Qualcuno con cui Parlare
israeliani e palestinesi
di Francesca Borri


Manifesto Libri 2010

Introduzione
di Francesca Borri

Era il mio quarto giorno, quando quella Punto mi ha tagliato la strada, e l'unica cosa che sapevo di Jenin è che si trova più o meno nell'emisfero boreale. In Palestina agli sgoccioli di un master, ero al seguito di una inviata della BBC per un pezzo su donne e Corano. Mai avrei immaginato che il ragazzo nell'auto fosse stato il protagonista di un documentario pluripremiato - e soprattutto, degli attentati suicidi della seconda Intifada. Zakariya Zubeidi era il ricercato numero uno della West Bank: ma voleva raccontare la scelta adesso di dedicarsi ai bambini del Freedom Theatre, fondato dalla sua vecchia maestra: un'ebrea. Ascoltavo Zakariya sgomitolare la sua vita, un mondo, Lucy la sua intervista, e rimasi senza parole nel vederla poi fermarsi al ritorno, duecento metri dal primo checkpoint, e disfarsi di ogni appunto. Scrivo una storia simile mi disse, e domani sono fuori da Israele: dopodomani dalla BBC. E in effetti: impeccabile introduzione al giornalismo occidentale: niente di più pericoloso di uno su cui non calza lo stampo del fondamentalismo islamico - uno che mina le ragioni del nostro fondamentalismo. E così quella storia, dopo un mese a Jenin, è diventata la mia.

Sono arrivata a Ramallah con poche e vaghe immagini interiorizzate distratte: e questa guerra essenzialmente, come una tragedia greca in cui tutti hanno insieme torto e ragione, il groviglio tra incompatibili - e l'Undici Settembre, poi adesso, e lo scontro di civiltà. Fino al giorno, però, in cui ho incontrato Mustafa Barghouthi. Medico e deputato: ma soprattutto, musulmano e laico: uno cioè, che secondo la mia laurea in Relazioni Internazionali non esisteva - perché l'Islam, no?, "non consente quella separazione tra stato e religione che è la base della modernità". Quello che i protagonisti di questo libro hanno in comune è semplicemente questo: la capacità e naturalezza di smentire le narrazioni dominanti. Perché il problema non è solo quello che non ti insegnano, nelle nostre università - ho frequentato sociologia della musica tecno, nella mia vita, non mi sono mai imbattuta in una geopolitica del Medio Oriente: il problema è anche, soprattutto, quello che ti insegnano: e "questa nostra cultura, tutta costruita così, come se il mondo fossimo noi", per dirla con Lorenzo Milani. Non è dunque un ritratto di Israele e Palestina, questo libro: non ha la minima pretesa di esaustività. Non è un libro di interviste, ma un libro piuttosto in forma di interviste, o meglio ancora: interazioni - perché domande e risposte, narrato e narratore continuamente, inavvertitamente si invertono. Non è un libro a sostegno di una tesi. "L'opera che prova qualcosa", contestava Albert Camus, "si ispira a un pensiero soddisfatto: la verità che si crede di possedere, viene dimostrata. Ma le idee sono il contrario del pensiero" - questo è solo un libro a sostegno e tutela del dubbio. E anche per questo ho deciso di mantenere, quasi invariato, l'ordine cronologico delle interviste, senza riverniciare niente - neppure alcune imprecisioni: per riconsegnare tutta la loro evoluzione, e soprattutto, quella immunità che caratterizza lo sguardo della prima volta, la prima luce. Perché aveva ragione Tiziano Terzani: la cosa più triste della guerra, è che ci si abitua. All'inizio un checkpoint incendia di indignazione. Ma rapida, subentra una specie di aritmetica istintiva del male minore: difendere un anziano da uno sputo è regalare il pretesto per una chiusura a tempo indefinito. E si è contaminati così da una gramigna di tolleranza, via via più larga - perché ogni giorno è giorno di infinite ingiustizie minime: fino a riscoprirsi pazienti in fila a un checkpoint, anestetizzati come davanti a un semaforo rosso. Ed è qui che la guerra, invece vince - quando nessuno si sorprende più. Quando si converte in paesaggio.

Israeliani e palestinesi sembrano condividere a volte solo l'alibi dietro cui trincerarsi - le volte che non abbiamo nessuno con cui parlare dicono, dall'altra parte del Muro. Eppure con i protagonisti di questo libro, parlare non è affatto difficile: non perché abbiano le stesse idee: ma perché le loro ragioni, anche le più radicali, sono comprensibili. Zakariya non è lo squilibrato animato da odio: è un ragazzo di vita come mille altri, da camionista a terrorista per mancanza di prospettive più che per ideologia. Non si tratta naturalmente di condonare le sue responsabilità - è lui il primo a non negarle: solo di accorgersi che le sue ragioni sono coniugate nello stesso linguaggio delle nostre. Dignità, lavoro. Libertà. Poi la guerra, certo, rimane tutta ancora lì: la pace non è questione di conoscersi meglio - è questione di diritti e giustizia. Non si tratta di ricomporre il due in uno: solo evitare che le distanze precipitino in dismisure - le ragioni in risentimenti e paure. E la traduzione, la convivenza si innesca quando non si è più, semplicemente, "israeliani e palestinesi": ma donne e uomini invece dalle storie e ustioni le più diverse, e che continuano però a sentirsi prima di tutto persone, rivendicando identità più larghe, e varie e complesse di quelle ammesse dagli entomologi delle guerre. Perché è alla fine nell'incrociarsi di queste identità che questo paese si fa un unico paese: in Ezra e Ashraf, ebreo arabo il primo, arabo israeliano il secondo in un imprevedibile, vertiginoso rinvio di specchi - e riconoscimenti, negazioni rimozioni: ripensamenti: smarrimenti. E amaro allora, e icastico di questi tempi di pace e sicurezza attraverso i muri e le esclusioni, che l'intervista più intricata da organizzare sia stata quella a Nurit Peled e Bassam Aramin: inventarsi un luogo in cui potessero arrivare entrambi, israeliana lei, una figlia uccisa in un attacco suicida, palestinese lui, una figlia uccisa a un checkpoint - due vecchi amici che chiacchierano di istinto in arabo e ebraico insieme. Sono nati a pochi chilometri di distanza in due mondi lontani: il titolo della loro intervista è oggi il titolo di questo libro perché le loro vite, rigo a rigo, finiscono per diventare indistinta una sola. E perché quando all'ultima pagina mi sono persa, cercando la strada per Gerusalemme, non mi sono ritrovata dentro che il rabbino Arik Ascherman: beit, arabo e ebraico hanno la stessa parola per dire casa.

E però "qualcuno con cui parlare" è anche, forse soprattutto, il ribaltamento di quel "non aprire mai" che è stato il titolo del mio primo libro, scritto dal Kosovo - meglio: dalla nostra ambasciata in Kosovo, e quello strano acquario di Nazioni Unite e istituzioni e sigle sparse i cui funzionari avevano in comune un'unica certezza: "se i Balcani non esistessero, non bisognerebbe inventarli": la diversità come ostacolo, invece che ricchezza. Avevo ventiquattro anni e l'aria perplessa, ed era stata, impeccabile, l'introduzione alla politica occidentale: perché è semplice non sentire certi sguardi addosso, quel granchio dentro - è sufficiente dicevano, "non aprire mai". Timbrare disciplinati il cartellino in attesa di una promozione altrove, vivere impermeabili tra internazionali: niente serbi né albanesi. Da un diario a interviste: sono io, soprattutto, ad avere trovato qualcuno con cui parlare: questo libro è insieme, il mio sguardo e il mio ritratto. E scomodo allora, e come porta stretta, il passaggio dall'osservare l'Altro a essere l'Altro: per scoprire che non è affatto "la nostra libertà contro la loro oppressione", ma in modo molto più complesso, e come insegnava Norberto Bobbio, forme diverse di oppressione, e in costante evoluzione - non esiste, ammoniva, una libertà conquistata per sempre. Tra tutto - le donne. La Palestina è un paese molto particolare: intanto musulmano e cristiano: e poi gli stranieri, la diaspora: un vicino cosmopolita come Israele - la Palestina per capire non è abbastanza. Ma quale che sia la condizione delle donne nel resto del mondo, quello che so per certo è che è ruvido, dopo cinquant'anni, leggere Simone De Beauvoir e riconoscere che ancora racconta di me. Mariam Saleh non mi ha solo sorpreso: mi ha spodestato. Ministro di Hamas, mi ha spiegato il rapporto tra Corano e democrazia attraverso John Locke - la mia ignoranza della sua cultura: la sua padronanza della mia. Eppure per Henri, mediatore europeo studi a Princeton, voleva solo ingannarmi: è incompatibile con la democrazia, mi ha assicurato - "non è che a Princeton non siamo capaci di capire un Corano". Molto dipende, ripeto, dalle peculiarità della Palestina: e dalle persone scelte - il beduino che cita Kafka è un avvocato: ma in realtà, la commistione delle civiltà è la cosa più immediata da verificare, in Medio Oriente: e però in Occidente più difficile da dire. Forse perché niente è più difficile in guerra, per chi sopravvive, del soldato che improvviso ti sorride. Perché ancora: improvviso, non è più solo un soldato. E allora forse non è attacco, quello degli Henri, ma difesa: non sicurezza ma paura. Perché come nota uno degli operai che lavorano al nero negli insediamenti, costruendo la propria occupazione con cemento palestinese: "sarebbe tutto più semplice, qui, se davvero avessimo un Muro. Davvero sapessimo chi sta da una parte e chi dall'altra".

Ha in sé l'orma di un altro libro, questo libro, leggera della leggerezza di Italo Calvino, "L'alternativa mediterranea" di Franco Cassano e Danilo Zolo - in nome di don Tonino Bello e della sua pace come convivialità delle differenze, e non semplice distruzione delle armi, equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra: "il tentativo di resistere alla deriva fondamentalista dei due opposti monoteismi dell'imperialismo occidentale e dell'integralismo islamico". Perché è un Mediterraneo che è la cultura del limes, non certo la retorica del sole, degli agrumi e dell'ulivo: è il Mediterraneo di Braudel, in cui la tradizione greca e latina interagiscono con la cultura ebraica e il mondo arabo fino a forgiare un'entità unitaria. In cui unitarietà non è uniformità però, ma inclusività: e un mare dunque che non è un mare, "ma un complesso di mari, mari ingombri di isole, tagliati da penisole, circondati da coste frastagliate: mari mescolati alla terra" - è qui il Mediterraneo, "in quella risacca che lascia su ogni sponda il segno dell'altro": nella convinzione che si può combattere l'integralismo altrui solo attraverso la decostruzione del proprio, oggi che non ci riscopriamo che "soggetti consumatori apparentemente liberi, sostanzialmente soli, subdolamente subalterni". Ed è per questo che ho scelto di raccontare Gaza attraverso un israeliano. Perché la droga più diffusa, oggi, a Gaza, è il Tramal: un antidolorifico - non per accelerare, ma addormentarsi e dimenticare: non avrei avuto altro da dire. Ho scelto un veterano di Piombo Fuso non perché le vittime di questa occupazione siano in realtà gli israeliani - i morti rimangono più vittime dei soldati: ma perché Israele è spesso considerata un caso a sé: ed è invece anche il laboratorio di molto di quanto accade nel resto dell'Occidente. Una società fondata con l'obiettivo della sicurezza: e però una sicurezza come esclusione: non più la sicurezza del welfare, ma delle frontiere e dei clandestini - la guerra che si confonde con la polizia. La stratificazione della cittadinanza, frantumazione dei diritti: quel Muro non è una barriera, ha ragione Michel Warschawski: è una filosofia, e nessuno è illeso - si chiama Schengen il nostro Muro. Israele è per me il giorno dell'intervista a David Wilder, tra quei coloni che mi studiavano con sospetto, e paura e ipocondria, loro che erano tutti armati. Forse sarei esplosa da un momento all'altro: fuori intanto, due soldati manganellavano un uomo nell'indifferenza - è incastonata nel paesaggio, ormai la violenza in Israele. E in questo senso allora, un paese come un paradigma: come un'anticipazione: di queste nostre identità concepite sempre più come negazione, invece che relazione. Forse ha ragione Marwan Barghouti: forse non è lui, il prigioniero.

Ultimi, i beduini. Perché ho riletto gli appunti, un paio di mesi dopo, e mi sono accorta che erano semplicemente inutili: che ero lì per 'spiegare' i beduini: come vivono, cosa pensano, queste domande variamente insensate su chi governa, chi risolve le controversie l'autorità, il ruolo delle donne. E perché è questo il risultato della nostra cultura: che ti ritrovi in mezzo al deserto, e non ti viene di meglio da fare che arrampicarti a spiegare tutto, e come i personaggi di Italo Calvino, quelli che cercano di trovare un ordine nelle stelle nelle galassie, nelle finestre illuminate la sera tardi, mentre qualcuno passa la cera al pavimento degli uffici - "giustificate: giustificate se non volete che tutto vi si sfasci". E ho anche chiesto a un ragazzo di descrivermi una sua giornata. Si alza, ho annotato disciplinata, si lava le mani, porta le capre al pascolo anche se l'erba è finita e gli israeliani sparano, e niente: poi si alza, in una nuova giornata e - che domanda idiota: ma perché è la nostra ossessione, no?, tutta occidentale, il bilancio di mezzanotte, stiamo usando al meglio questo nostro poco tempo? e come Hannah Arendt: "il progresso risponde alla sconvolgente domanda: e ora cosa facciamo? Al livello più basso, la risposta è sviluppare quello che esiste in qualcosa di meglio. A sinistra, sviluppare le attuali contraddizioni nella loro intrinseca sintesi. In entrambi i casi, niente di assolutamente nuovo o completamente inatteso può accadere: quanto è rassicurante sapere, per dirla con Hegel, che non verrà fuori nient'altro che quello che esiste già". Perché la verità è che dei beduini ho capito zero, ed è invece proprio questa l'infinita bellezza che mi hanno regalato, le volte che le differenze non sono addomesticate dal logos, diceva Franco Cassano, le volte che sei e rimani radicalmente altro, e non sai spiegare, non sai capire - dominare: solo raccontare. "Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie", scriveva Italo Calvino, "ma la risposta che dà a una tua domanda. O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere" - è in questa relazione, coabitazione con l'Altro, in questo costringermi continuamente al confine delle mie identità, le mie certezze, che Israele e Palestina sono casa mia. Il luogo in cui più mi è naturale sentirmi straniera.

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