costruzioni distruggendo intere facciate, spaccando piastrelle e forando porte e finestre. Penso alla casa di K. e dei suoi fratelli, bersagliata tutti i giorni dal fuoco che parte dalle torrette militari, ai colpi che si conficcano nelle pareti. Penso alla figlia di A. e a suo padre che quando i soldati sparano, consola la sua piccola dicendo che i colpi li sparano dei suoi amici. Penso ai tanti drammi quotidiani di questa gente quando guardo questo telegiornale del mio paese e S. è sempre lì con noi che guarda la TV. Io mi vergogno di essere italiano, non so come giustificare questo tentativo di alterare la realtà messo in atto dai nostri giornalisti che mandando in onda servizi futili mascherano dietro ad una cortina di fumo la realtà.

Al Tufah
21 agosto/Alex


Uno dei tanti ragazzini che camminano a piedi scalzi sulle macerie ancora fumanti. Uno che si potrebbe facilmente confondere tra tutti gli altri che vengono verso di noi per mostrarci le schegge che hanno raccolto da poco, frammenti di metallo esplosi conservati come cimeli. Indossa la sua maglietta a strisce nere e azzurre che, con la scritta Ronaldo impressa sulla schiena, rapisce per un istante i miei pensieri, distogliendoli dal tetro paesaggio di morte che mi trovo davanti.
La zona è quella di Tufah. Non sappiamo proprio che cosa fare ma nessuno ha dubbi sulla necessità di arrivarci al più presto. Nel cuore della notte la telefonata di una nostra conoscente che vive nella zona ci ha informato dell'irruzione delle truppe israeliane, spiegandoci che le azioni dell'esercito sono iniziate verso mezzanotte e che la pericolosità è molto elevata dato che i soldati sparano su qualsiasi cosa si muova.
Arriviamo a Tufah accolti dai lampeggianti delle ambulanze. Centinaia di persone sono in strada e noi ci dirigiamo verso la folla con la telecamera accesa. La stessa strada sulla quale io stesso ho camminato non più di una settimana fa è ora un cumulo di macerie sollevate dalla potenza dei bulldozers militari. La polvere è dappertutto. Su quel che rimane di un muro c'è scritto in inglese: "Distruggerete le nostre case ma non distruggerete le nostre anime".
Continuiamo a riprendere mentre una potentissima deflagrazione ci obbliga a ripararci. Poco dopo delle grida chiamano le ambulanze che giungono per assistere delle persone ferite. Una carica di esplosivo piazzato dai soldati ha sventrato un edificio provocando un morto e sette feriti. La confusione regna sovrana. Ormai è giorno e la luce ci permette di inorridire di fronte al lavoro portato a termine dall'esercito garante della democrazia in Medio Oriente. Donne piangono la loro disperazione; i volti e gli occhi della gente che si incontra trasudano rabbia. Tutt'intorno macerie e macerie, resti di case che ancora fumano.
I militari, una volta entrati, hanno intimato alla gente di lasciare le case, minacciando di abbattere tutto. I bulldozers, coperti dagli elicotteri e dagli aerei militari, che hanno sparato sulla folla, hanno distrutto la strada per una cinquantina di metri, demolendo le mura delle case adiacenti. L'esplosivo ha fatto implodere quello che i bulldozer non riuscivano a distruggere. In tutta la notte sono state demolite otto abitazioni.
Il ragazzino che indossa la maglia dell'Inter è ancora là, e cammina a piedi scalzi sulle macerie della sua casa demolita. La maglietta che indossa mi riporta ai pensieri di ieri sera, alle regole dell'informazione, al Grande Fratello che ci condiziona o a noi che condizioniamo l'informazione. Chissà se nel prossimo TG, tra le notizie importanti che parlano del calciomercato e delle ultime trovate della moda, ci sarà un servizio che racconterà di questo dramma...

comunicato
21 agosto/Operazione Colomba


Verso le ore 24.00, elicotteri Apache ed aerei F16 hanno cominciato a sorvolare la zona di Tufah, si sono uditi degli spari e la gente ha cominciato a riversarsi nelle strade. Un annuncio al microfono ha intimato di abbandonare le case perché sarebbero state tutte abbattute, pochi istanti dopo gli elicotteri hanno iniziato a sparare sulla strada dove la gente si era accalcata. Dal lato dell'insediamento sono cominciati ad arrivare bulldozer e carri armati, anche questi ultimi hanno sparato in direzione della strada. Le prime ambulanze sono riuscite ad arrivare sul posto verso le 3.00. Alcune persone evacuate si sono rifugiate nell'ospedale.
Siamo stati testimoni intorno alle 5.30 di una forte esplosione, provocata da cariche di dinamite piazzate dai soldati israeliani, che ha abbattuto un edificio causando la morte di una persona ed il ferimento di sei. Sono stati distrutti completamente 3 edifici di cinque e tre piani e 5 case, molte le strutture gravemente danneggiate.
L'incursione è probabilmente una ritorsione per i due militari israeliani che ieri sono stati uccisi da militanti di Hamas. Ancora una volta siamo testimoni di come il governo israeliano non sia disposto a rispettare alcun accordo, e di come la violenza degli integralisti islamici sia speculare a quella dell’esercito israeliano e di quanto queste due violenze cieche si sostengano, si alimentino e collaborino nel rendere impossibile la vita dei civili.
Questa politica di rappresaglia adottata dall’esercito israeliano e dai gruppi estremisti palestinesi rende nullo qualsiasi accordo come quello firmato appena due giorni fa che prevedeva un ritiro parziale delle truppe israeliane da Betlemme e dalla striscia di Gaza, in cambio della garanzia da parte palestinese di un cessate il fuoco.
Tufah è il passaggio verso il mare e verso i villaggi palestinesi all'interno dell'insediamento israeliano di Gush Katif e, secondo i termini dell'accordo, avrebbe dovuto essere riaperto, dopo mesi di totale chiusura. L'episodio di stanotte, una vile rappresaglia contro obiettivi civili, in un campo profughi densamente popolato, riporterà probabilmente i negoziati al punto di partenza causando un inevitabile inasprirsi del conflitto.

il carretto
25 agosto/Alex


Prendo in mano la telecamera per riprendere il carretto che è proprio li, di fronte a noi, a non più di qualche decina di metri. Nessuno degli arabi che sono con noi parla l’inglese ma a gesti fanno capire che i soldati ci stanno guardando e che fare delle riprese è molto rischioso.
Siamo in tre, e nessuno di noi ha chiaro in testa quello che è successo. Verso le cinque del pomeriggio quattro persone sono venute a bussare alla nostra porta. Il più anziano del gruppo tentava di farci capire qualcosa parlando in arabo. Con le mani mimava un fucile e dalla bocca gli uscivano pochissime parole in inglese, le uniche per noi intelligibili.
Abbiamo seguito il gruppo che con un carro trainato da un cavallo ci ha accompagnati fino alla strada che costeggia l’insediamento israeliano di Gush Katif, passando attraverso strade sterrate che servono da accesso alle campagne palestinesi. Ad un certo punto siamo scesi dal carro ed abbiamo proseguito a piedi, finché la persona che ci faceva strada non si è fermata a scrutare in lontananza. A quel punto eravamo vicinissimi alla recinzione elettrica che divide l’insediamento dal resto del territorio palestinese.
Apro la custodia della telecamera, l’impugno, l’accendo e cerco di riprendere quel carretto fermo e quell’asino stecchito che sono proprio li, a pochi metri, prima che qualcuno suggerisca di metterla via per non rischiare che dalle torrette qualche militare si senta minacciato e decida di aprire il fuoco anche contro di noi.
Questa mattina H. e I. stavano andando a vendere al mercato alcune delle verdure che la famiglia coltiva per guadagnare qualche shekel. Quella strada la percorrevano tutte le mattine con il loro carretto tirato dall’asino anche se ultimamente i soldati li fermavano per chiedere che cosa trasportassero e dove fossero diretti. Oggi H., con i suoi undici anni, è sdraiato su un letto d’ospedale con una gamba ingessata e un piede perforato da un proiettile sparato questa mattina da una torretta israeliana. Una raffica che ha ammazzato l’asino che tirava il carretto, lo stesso carretto che si trova ora li davanti a noi, nel punto esatto in cui si trovava quando uno dei soldati di guardia ha deciso di aprire il fuoco. Uno dei ragazzi che è li con noi ha provato ad andarlo a prendere ma dalle torrette gli hanno sparato contro.
Prendiamo in mano i passaporti e li alziamo sopra la testa, dirigendoci verso il carretto. La rete è a pochi passi e la torretta militare è poco più in là. Con il binocolo i soldati ci tengono d’occhio mentre sleghiamo l’asino e a fatica riportiamo il carretto indietro spingendo con la forza della rabbia mentre le ruote si arenano nella sabbia.
Cosa avranno pensato gli israeliani che ci guardavano con il binocolo? Probabilmente si sono divertiti, vedendo questi tre stranieri col passaporto alzato, sbucati da chissà dove, che tiravano un carretto al posto dell’asino. Probabilmente anche loro non si rendevano conto di quello che hanno fatto.
Come qualche giorno prima a Tufah, quando li abbiamo quasi implorati di far passare quella donna che doveva raggiungere il suo bimbo di 9 mesi dall’altra parte del chek point, dentro Al Mawasi, una madre che da 4 giorni provava ad entrare ma veniva costantemente ricacciata indietro. La risposta del militarino (ancora non gli cresceva la barba) era stata sprezzante, come se non si parlasse di esseri umani, di neonati.
“Vedi tutta questa gente? Ognuno di loro vuole passare e ognuno di loro ha una SCUSA simile.”
Proprio così, una scusa l’ha chiamata... E i suoi compari sghignazzavano, come se non si parlasse di un diritto fondamentale dell’uomo, quello di una madre di allattare il proprio figlio. Così probabilmente questa mattina c’erano ragazzetti simili a “difendere” i “sacri e inviolabili” confini dell’insediamento, e si sono sentiti minacciati da questo carretto carico di verdure e dal suo asino guidato da H. e I. che tornavano a casa.

comunicato
18 settembre/Operazione colomba


Verso le H19.00 di lunedi' 16 settembre 2002 tre volontari italiani dell'operazione colomba, il corpo nonviolento di pace dell'Associazione Papa Giovanni XXIII, sono stati sequestrati da un gruppo di persone armate a Khan Yunis.
I sequestratori, la cui identita' e' nota, hanno portato i tre italiani in una casa di Khan Yunis e li hanno trattenuti la' fino alle 2 del mattino seguente. I volontari sono stati rilasciati dopo l'intervento dell'autorita'palestinese, dei consolati italiano e francese, di alcune importanti figure del panorama politico locale e dell'organizzazione locale per i diritti umani.
I tre si trovano nella zona su richiesta della popolazione locale per tentare di impedire con la propria presenza che le case vengano distrutte e ci siano attacchi contro i civili indifesi tra cui le famiglie che abitano in prossimità di un insediamento di coloni israeliani. Allo stesso tempo l'azione di accompagnamento dei più disperati ha come obbiettivo di essere un'alternativa alle azioni di gruppi fondamentalisti palestinesi che proprio tra i disperati reclutano attivisti pronti a tutto.
I tre non sono stati maltrattati mentre erano trattenuti e i rapitori, che hanno agito a livello individuale e senza motivazione politica, hanno comunicato loro che il rapimento serviva per fare pressione sull'autorita' palestinese per assicurare il loro ritorno al lavoro nel servizio da cui erano stati licenziati. Immediata è stata la protesta e la mobilitazione della popolazione con cui i tre vivono che ha favorito una soluzione pacifica della crisi.
Esprimiamo la nostra gratitudine a tutti coloro che si sono impegnati nel lavoro di mediazione che ha permesso la risoluzione pacifica della vicenda e ribadiamo la nostra fiducia nell'azione nonviolenta che si concretizza nel supporto alla parte più povera della popolazione civile sia da parte palestinese che da quella israeliana.
Condanniamo quanto successo come un crimine ma comprendiamo che la situazione di guerra e di estrema sofferenza e poverta' puo' portare alla scelta violenta e riaffermiamo la scelta di non andarcene, confortati dalle molte manifestazioni di simpatia e incoraggiamento pervenuteci dalle persone con cui viviamo.

un altro giorno
/Fabio


Un altro giorno e' cominciato. Quando apro gli occhi ho davanti a me i rimasugli della notte passata, il libro aperto sulla “peste dell'insonnia” di Macondo, la candela consumata, la matita, il blocco di fogli bianchi e un'altra notte passata senza riuscire a fermare i pensieri che in questi giorni scorrono e si rincorrono, si intrecciano e si accavallano. Il libro e i fogli sono ricoperti da una leggera patina di polvere, come se la notte fosse durata giorni... invece l'illusione di un paradosso temporale nella striscia di gaza e' dato soltanto dai grandi polveroni di sabbia che si alzano al passaggio delle auto sulla strada di fronte.
Nella mia stanza le pareti si prestano a continue allucinazioni quando, in silenzio, mi lascio pensare con gli occhi aperti. Dalle finestre la sabbia si posa su pavimento e pensieri. Un'altra macchina sfreccia. Mi piace spiare dalla finestra il traffico di questa strada. Auto e storie. Taxi gialli e jeep scassate della polizia palestinese. A ottocento metri, c'e' un check-point israeliano. La corsa di queste auto si fermera' a quei blocchi di cemento e a quella torretta. Tante strade qui in palestina non portano piu' a nulla.
L'orizzonte é scheggiato da una rete metallica lungo la green line (confine con israele). L'orizzonte é l'azzurro di un mare non troppo lontano a cui non ci si puo' arrivare. L'orizzonte é un muro di cemento e tetti rossi. Le auto sfrecciano su questa strada come se avessero fretta, come uno slancio oltre quell'orizzonte che qui, a ottocento metri, é un manipolo di soldati che gioca a fare la guerra. La strada finisce lì, la corsa finisce lì. C'é una sola strada che collega da nord a sud la striscia di gaza in tutti i suoi quaranta chilometri e tre check-point israeliani. C'é poco da correre qui. Le auto sfrecciano spolverando l'asfalto dalla sabbia. Sull'asfalto ancora i segni delle incursioni israeliane, a caccia di
uomini sospettati di "azioni ostili contro israele". In una notte ventitré persone prelevate dalle proprie abitazioni, ammanettate, bendate e condotte nei blindati fino al vicino insediamento. Lì, pestati, interrogati e, dopo alcune ore, rilasciati. Sull'asfalto i segni dei cingoli dei tank, i segni di maldestre manovre fin dentro le officine (potenziali laboratori di guerra) e le case.
Mi hanno insegnato che la casa e' luogo sacro. Poi il rimbombo lontano di un’esplosione e questo pensiero mi fa vacillare. Un'altra casa viene demolita. Durante il sonno bombe sonore esplodono nella casa, lanciate attraverso le finestre. Tutti gli uomini della famiglia escono dalla casa, sollevando mani e maglie per dimostrare d'essere disarmati. Il resto esce dalla casa e siede sulla sabbia, in attesa. I bambini piangono quando i cani liberati dai soldati si avvicinano. Forse hanno sonno ma ormai é già giorno. Padri nonni e zii hanno le mani legate e gli occhi bendati. I rastrellamenti durano ore. Alcune case, dopo gli arresti vengono minate e fatte esplodere. E’ ancora notte ma per molti é già cominciato un nuovo giorno.
Tritolo tritolo, altro tritolo risveglia le genti su Allenby street, a Tel Aviv, con la paura di essere vittima casuale della disperazione palestinese, causata da un’occupazione assassina, che li sta uccidendo. Altro tritolo a ricordare che quella bandiera che sventola nelle strade pulite di Gerusalemme ovest, in cui ci trovi il mendicante, il violinista, il colono con l'm16 e la soldatessa con la divisa e i sandali, sono le stesse che spuntano tra i teli mimetici degli avamposti militari che vigilano sulle migliaia di coloni che illegalmente occupano più del 40% dei territori palestinesi.
Tra quelle candide bandiere, nella calma di un pomeriggio di fine estate immerso nei sorrisi, tra i jingles dei cellulari che trillano, in un attimo rimbomba l'eco del tritolo che ogni giorno e ogni notte, lontano dalla tranquillita' apparente di un paese in guerra, sta annichilendo un intero popolo. Era da più di un mese che il tritolo suicida non urlava il suo orrore. Ma lontano dai riflettori, il tritolo con la stella di Davide non ha mai smesso di tuonare e ogni notte in nome di quella candida bandiera, un esercito di "bambini-soldato" (mi sia concessa questa definizione) ha continuato i suoi giochi di guerra, scimmiottando la sicurezza nazionale fuori dalla propria nazione. Manipolato dal grasso burattinaio di un fantoccio chiamato “Democrazia”, ottimamente doppiato da un comico poco divertentissimo chiamato “Propaganda”. L'effetto e' una scia di sangue che da nord a sud percorre tutta quella che qualcuno ancora definisce terra santa...
Quello dei “bambini-soldato” é un esercito democratico, tanto che prima di demolire una casa permettono, a volte, di uscire dalla casa e portare fuori in pochi minuti gli oggetti personali. Tanto che dopo i rastrellamenti distribuiscono volantini in arabo di ringraziamento per “la cortese attenzione e per la completa disponibilità dimostrata" (ovviamente non si tratta di una traduzione letterale del testo!). Tanto che dopo aver lanciato un missile da una tonnellata in un quartiere popoloso di Gaza, chiede scusa ammettendo l'errore.
E’ difficile riprendere il ritmo, dopo le settimane di nulla italico, affollata di girotondi e calciomercato, ferragosti e danze collettive. Ricalpesto con un pò di timore la sabbia sulle strade di Palestina. La gente mi sorride, i bambini si ricordano di me e delle mie stupide danze. A tratti mi sento utile per questa gente, é difficile pensarlo davvero quando la mia mente é ancora involontariamente occupata dalle polemiche sull'arbitro Moreno, come se me ne fregasse qualcosa del calcio.
Quì, lontano da calciomercato e tintarelle, mi chiedono: “perché ‘loro’ ci distruggono le case?”, “quando andranno via dalla nostra terra?”... Vorrei poter dare delle risposte anziché sorridere pateticamente, vorrei che qualcuno desse loro delle risposte, anche solo una bugia a cui credere ... per un po'...
Ma, come cantava il poeta forse non c'e' proprio risposta e forse si é davvero perduta nel vento.
Mi trovo quì a scrivere l’inizio di una nuova notte. Tutto quì é fin troppo tranquillo. Il ronzio dell'aereo-spia mi manca quasi, qualche cicala si permette di cantare. Oggi i tanks israeliani hanno nuovamente assediato il Compound del Presidente a Ramallah e quì, nell'estremo sud palestinese che é Rafah, bulldozers e tanks hanno dato spettacolo. Due i morti. Un ragazzino di quattordici anni ed un altro di diciasette, decapitato da un proiettile sparato dal cannone di un tank... e ora si sentono vicini i cingoli dei carri armati.
Ma le cicale stasera hanno ancora voce. E fa caldo e faccio fatica a ricomporre pensieri, affetti e sorrisi. E questa storia del sequestro di certo non aiuta a sbrogliare la matassa. Quanto accaduto é senza dubbio la dimostrazione di come questa occupazione stia
logorando le loro speranze e di come irrazionali siano certi gesti di fronte alla desolazione che li sta inghiottendo. Ho assimilato anch’io la “nonsperanza” dei fratelli palestinesi, come un'insofferenza cronica. Chi mi conosce sa quanto tutto questo possa attecchire bene su di me, eppure ho abbastanza fede (in me, in nient’altro di placidamente nascosto dietro le nuvole. Ni Dieu ni Maitre) per decidere di restare ancora quì e aspettare un vento migliore, forse quello dove si sono perdute le risposte.

“ya standin’ in line, believin’ the lies, ya blowin’ down to the flag, ya gotta bullet in ya head"

fa

... Jerusalem
ho visto ...
/Licio, Pierangela


A Gerusalemme:
ho visto,
appena dentro la Porta di Damasco, nella città vecchia, tre soldati israeliani molto giovani spintonare un vecchio arabo con evidenti difficoltà motorie. L’uomo è stato preso a calci e per questo è caduto in avanti battendo violentemente il volto per terra. Gli sono stati sequestrati un paio di sacchetti pieni di cose comprate al mercato.
ho visto,
i giornali che riportavano la notizia di attacchi di estremisti arabi su pullman e abitazioni israeliani causando morti tra civili.
ho visto,
la casa che Sharon ha comprato dentro il quartiere arabo, da cui sventolano grandi bandiere israeliane e si erge, enorme, il tipico candelabro a sette bracci. I palestinesi che ci passano accanto vedono in quell’edificio una provocazione nei loro confronti ma non possono fare altro che subirla.
ho visto,
il Santo Sepolcro e tanti altri luoghi e monumenti sacri, così fuori luogo in Terra Santa, a pensarci bene così fuori luogo essa stessa.
ho visto,
ragazzi israeliani girare nella zona araba di notte, cantando slogan contro i palestinesi e tirando calci alle porte dei negozi chiusi.
All’Aereoporto di Tel Aviv:
ho visto,
volontari pacifisti trattati con sospetto e diffidenza, ‘marchiati’ con bollini rossi, su biglietto e bagagli, individuati come indesiderabili.

Jerusalem
18 luglio/Maurizio


Città caotica fatta di case ammonticchiate sulle colline circostanti la vetusta città vecchia, città affollata, sudaticcia, vecchi arabi con abiti tradizionali, kefia e bastone, alcuni con turbanti ottomani ormai in via di estinzione si aggirano ancora in un ambiente che li vede scomparire lentamente, donne palestinesi e suore cristiane si confondono nella folla, soldati in armi spuntano dalle finestre sopra la porta di Damasco, sotto, le donne vendono foglie ed erbe nei loro costumi tradizionali mentre un venditore d’acqua in abiti moderni versa bicchieri ai pochi che si fermano per bere da quel suo enorme arnese d’ottone.
Oltre la porta di Damasco la polizia fa sfollare le venditrici di foglie, mentre fuori un milite apre un pulmino diretto nella West Bank. A Betlemme non si può andare, è chiusa.
Ieri notte una fila di giovani arabi attendeva il mattino di fronte ad un ufficio del Ministero degli Interni, l’entrata barricata da sbarre di ferro lucido e passaggi obbligati blindati da catene e altre sbarre. Attendono che l’ufficio apra per richiedere il documento d’identità, senza il quale non possono né lavorare né andare a pregare nella loro moschea di Al Aqsa sulla Spianata del Tempio.
Oggi la città è presidiata da centinaia di soldati con M16 a tracolla e polizia con giubbetti antiproiettile, da ieri sera si commemora la distruzione del primo Tempio e sono migliaia gli ebrei che confluiscono verso il Muro del Pianto. I giovani sono quasi tutti armati, uno con i riccioli biondi cammina scalzo insieme agli amici con la bandiera sullo zaino e porta a tracolla sulla gabbana nera degli ortodossi un fucile che somiglia molto a quello di Rambo, un M16 con l’aggiunta del cannoncino sparagranate. Un rabbino esce dalla sinagoga dei giovani ebrei, piazzata in piena zona araba, con la pistola in tasca.
Per raggiungere il Muro del Pianto, dove a migliaia da ieri sera e per tutta la notte e ancora oggi sostano e pregano continuamente, bisogna passare attraverso i metal detector della polizia, strano concetto di sicurezza dove gli armati passano sotto il metal detector senza problemi mentre gli inermi devono svuotare le tasche ed aprire le borse.
Ieri sera, dopo un poco, ci siamo stufati di stare in mezzo a tutta quella folla in preghiera e stavamo risalendo uno dei vetusti lastricati della città santa per tornare verso l’ostello, io avevo appena finito di dire che non mi sembravano poi né tanto cattivi né aggressivi, quando un nugolo di giovani scalmanati ha cominciato ad urlare che loro odiano gli arabi mentre prendevano a calci le porte di ferro dei negozianti del suk palestinese sotto gli occhi indifferenti delle truppe schierate per garantire la sicurezza.
Il nostro nonno, A. di Torino, che non li sopporta, si è fermato in mezzo alla strada. Di fronte due poliziotti. Ho cercato di lisciargli un poco il pelo che gli si era inturgidito lungo tutta la spina dorsale, ma era diventato duro come un macigno, impietrito di fronte a quelle urla che ricordavano tanto uno qualunque delle centinaia di film sul nazismo. Poi i poliziotti hanno capito e si sono avviati con molta flemma verso la banda di scalmanati per farli tacere.
Due giovani palestinesi sono usciti di casa e chiedevano a due giovani fidanzatini ebrei perché gli stronzi gridavano tutto quell’odio, i due ebrei cercavano di spiegar loro che nessuno odia gli arabi, esclusi pochi estremisti, poi si sono allontanati. E anche i due giovani palestinesi sono rientrati in casa. Il nonno si è ripreso e abbiamo proseguito verso l’ostello.
Normalità? Follia? Complesso di interiorizzazione dell’oppresso, che si spalma sull’intera società?
Jerusalem, città ritrovata e persa, abbandonata e riconquistata, faro e riferimento per oltre quattro miliardi di credenti.
Jerusalem, troppo amata, troppo importante, troppo vissuta, troppo antica; troppa cultura, troppa ignoranza; troppo di tutto.
Città di Dio che conta le lacrime delle donne.
Che confusione!!!

18 luglio/Licio


Ieri, 17 luglio, correva una ricorrenza fondamentale per il popolo ebraico: la prima distruzione del Tempio. Lo abbiamo saputo per caso intervistando nel pomeriggio un rabbino che ci ha ricevuto nella sua casa in Gerusalemme ovest: cinquantenne, alto, calzoncini corti, capelli lunghi appena sopra le spalle, casa arredata con gusto ... ci ha spiegato le sue verità. Ma questa e’ un’altra storia.
Migliaia di ebrei, la sera sono entrati nella città vecchia, famiglie intere, frotte di giovani, con i libri sacri in mano. Tutti verso il muro del pianto per ricordare, celebrare, incontrarsi, stare insieme, esprimere orgogliosamente il proprio sentirsi ebrei, la propria identità.
Non un arabo per strada. L’entrata al muro del pianto era preceduta da controlli meticolosi, la città araba, le sue viuzze, presidiata da militari, poliziotti, squadre speciali, agenti in borghese e via via da coloni armati, giovani e meno giovani che, come fosse la cosa più naturale di questo mondo, camminavano verso il luogo sacro con l’M16 a tracolla.
Di fronte al muro migliaia a dondolarsi, a pregare, ma non c’e’ posto per tutti, allora cerchi di persone, di amici, a ripetere cantilenando i versi in ebraico antico.
Com’e’ strano pensare che questa gente voglia impedire l’espressione di qualcun altro, non e’ possibile che questi ragazzi, questi uomini e donne con i loro bambini, così piacevoli a vedersi desiderino una terra dove i palestinesi siano relegati ai margini del vivere dignitoso minimo necessario.
I soldati appostati ai lati delle strade, nelle viuzze strette, in alto alle finestre. L’elicottero che volteggia per aria come un falco in cerca della sua preda, garantiscono sicurezza agli ebrei e rappresentano il pericolo per gli arabi. E quando un gruppetto di coloni, in una viuzza vicino alla casa che Sharon ha provocatoriamente comprato proprio nella città vecchia, comincia a scandire : - vogliamo gli arabi, fuori gli arabi - si capisce che l’odio così radicato negli animi e’ il padrone latente e incontrastato in questa notte di commemorazione, con la mezza luna in un cielo blu intenso, fra sorrisi di giovani e meno giovani, fra gli sguardi duri e agitati dei militari, giovani anche loro.
Torniamo verso il nostro ostello, percorriamo una parte della via dolorosa che per tutti quelli che stanotte non ci sono e’ molto più lunga di questa, racchiusa nella Città Santa.
Nella stessa sera, a nord, un palestinese uccide a fucilate tre giovani ebrei, viene freddato in mezzo minuto. La sera prima un altro apre il fuoco su un autobus: sette morti fra cui un bambini. Questo paese ha un’alta percentuale di giovani, dall’una e dall’altra parte, e sono queste in maggioranza le vite troncate e rapite alla terra, questa terra senza pace.
Questa Terra Santa dimenticata da Dio e degli uomini.

Rabbi Jeremy Milgrom
/Maurizio


Arriviamo alla casa coloniale del rabbino più moderato di Jerusalem, che sorge proprio di fronte al King David Hotel, ci accoglie un uomo che sembra più un hippy californiano che un rabbino ebreo, comunque è molto gentile, ci invita ad entrare e ci offre un bel bicchierone di acqua ghiacciata.
Il rabbi, insieme al suo gruppo, si occupa di diritti umani, con i palestinesi ma anche con gli ebrei. Si occupano dei più deboli, dei disoccupati, dei poveri e della qualità della loro vita, così come delle condizioni dei beduini. Il gruppo lotta anche contro la demolizione delle case e cerca di aiutare le famiglie a ricostruirle, basandosi sull’idea che sia irragionevole demolire le case dei palestinesi e che ciò causi solo un aumento dell’odio e della rabbia verso gli ebrei. Comunque la loro priorità primaria consiste nell’impedire un eccessivo uso della forza da parte dell’IDF contro i palestinesi.
“Vorremmo parlare della società israeliana”
Molti ebrei scelgono di venire ad abitare in Israele perché ne sono attratti e vogliono far nascere qui i loro figli. In alcuni casi provengono da situazioni molto difficili, persecuzioni, povertà, ma in altri casi gli ebrei che visitano Israele decidono di venirci ad abitare perché sono attratti da questa società nuova e in grande crescita.
Esiste poi un paradosso tra il calore della società israeliana verso gli ebrei che l’animano e il cinismo della repressione verso i palestinesi. Ma se si focalizza solo il conflitto israelo-palestinese è molto difficile capire gli israeliani ed accettarne l’atteggiamento. Se invece si focalizzano solo le dinamiche interne alla società israeliana, allora si scopre una società aperta e veramente straordinaria. Forse per uno straniero non ebreo è difficile separare le due cose, la società dal suo conflitto, ma se guardiamo alla società americana che con i suoi ideali di libertà ha sempre attratto moltissime persone, troviamo che anch’essa è passata attraverso il medesimo processo di democratizzazione, con la liberazione degli schiavi, l’emancipazione delle donne e altre cose positive, mentre dall’altro lato perpetrava lo sterminio dei nativi e la conquista dei loro territori.
Così allo stesso modo la società israeliana instaura nuove dinamiche sociali tra le diverse identità degli immigrati, mentre dall’altro lato combatte e reprime la popolazione palestinese. Quello che è successo in America con i pellerossa, si ripete oggi in Israele con i palestinesi.”
Obietto che ciò che è successo in America è avvenuto duecento anni orsono. Il rabbi si alza ed esce ad occuparsi del suo bucato, oggi è giorno di lavanderia per lui. Quando torna chiedo scusa per la gaffe -non c’è problema, risponde- e prosegue:
“Cercavo di esporre una caratteristica della società israeliana con la sua storia, i suoi miti, la sua letteratura, che allo stesso tempo ignora l’altra dimensione. E’ una dura problematica ed è molto triste per me che Israele ripeta gli stessi errori e anche i crimini commessi a suo tempo dagli americani. Perché se guardiamo alla storia, un americano dovrebbe provare senso di colpa e vergogna per ciò che è stato fatto agli indiani d’America. E sono sorpreso che, specialmente gli americani consapevoli di quella tragedia, non siano attenti e preoccupati per ciò che Israele sta facendo ai palestinesi.
Ma sono convinto che se si approfondisce la conoscenza della società israeliana, si scopre che essa fonda le sue basi su di un grande idealismo che si esprime nel processo di assorbimento delle diverse identità degli immigrati, e questo è decisamente positivo ed eccitante. Purtroppo più si è coscienti di ciò che accade ai palestinesi, più si nutre diffidenza e indifferenza per questo processo di integrazione degli ebrei del mondo.
Qui sta il paradosso, ciò che chiamiamo idealismo, cioè costruire una società equalitaria, basata su valori di solidarietà umana, non trova posto nella vita dei palestinesi che ne vengono brutalmente esclusi. Bisogna capire che una società basata su una popolazione immigrata e senza radici ha questa capacità di negare cittadinanza alla popolazione nativa, giustificandosi in mille modi, rivendicando il diritto alla sopravvivenza e alla lotta per la sopraffazione come si fosse in una giungla dove vige la legge del più forte, mentre si esprime grande solidarietà e compassione all’interno di essa.”
Ora la domanda è, cosa ha spinto la società israeliana da una visione socialista e progressista all’intransigenza religiosa di questi ultimi anni?
“All’inizio del ventesimo secolo, con il materialismo storico e i regimi totalitari, si pensava fosse finito il tempo delle organizzazioni religiose. Poi nella seconda metà del secolo è rinato l’interesse per tutte le religioni, cristianesimo, islamismo, giudaismo, buddismo e anche induismo. In Israele abbiamo avuto una nuova vita per gli ebrei, all’inizio gli ebrei ortodossi vivevano ai margini della società e non prendevano parte alla vita politica del paese, ma oggi sono diventati una delle forze di maggioranza del nostro parlamento, la Knesset: il partito degli ebrei ortodossi occupa un quinto dei seggi.
La società israeliana attuale si divide in 5 o 6 subculture ed è sbagliato pensare che tutti gli israeliani seguano la filosofia dei padri della patria, come Ben Gurion e altri, essi sono solo un altro quinto della società israeliana. Poi ci sono anche gli arabi israeliani che hanno voce in capitolo e che sono oltre un milione di persone. Un altro gruppo importante sono gli immigrati russi, un altro milione di persone e forse più. Tutti costoro non sono veramente rappresentati dalle politiche di Begin o di Sharon. Essi stanno imparando solo ora a far sentire la loro voce e ad essere coinvolti nella vita politica del paese. Gli europei difficilmente possono comprendere a fondo una realtà così complessa.
Si è sempre detto che una volta che Israele attuasse la pace con i palestinesi, allora ci sarebbero stati problemi all’interno della società israeliana: oggi il conflitto con i palestinesi favorisce l’unità di tutti gli ebrei nella lotta per la stessa causa. Forse questo è vero, non lo so. Ma, naturalmente, gli ebrei hanno paura dei palestinesi, non si fidano e non vogliono fare alcuno sforzo per avvicinarsi a loro, hanno molte buone ragioni per non farlo e non sono disponibili a nessun compromesso, non gliene importa nulla. E tutto ciò significa solo la continuazione e l’inasprimento del conflitto.
Oggi l’apporto dell’Europa alla pace è molto importante perché le Nazioni Unite non possono fare molto senza il consenso degli americani, che sostengono Israele per molte ragioni, non sempre giuste. E anche se gli europei incontrano non poche difficoltà a criticare Israele, per le ragioni storiche che tutti conoscono, è tuttavia molto importante che l’Europa controbilanci il peso del sostegno americano, spendendosi politicamente e finanziariamente in favore del popolo palestinese.
La gente qui pensa che il mondo sia un posto pericoloso dove vivere per un ebreo, perché hanno sempre dovuto sacrificarsi e lottare per sopravvivere alle persecuzioni e a mille altre difficoltà. Ma io non la penso così, io credo che il mondo sia un posto meraviglioso dove gli ebrei possono vivere in pace affianco ai palestinesi. Io non voglio vivere al di qua di un grande muro che ci separa.
Molti ebrei guardano al periodo in cui viviamo e vedono una terra promessa incompleta senza il Tempio che ne animava la società. E pensano che questa terra sarà completa solo quando sarà costruito il Terzo Tempio, perché avere il Tempio significa essere in contatto con Dio. Il Tempio rappresenta una sorta di connessione costante con Dio. Essi pensano che ricostruire il Tempio sarebbe un bene per il mondo intero e non solo per gli ebrei. Così vanno coltivando questo obbiettivo che desiderano intensamente e profondamente riuscire a realizzare.
Il problema è che vogliono costruire il Tempio laddove si erge il Duomo della Roccia, quella roccia su cui Abramo offrì il figlio in sacrificio a Dio, che è il terzo luogo santo della religione islamica. E’ chiaro che una cosa del genere appare impossibile e che comunque creerebbe un’infinità di pericolosissimi problemi e che non c’è alcun modo di convincere i musulmani a cedere il Tempio della Roccia agli ebrei perché ci costruiscano sopra il loro Terzo Tempio. Così pensano che se Dio vuole che sia costruito un nuovo tempio, allora farà in modo che ciò sia possibile.
Forzare questa tendenza, oggi, sarebbe disastroso, almeno come portare un elefante in un negozio di vasellame cinese. Ma l’idea di costruire un nuovo tempio diventa possibile in una dinamica nostalgica, dove gli ebrei ritornano alla terra promessa per ripristinare ciò che è stato un tempo. Questo lo si può comprendere, ma bisogna avere una grande capacità di ragionevolezza, bisogna stare molto attenti a non perdere la testa, è molto facile diventare irragionevoli quando gli Stati Uniti offrono il loro appoggio incondizionato.
E’ lo stesso con i palestinesi, quando Israele non rispetta le risoluzioni dell’ONU. La gente qui pensa che si può fare di tutto, che il mondo li sostiene. Ma in realtà è molto, molto pericoloso.”

Hebron: David
22 luglio/Maurizio


Sono andato ad Hebron con uno dei bus blindati israeliani, con un mezzo palestinese sarebbe stato probabilmente impossibile. Sul bus la maggioranza sono giovani soldati, ma anche civili, alla fine è quasi pieno e partiamo. Non mi pare ci possa essere pericolo di attentati, sia per i controlli all’entrata della stazione centrale degli autobus, sia perché i viaggiatori civili sono tutti evidentemente ebrei.
Dopo un paio d’ore di viaggio a sud di Jerusalem, in una terra abitatissima, coltivata ma anche, almeno ai miei occhi, molto arida, arriviamo ad Hebron. Devo incontrare il portavoce della comunità israelita, scendo dal bus proprio di fronte al suo ufficio e mi si affianca una vecchia Citroen con a bordo David, il portavoce, che però mi dice che sono in ritardo e che lui ha un altro appuntamento e che non ha più tempo per parlare con me. Pazienza, tornerò domani.
La Citroen sgomma nella strada deserta e mi lascia solo alla pensilina di cemento ad aspettare un nuovo bus che mi riporti a Jerusalem.
Il paesaggio è punteggiato da soldati, sul tetto di un edificio di fronte a me e anche alla mia sinistra, dall’altra parte della strada sul lato di una rotonda. Poi ne arrivano una dozzina che danno il cambio a quelli sul posto, nessun altro per strada se non qualche rara auto che passa diretta chissà dove, i negozi, o quello che ne rimane, sono tutti sprangati.
Ricompare David, il portavoce, il turista americano che stava aspettando non è ancora arrivato, per cui se voglio seguirlo in ufficio potremo finalmente parlare un poco.
“Hebron sorgeva in una piccola valle circondata da un anello di colline, qui ha vissuto Abramo per almeno 25 anni, ma non si sa se sia partito da Hebron o da Beer Sheeba, dove anche ha vissuto, per andare ad immolare il proprio figlio in sacrificio, come Dio gli aveva chiesto di fare sulla roccia dove ora sorge la cupola dorata del tempio detto appunto “della roccia”. Siti archeologici sparsi nella valle testimoniano abitati vecchi di oltre quattromila anni, qui vi è anche la tomba dei patriarchi.
Nella valle abitano 750 ebrei, ce n’erano duemila prima dell’inizio dell’Intifada, di questi 563 circa sono israeliani, 94 statunitensi e 94 di altre nazionalità. Mescolati a loro, senza soluzione di continuità, abitano anche 20.000 palestinesi. Quando, dopo il 1967, gli ebrei sono ritornati ad Hebron rivendicando le loro proprietà, i palestinesi hanno iniziato a costruire una selva di abitazioni sull’anello di colline che circondano la valle. Oggi sono 160.000 i palestinesi che abitano su quelle colline.
David si lamenta che l’esercito è arrivato troppo tardi e che ci sono stati troppi morti prima che arrivassero i soldati a presidiare le colline due anni fa. Ora la vita è un poco più tranquilla, nessuno riesce più a sparare in casa degli ebrei perché i 180.000 palestinesi sono confinati nelle loro case dal coprifuoco. Negozi sprangati, economia inesistente, gli ebrei locali vanno a fare spesa nell’insediamento di Qyriat Arba sull’unica collina che sono riusciti ad occupare. Cancelli guardati a vista e all’interno una comunità pulita con casette nuove e prati d’erba dove vivono circa 15.000 coloni.
I nostri problemi: come puoi vedere in questo libro della Torah che era nella mia casa, c’è un foro di proiettile. Questo è il modo in cui viviamo da almeno tre anni. Ci sparano addosso. La vita qui è molto difficile, abbiamo avuto morti e molti feriti e anche persone salve per miracolo. Ora hanno smesso di sparare perché l’esercito israeliano è ritornato nei territori dell’ANP abitati dai terroristi. Ora la situazione è un poco più sicura.
Ma vedi, il posto in cui viviamo è circondato da colline e queste colline sono state date ad Arafat. E quando gliele hanno date non c’erano i soldati israeliani, gli arabi potevano fare quello che volevano ed erano in grado di spararci nelle case, creando una situazione molto pericolosa, difficile e penosa per noi. Ora la vita è un poco più facile e speriamo che l’esercito mantenga le sue posizioni e non ci abbandoni nelle mani degli arabi.”
“Pensate di vivere così anche in futuro? Difesi dall’esercito?”
“Bene; quando hanno sparato nella mia casa e hanno mancato due delle mie figlie di tanto così, ho chiamato un giornalista straniero per mostrargli i buchi nel muro. E lui mi ha detto che quello era un modo molto pericoloso di vivere, perché non me ne andavo via da qui?
Io ho risposto che potremmo traslocare a Gillo, vicino a Jerusalem, e lui mi ha guardato sorridendo perché sapeva che sparano nelle case anche a Gillo, da Beit Jalla.
Dove dovremmo andare? Questa mattina hanno tentato di far saltare un treno e il macchinista è stato ferito. Se vai in autobus lo fanno saltare, se vai in albergo ti sparano, se vai in un ristorante si fanno esplodere dentro al ristorante. Per cui dove vai? Se vai a Tel Aviv si fanno esplodere, ad Haifa è lo stesso. Se vuoi andartene, dove potresti andare? Se scappo da Hebron faccio quello che vogliono i miei nemici, è per questo che mi sparano addosso, bum bum ... Così se vado a Jerusalem mi spareranno a Jerusalem, e se vado a Tel Aviv mi spareranno a Tel Aviv. Ma sai, quello che vuole Arafat non è Hebron, lui vuole Tel Aviv e vuole Haifa.
Due anni fa a Camp David, quando Barak era primo ministro, offrì il massimo ad Arafat, ma Arafat disse no. Questo gli americani l’hanno capito e anche Israele l’ha capito. E anche se noi non eravamo d’accordo con le concessioni di Barak, resta il fatto che Arafat le ha rifiutate perché non vuole la pace.
Se in Italia un gruppo di terroristi si prende la città di Milano e dichiara che quella città gli appartiene e comincia a sparare alla gente, cosa farai tu? Dirai che vuoi convivere con quelli che ti sparano in casa? O dirai: no, questa è la mia casa e risponderai al fuoco nemico, perché è tuo dovere difendere la tua casa e la tua famiglia? Se qualcuno ti porta via la casa e spara ai tuoi figli, cosa fai, scappi via? No, non credo che ci siano ragioni perché noi ce ne andiamo via. Certo la situazione non è affatto facile qui, ma sta a noi cercare di migliorarla e non di scappare via.”
“Ma che tipo di accordi auspicate per vivere un futuro pacifico?”
“Prima di tutto, per avere un qualsiasi tipo di accordo bisogna avere qualcuno con cui fare l’accordo e oggi noi non abbiamo nessuno con cui fare accordi. E soprattutto ci vuole qualcuno che voglia raggiungere un accordo. Ma oggi non credo che i palestinesi vogliano fare la pace con noi. Ci vogliono buttare a mare, questo si. Negli ultimi due anni ci sono stati oltre 700 israeliani assassinati dai terroristi suicidi che si fanno esplodere in mezzo ai civili solo perché gli israeliani vogliono vivere in Israele.
Io penso che se un arabo vuole vivere in Israele può farlo, se vuole farlo pacificamente. Inoltre, non ricordo bene se ci sono 22 o 23 stati arabi che circondano lo stato di Israele, mentre Israele è l’unico stato ebreo che abbiamo.
La gente dice che non dovremmo vivere qui, quando stavamo in Europa c’è stato un olocausto che ha sterminato sei milioni di ebrei. Vivevamo in Europa e ci dissero che non potevamo vivere lì, ora viviamo in Israele e ci dicono che non dovremmo vivere qui, non capisco in quale inferno vorrebbero che andassimo a vivere?
Se un arabo vuole vivere in Israele all’interno della società israeliana e nel rispetto delle nostre leggi, può farlo. Se non vuole vivere qui con noi, può andare a vivere in uno dei tanti paesi arabi. Ma se vuole vivere qui e combatterci, allora deve sapere che noi risponderemo combattendo. Questo è l’unico posto che abbiamo, dove altro dovremmo andare a vivere?
Se gli arabi vogliono l’autonomia nelle città in cui abitano, non m’importa, a patto che non insegnino ai loro figli a farsi esplodere in mezzo agli ebrei. La sicurezza in Israele deve essere nelle mani degli israeliani.
Hebron è la prima città del popolo ebreo, qui il re David consolidò lo stato di Israele, Hebron è più antica di Roma, Hebron è la città dove è vissuto Abramo e se qualcuno viene a dirmi che gli ebrei non possono vivere ad Hebron perché non appartiene agli ebrei, beh allora ....
Vedi, il mio ufficio è nell’antico quartiere ebraico di Hebron che è stato costruito nel 1540 da ebrei spagnoli emigrati dalla Spagna sotto il regno di Isabella la Cattolica, nel 1492. Dalla Spagna sono emigrati in Turchia e da lì un gruppo di loro è venuto a stabilirsi a Hebron e ha fondato questo quartiere dove ci troviamo ora.
Qui hanno abitato fino al 1929, in quell’anno 67 ebrei furono assassinati e 70 feriti dagli arabi, mentre il resto della comunità fu espulsa dall’autorità britannica.
Nel 1931 un gruppo di 30 famiglie tornò a vivere qui, ma nel 1936 gli inglesi accolsero le petizioni degli arabi ed espulsero tutti gli ebrei.
Non ci fu più alcuna comunità ebraica ad Hebron fino a dopo la guerra del 1967 quando, nel 1968 un gruppo di famiglie si trasferì di nuovo ad Hebron, all’interno di un campo militare fino al 1971.
Quando il primo edificio sulla collina di Qirryat Arba fu pronto, essi vi andarono ad abitare, non perché non volessero restare ad Hebron, ma perché il governo israeliano non lo permetteva. Poi nel 1979 un gruppo venne a vivere in questo quartiere nonostante il governo.
Nel 1980, in seguito ad un attacco terroristico che uccise sei persone, il governo israeliano riconobbe finalmente la comunità ebraica di Hebron e concesse l’autorizzazione per la ristrutturazione dell’antico quartiere ebraico e per il suo ripopolamento. Così oggi tutta l’area in cui viviamo è di proprietà ebrea e sorge sull’area dell’antico quartiere ebraico distrutto ed evacuato nell’estate del 1929.”
La casa di David ha i sacchetti di sabbia alle finestre e i soliti fori di proiettile già visti mille altre volte nelle case dei musulmani, in Palestina e in Bosnia. Mi mostra anche dove, grazie a Dio, le sue figlie sono scampate ad una raffica di kalashnikov tra la porta del bagno e il corridoio. Mi mostra le foto dei morti, un bambino di appena dieci mesi e un insegnante elementare; l’ultimo è il ministro del turismo, in visita ad Hebron il giorno dell’attentato che gli è stato fatale.
Dopo il colloquio me ne torno alla fermata dell’autobus, sulla panchina sotto la pensilina di cemento, sulla mia destra un nuovo soldato presidia la postazione sul tetto di un edificio, mentre quello sulla rotonda siede all’ombra di un telo mimetico affianco ad un mucchietto di sacchetti di sabbia. Mi alzo e m’incammino verso il soldato alla rotonda, ma quando mi avvicino quello sul tetto tira sassi davanti ai miei piedi. Alzo le mani, voglio solo sapere quando passa l’autobus, così quello alla rotonda parla all’altro sul tetto (più o meno così) - Alex non far l’asino, è un giornalista venuto a parlare con il portavoce - poi mi dice che l’autobus passa ogni ora.
Me ne torno alla mia panchina, che sembra più sicura, anche se Alex mi pare un gran burlone e continua a tirar sassi al suo amico sulla rotonda che cerca di pararli con i piedi. Poi si mettono a discutere di politica, lo capisco perché ripetono spesso la parola democrazia, quello sulla rotonda si scalda e attraversa la strada fin sotto il tetto, capisco altre due parole: Palestina e Gaza.
Due ebrei barbuti su di un pulmino Chevrolet nuovo, si fermano. - Vado a Jerusalem - mi fanno di no col dito. Un’ambulanza donata dagli americani passa e ripassa mentre i due continuano a discutere. Poi all’improvviso passa l’autobus e prosegue in un nugolo di polvere su per la collina. L’amico di Alex mi dice che ripasserà, mi risiedo. Si ferma un altro ebreo barbuto che mi chiede se voglio un passaggio - no grazie, vado a Jerusalem, aspetto l’autobus.- Mentre salgo sul bus, che finalmente è arrivato dalla direzione giusta, saluto l’amico di Alex che continua il suo discorso con il burlone sul tetto.
Sul bus altri soldati, sembrano provati, non so da cosa, forse dal caldo che non allenta la sua morsa in nessun angolo di questa terra polverosa.
La vita ad Hebron è dura per tutti.
Non è facile essere il popolo prediletto da Dio.

Haifa: Hani
/Maurizio


Mi viene in mente una favola di La Fontaine, che racconta di una rana che vede un toro e vuole diventare grande come il toro, così inizia a gonfiarsi sempre di più mentre le altre piccole rane, vedendola gonfiarsi, le chiedono allarmate che cosa stia facendo. Oh, va tutto bene -risponde lei- voglio solo diventare grande come quel toro. E continua a gonfiarsi e si gonfia e si gonfia fino ad esplodere.
Quella rana è come Israele. Stiamo esplodendo perché ci stiamo gonfiando con i territori palestinesi, ci stiamo gonfiando di stupidi crimini, ci stiamo gonfiando di immoralità e di inumanità, e ci siamo dimenticati di ciò che volevamo veramente fare in questo paese. Perché Israele doveva essere un rifugio per gli ebrei perseguitati sparsi nel mondo, doveva essere un posto migliore dove vivere, un posto sicuro dove vivere.
La mia famiglia è immigrata in Palestina nel 1900, io sono nata prima del 1948 ed allora la Palestina non era un posto sicuro dove gli ebrei potessero vivere. La mia famiglia ha sempre fatto enormi sacrifici, prima, durante e dopo la guerra. Sacrifici di sangue, sacrifici economici e anche durissimi sacrifici psicologici. Tutto nella convinzione che questo paese divenisse un paese sicuro. Ed è stato un posto relativamente sicuro dal 1948 al 1967, fino a quando era la casa degli ebrei.
Poi, in un minuto, nell’estate del 1967, è diventato un paese colonialista. Tutto è cambiato. Ma ora è anche peggio, perché con il trattato di Oslo abbiamo avuto una nuova speranza: forse non era una soluzione perfetta, ma era un nuovo inizio ed era psicologicamente molto importante per tutti noi, arabi ed ebrei.
Oggi, invece, ci sono gruppi in Israele che sognano di conquistare l’altra riva del fiume Giordano. Il partito del Likud è una distorsione di un vecchio partito israeliano fondato da Zeev Japutinsky, che era un grande intellettuale, un grande scrittore e un grande pensatore. Oggi i giovani del Likud cantano una canzoncina che recita più o meno così: ”Il fiume Giordano ha due sponde, una e nostra e l’altra pure”
Quando, nel 1967, l’esercito israeliano ha conquistato la riva destra del fiume Giordano erano tutti molto felici perché erano riusciti a conquistare i territori dove si trovano tutti i luoghi santi. Il rabbino capo di Israele entrò in Jerusalem e salì al Monte del Tempio e al Muro del Pianto e suonò il corno sacro, lo shuffà, per annunciare al mondo la venuta del Messia. In quel momento ci fu una strana e pericolosa combinazione di nazionalismo politico e di fanatismo religioso. Ed è proprio questa combinazione il vero pericolo per l’intero Medio Oriente: se pensiamo ai crociati e a quello che hanno fatto, se pensiamo all’inquisizione spagnola e anche all’odierno fondamentalismo islamico, vediamo che il nazionalismo religioso ha sempre procurato grandi sofferenze e grandi distruzioni.
Oggi, in questo momento storico, la cosa più pericolosa è che abbiamo un primo ministro che conosce bene come si fa ad uccidere, ma non conosce affatto come si fa a fare la pace. Prima avevamo Barak e anche lui non sapeva fare la pace, ma almeno non gli piaceva uccidere. Ancora prima c’era Netanyau e neppure lui sapeva fare la pace, ma almeno gli piaceva più parlare di uccidere. Sharon pensa che uccidere sia giusto perché suo padre, quando aveva dieci anni, gli ha dato in mano una pistola e gli ha detto: “Va fuori ad uccidere gli arabi”. E questo è tutto ciò che sa fare. E tutti coloro che lo sostengono si sono dimenticati di quando era un giovane ufficiale dell’esercito israeliano e disobbediva agli ordini perché voleva solo uccidere gli arabi per sua vendetta personale, si sono dimenticati del Libano e di tutto il sangue versato in Libano da Sharon.
Israele è un piccolo paese di sei milioni di abitanti e ognuno ha avuto una vittima in famiglia o tra i suoi amici. Qualcuno che è morto nell’Olocausto, qualcun altro che è stato ucciso, ferito o è rimasto paralizzato in una delle tante piccole guerre che hanno afflitto la nostra storia. Ma non è mai successo come oggi, perché le famiglie restavano a casa e gli uomini andavano a combattere. La guerra non era mai arrivata nelle nostre case, né nelle nostre strade. Prima di oggi, non mi era mai capitato di andare al lavoro pregando di poter tornare a casa salva la sera. Perché anche dove lavoro qualcuno è stato ucciso proprio ieri, mentre andavo al lavoro un autobus è esploso cinque minuti prima che lo prendessi. E oggi chiunque può raccontarti questo tipo di storie. E l’unico modo per fermare tutto questo è la pace.
E questa è solo una faccia della storia, l’altra faccia sono i palestinesi. Vedi, anche se noi abbiamo il 20% di disoccupazione, e non abbiamo mai avuto un tasso così alto, neppure all’inizio della fondazione dello stato di Israele, tuttavia noi abbiamo tutto quello che ci serve, l’acqua, il cibo, le nostre case. Ma molti palestinesi non hanno più nulla, neppure la speranza. Per questo ci vogliono uccidere.
Israele sta diventando un posto orribile, oggi noi siamo ammalati di terrore ed è un mutuo terrore che affligge noi come i palestinesi. Gli israeliani terrorizzano i palestinesi e i palestinesi terrorizzano gli israeliani. E l’unico punto che hanno in comune è la bocca dei loro fucili. Vedi, gli ebrei sono abituati ad essere odiati e respinti, e quando una bomba esplode vi riconoscono subito il vecchio antisemitismo di sempre. Ma non si tratta più di antisemitismo, è solo una reazione all’occupazione, una reazione all’oppressione.
Personalmente penso che i palestinesi siano stati molto stupidi a non accettare l’offerta di Barak a Camp David, penso che non abbiano un buon leader, penso che Arafat sappia fare molto bene il terrorista ma non sappia affatto fare il primo ministro, penso che egli conosca bene come gestire il terrorismo ma non sappia gestire altrettanto bene uno stato. Perché sono evidentemente due cose molto diverse. E’ veramente una maledizione avere Arafat da una parte e Sharon dall’altra, è veramente il peggio che ci potesse capitare. Ciò nonostante non vedo altre figure su entrambi i lati che possano offrire migliori garanzie come leaders.
Molte persone sostengono la guerra e pensano che se uccidiamo abbastanza arabi non ci saranno più terroristi. Io penso che è vero il contrario. E, d’altra parte, in ogni momento di questi ultimi due anni, il 60-70% della popolazione ebraica di Israele ha espresso la volontà di dare i territori in cambio della pace.
So che non è facile, perché ci sono attualmente 270.000 coloni che abitano negli insediamenti. Ma anche nel Sinai c’erano gli insediamenti creati dopo il 1967: furono abbandonati e demoliti e i coloni furono ricompensati, anche se in seguito ci furono moltissimi divorzi tra loro e anche dei morti.
Tuttavia questo è il prezzo da pagare per avere la pace. E non è un prezzo alto se si pensa a tutto il sangue versato in questi due anni, un prezzo altissimo per ottenere nulla in cambio. Perché questa guerra non ci ha portato più sicurezza ma ha solo peggiorato le cose.
Ho letto su Ha Aretz di una ricerca sui coloni che abitano gli insediamenti, da cui risulta che il 75% di essi sono pronti ad abbandonare gli insediamenti ed a rientrare in Israele a patto di essere ricompensati. Perché non sono andati ad abitare nei territori per ragioni politiche, ma solo per ragioni economiche. Con i soldi con cui si può acquistare una casa come questa in cui abito, in un quartiere eccellente come questo, negli insediamenti si compra una grande villa con 10/12 camere e un bellissimo giardino con una piscina nel mezzo.
Inoltre i coloni pagano meno tasse di quante ne devo pagare io, hanno l’educazione gratuita per i loro figli, hanno moltissimi privilegi economici che noi non abbiamo in Israele: al contrario, noi paghiamo per i loro privilegi. Per cui, se loro abbandonassero gli insediamenti, io sarei disposta a pagare il 10% in più di tasse per i prossimi dieci anni, per compensarli. Perché non sarebbe un problema pagare più tasse per avere la pace, mentre oggi dobbiamo pagarle per mantenere la guerra. E anche se un 6% dei coloni sono disposti a morire piuttosto che lasciare gli insediamenti, essi sono solo una piccola minoranza e se il governo decidesse di evacuare i territori, anche loro dovrebbero obbedire. Oppure verrebbero evacuati con la forza. Può essere fatto.
Quelli vivono in bellissime case con giardini e piscine, mentre i palestinesi non hanno acqua a sufficienza. Questo è immorale e inumano e non ha nulla a che fare con il giudaismo.
E’ una cosa che mi fa vergognare di essere ebrea. E io non voglio vergognarmi di essere ebrea. A scuola mi hanno insegnato ad essere orgogliosa di essere israeliana perché Israele è una nazione giusta e morale e gli ebrei sono persone buone ed hanno una morale e sono uomini giusti.
Ma ora che gli ebrei stanno diventando pazzi non riesco a sopportarlo. Purtroppo Israele è paralizzato, non sta andando da nessuna parte. E tutto questo è molto triste perché non può essere fermato. Non si può invertire questa tendenza tanto facilmente.
L’unico modo di risolvere qualsiasi tipo di conflitto è mettere da parte l’egoismo e cominciare ad usare la ragione. Credo che alla fine riusciremo a risolvere i nostri problemi, ma sarà un processo molto lungo e più aspettiamo e più alto sarà il prezzo che dovremo pagare per ottenere una pace giusta per tutti. E anche allora, ci vorranno alcune generazioni per riuscire a cancellare tutto l’odio del passato.

Jerusalem: Idaia
/Maurizio


Io sono contro ogni tipo di violenza, da qualunque parte essa venga, ho perfino smesso di guardare la televisione per non essere coinvolta in questo stillicidio quotidiano che detesto e respingo.
Anche se ormai ho perso la speranza in un futuro di pace per i palestinesi. Sono stanca di vedere tutti questi bambini insanguinati da entrambe le parti.
Nel Corano è scritto che a Gerusalemme il sangue arriverà alle ginocchia ed è questa la direzione in cui stiamo andando. La situazione peggiora di giorno in giorno e gli israeliani devono smettere di caricare di tragedie il nostro popolo. Se si fermassero, sono sicura al 100% che si potrebbe trovare una via alla pace. Perché a nessuno piace perdere ogni cosa.
Guarda quest’ultima strage che hanno fatto a Gaza, tutte quelle famiglie distrutte e anche quelli che abitavano vicino colpiti duramente. Perché devono fare queste cose? Immagina ora come si sentiranno i sopravvissuti? Vorranno vendicarsi, e così tragedia si sommerà a tragedia.
Dopo gli accordi di Oslo, c’è stata una crescita molto forte della società palestinese e delle sue strutture organizzative, e questo non è piaciuto agli israeliani, perché non se lo aspettavano e hanno colto la prima occasione per ricominciare il conflitto. E se guardiamo a come stanno conducendo questo conflitto, vediamo che stanno lentamente demolendo le strutture della società palestinese, oltre ad ogni speranza di pace. Così, se mai ci sarà un nuovo inizio, dovremo ricominciare da zero.
Io non sono molto esperta di politica, ma per quello che so è stato Israele, durante la prima Intifada, a sostenere la crescita di Hamas contro Fatah. Hanno aiutato Hamas all’inizio perché pensavano di poterne controllare la linea politica, invece Hamas è cresciuta molto velocemente perseguendo la religione islamica e le regole scritte nel Corano e ben presto si è sottratta definitivamente al controllo israeliano. E oggi attaccano Israele molto duramente, perché hanno perso la fiducia nelle trattative e nei negoziati. Hamas è probabilmente in errore con la sua politica violenta, ma oggi Israele raccoglie ciò che ha seminato.
Nei confronti di Fatah rimane un acceso antagonismo perché la pace che i nazionalisti guidati da Arafat hanno perseguito per anni, raggiungendo poi gli accordi di Oslo, si è sbriciolata come un castello di sabbia sotto la pioggia, portando a questa seconda Intifada. Per questa ragione Hamas continua a raccogliere consensi a danno del nazionalismo di Fatah e dei gruppi marxisti-leninisti.
Sono veramente dispiaciuta per Arafat, perché è il nostro sceicco e ha il diritto di sedere con dignità in mezzo al suo popolo. Purtroppo oggi tutto ciò che succede viene caricato su Arafat, mentre egli non ha più la possibilità di esercitare alcun controllo sul suo popolo. Che cosa dovrebbe fare? E’ confinato nel suo campound di Ramallah e non può neppure uscire a prendere aria!
Arafat è colui che ha portato davanti al mondo la questione palestinese ed ha combattuto per anni per restituire un identità al popolo palestinese e per far si che anche il resto del mondo riconoscesse questa identità. Nessuno si è speso tanto, né tanto ha lottato per restituire ai palestinesi la loro dignità, una terra su cui vivere e un futuro per i loro figli. Naturalmente oggi è diventato vecchio e forse sarebbe il momento di farsi da parte, e sarebbe meglio anche per la sua figura di leader.
Egli è stato un uomo molto potente per il nostro popolo e se qualcuno volesse negarlo sarebbe ingiusto nei suoi confronti. Non accetto che i palestinesi gli facciano tante critiche, perché tutti noi e anche gli altri capi di stato abbiamo fatto i nostri errori. Si sono forse dimenticati di quando Arafat era nel deserto e lottava per far capire al mondo che anche i palestinesi vogliono vivere come tutte le altre genti? Ci sono voluti anni e anni, senza poter mai dormire nello stesso posto. E si sono dimenticati di quante volte hanno cercato di ucciderlo?
Inoltre parlare male di Arafat oggi, significa sostenere la politica di Israele! Perché non riusciamo ad imparare le cose positive da Israele? Invece di cercare di vestirci con abiti moderni, andare in discoteca o a sederci al bar? Perché non guardiamo più in profondità e non scopriamo come hanno fatto gli israeliani a costruire uno stato! Se guardiamo bene agli israeliani, essi lottano l’uno contro l’altro nella disputa politica, ma quando viene il momento di difendere la patria, allora si comportano come fossero un sol uomo. Prendi Sharon, gli israeliani sanno bene che è un assassino, lo sanno tutti, ma di fronte agli stranieri egli diventa un eroe di Israele.
E allora perché bisogna sempre criticare Arafat? Non lo accetto, né da Hamas né dalla Jihaad e nemmeno da Fatah, perché anche all’interno di Fatah si muovono critiche ad Arafat.
Sembra che tutti si siano dimenticati che i palestinesi sono riconosciuti nel mondo grazie ad Arafat.

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