fonti: http://www.tecalibri.it/ - http://it.peacereporter.net - http://www.nena-news.com/


Pianificare l'oppressione
Le complicità dell'accademia israeliana
A cura di: Enrico Bartolomei, Nicola Perugini, Carlo Tagliacozzo


Edizioni SEB 27, Torino, 2010 - Laissez-Passer – 24



Pianificare l'oppressione
di Francesca Borri


Quando Una "Acca" Fa la Differenza
di Nicola Perugini


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Quando Una "Acca" Fa la Differenza
di Nicola Perugini

Antropologo politico. Attualmente lavora per UNESCO nella regione di Betlemme e Gerusalemme in progetti di conservazione del patrimonio culturale e sta conducendo una ricerca su spazio e diritto in Palestina.

postfazione del libro “Pianificare l’oppressione. Le complicità dell’accademia israeliana”, Seb27, Torino, 2010 a cura di Enrico Bartolomei, Nicola Perugini, Carlo Tagliacozzo.

Gerusalemme 29 giugno 2010 Nena News – Alcune settimane fa, durante una ricerca di documentazione e carte geografiche per un progetto UNESCO di conservazione del paesaggio nelle aree rurali di Betlemme – progetto a cui sto collaborando in qualità di consulente –, mi sono recato all’Università ebraica di Gerusalemme, presso il Dipartimento di Scienze Sociali, “Divisione delle Mappe”. La maggior parte delle mappe storiche della Palestina, soprattutto le mappe pre-1948, non sono reperibili presso le università palestinesi, che si tratti di mappe relative ai Territori occupati o alla più ampia Palestina storica. La motivazione è molto semplice: il patrimonio di saperi cartografici e geografici prodotto dagli esploratori orientalisti del XIX secolo, le mappe del periodo dell’amministrazione coloniale britannica e quelle dei primi esploratori sionisti finanziati dal Jewish National Fund sono stati pressoché integralmente “fagocitati” da istituzioni accademiche e amministrative dello stato di Israele, prevenendone l’accesso alle istituzioni accademiche e amministrative palestinesi. La condivisione di questi saperi, un semplice sguardo riflessivo sulle loro finalità e processi i produzione, una “mera” contestualizzazione storica, metterebbero in discussione alcune delle tanto più elementari, quanto efficaci, basi discorsive della tragedia palestinese. All’entrata dell’Università ebraica, accompagnato da un ricercatore che lavora presso quella istituzione, passo tre check-point e mi incrocio con gli addetti ai controlli di sicurezza: tutti giovani tra i 20 e i 25 anni, solo ed esclusivamente ebrei, di varia origine. Mostro loro il mio tesserino UNESCO e mi dicono che posso entrare solo se accompagnato da un ricercatore dell’università. Le visite di ricercatori e “curiosi” esterni all’Università ebraica sono tollerati solo se accompagnate e garantite da un “interno”. Il mio accompagnatore mi spiega poi che i giovani che ci hanno perquisiti e “scandagliati” sono universitari o post-universitari assunti nel servizio di sicurezza sulla base di una selezione in cui il criterio determinante è quello di essere “non-arabi”, cioè “non-palestinesi”. In sostanza, le università filtrano le entrate dei visitatori esterni attraverso il reclutamento di personale prevalentemente interno, “filtrato” attraverso il criterio dell’appartenenza alla “maggioranza ebraica”. Attraversando alcuni corridoi, per raggiungere la “Divisione delle Mappe”, si costeggiano alcuni bar universitari. La logica della separazione, penetra sempre di più il mio sguardo e lo riflette su ciò che vedo. I bar universitari sono pieni di israeliani di origine “non-palestinese”, molti di loro ashkenaziti, qualche etiope… Chiedo al mio accompagnatore: “Non ci sono iscritti palestinesi d’Israele?” Mi risponde: “Ce ne sono, ma qua le etnie non sono mischiate. E poi i palestinesi se nestanno da soli: non consumano, si portano il cibo e le bevande da casa e se ne stanno nel loro angolo”. L’accompagnatore, poco dopo, mi racconta che proprio all’entrata dell’Università ebraica i controlli sono particolarmente capillari per i “non-ebrei”, e che dal controllo su questi ultimi nascono la maggior parte degli episodi di scontro. La separazione esiste all’interno dell’università, viene praticata alle sue porte nelle vesti dei controlli di sicurezza. Sembra molto più sottile e dotata di strumenti diversi da quelli del modello sudafricano. Non ha neanche bisogno di essere esplicitata. Incomincio a dubitare sull’opportunità di proseguire la mia ricerca, ma subito dopo mi dico di andare avanti, perché forse vale la pena di scoprire altro.

Entriamo nell’archivio della “Divisione delle Mappe”. Mi presento alle due archiviste, una giovane studentessa e una donna sulla cinquantina. Si presenta anche il mio accompagnatore, ricercatore dell’Università ebraica, ma dopo un breve attimo di distensione, le due archiviste incominciano, sospettose, a porre domande sulla natura della mia ricerca con UNESCO. Provo a spiegarmi in termini “neutrali”, uscendo dalla logica della nazionalità del paesaggio su cui UNESCO ha intenzione di intervenire per la sua protezione. Poi, in un secondo momento, dopo che l’idea di conservazione del paesaggio sembra lasciare perplesse le archiviste, uso nomi ebraici per definire l’area del mio interesse: “Vorrei vedere il materiale cartografico dell’area di Gush Etzion [il Blocco di Etzion, l’agglomerato coloniale di insediamenti a ovest di Betlemme e a sud di Gerusalemme] durante il mandato britannico”. Mi vengono mostrate le mappe che ho richiesto. Chiedo di poterne avere alcune copie. Le due archiviste contravvengono alle norme interne dell’università, negandomi le copie per motivi non precisati, nonostante il mio accompagnatore sia un ricercatore dell’Università Ebraica. Mentre chiedo spiegazioni, erroneamente, definisco la mia area di ricerca con il suo vero nome, “area dei villaggi occidentali di Betlemme”, pronunciando forse troppo, con accento arabo, la acca di Beitlahem. L’archivista più giovane si mostra un pò risentita e ripronuncia Betlemme con accento ebraico, rimarcando l’assenza dell’acca. Poco dopo esclama: “il progetto dell’UNESCO ha l’aria di un progetto molto politico”. Tutto perché avevo alternato al nome coloniale il nome palestinese dell’area, tutto per colpa, o per merito, di un’acca.

L’Università ebraica di Gerusalemme è, tra le istituzioni menzionate in questa raccolta di saggi, una delle tante accademie israeliane analizzate dagli autori del nostro libro e di cui soprattutto Uri Yacobi Keller (Seconda Sezione) mette in luce il grado di partecipazione alle politiche oppressive di Israele, tanto al suo interno quanto nei Territori occupati. Una semplice visita a questa università consente di respirarne il clima di separazione e discriminazione. Un tentativo di consultare i materiali di uno dei suoi dipartimenti più “sensibili” permette di assaggiare la non-pubblicità e la segretezza – in violazione della libertà accademica e della libera circolazione del sapere – di parte della documentazione che essa conserva “gelosamente”. Una ricerca più approfondita di scritti scientifici è sicuramente in grado di mettere in luce ulteriormente gli aspetti più microscopici dell’aberrazione che essa costituisce. Solo per fare un esempio, il testo di Meron Benvenisti Sacred Landscape, che nei suoi capitoli finali si schiera in maniera molto ideologica contro il diritto di ritorno dei profughi palestinesi nel loro paesaggio, ha tuttavia il merito di mostrare la cosustanzialità dei piani sionisti di “redenzione” toponimica di Erez Israel e della fondazione dell’Università ebraica da parte di Menachem Ussishkin, capo dell’Unità di Ridenominazione del Fondo nazionale ebraico, uno tra gli artefici della rimappatura e della ri-toponimizzazione biblica del paesaggio palestinese e della trasformazione di centinaia di migliaia di nomi di luogo arabi in nomi ebraici, nonché uno tra i fondatori della Union of Hebrew Teachers e principale promotore della fondazione dell’Università ebraica, da lui definita, prima della fondazione dello stato di Israele, “nuovo Tempio nazionale, palazzo della saggezza e della scienza del Monte Sion”. Nena News




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14/06/2010

Pianificare l'oppressione
di Francesca Borri

I documenti citati, alla base della Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Bycott of Israel e della Campagna per il Diritto allo Studio del Popolo Palestinese, sono ora raccolti in "Pianificare l'oppressione. Le complicità dell'accademia israeliana", 
a cura di Enrico Bartolomei, Nicola Perugini e Carlo Tagliacozzo, Edizioni SEB 27

A Haifa si studia come contrastare la minaccia demografica araba. Sempre più intellettuali, in Israele, sono ormai le retrovie dell'occupazione

"Nell'instabile realtà del Medio Oriente, siamo in prima linea per mantenere la superiorità tecnologica e militare di Israele". Sembra una pubblicità dell'esercito: è il biglietto da visita dell'università di Tel Aviv. In cui chi si arruola in giurisprudenza impara il diritto internazionale dal colonnello Sharvit-Baruch, consigliere giuridico delle forze armate durante l'Operazione Piombo Fuso - l'acrobata dell'interpretazione che ha autorizzato la decisione di mirare ai civili.

Mi astengo, dunque partecipo. Svezzati ormai all'inazione internazionale, cinque anni fa, nel primo anniversario del parere della Corte di Giustizia delle Nazioni Unite sull'illegalità del Muro, i palestinesi hanno raccolto le raccomandazioni conclusive dei giudici, e lanciato autonomi una campagna per il boicottaggio di Israele - nella convinzione che come per il Sudafrica dell'apartheid, l'unico freno sia imporre un costo economico e politico all'occupazione. L'ambizione del boicottaggio accademico, in particolare, l'astensione cioè dalla cooperazione con università israeliane, è incrinare la normalizzazione di un'occupazione che sempre più sbiadisce in abitudine e paesaggio. "Non mi è possibile venire e parlare di filosofia, così", ha spiegato Judith Butler declinando l'invito a un convegno, "come se l'iniziativa non avvenisse sullo sfondo dell'assedio di Gaza, di quel contesto tacito e violento che è oggi la vita ordinaria di Israele. Affermare lo status quo significa affermare l'occupazione. Non mi è possibile lasciare un momento da parte la povertà, la malnutrizione, le restrizioni alla libertà di movimento le incursioni, e parlare d'altro. Chi accetta di parlare d'altro contribuisce alla produzione di un discorso pubblico limitato, che ha per suo obiettivo la rimozione, e dunque la continuazione, dell'oppressione". L'appello al boicottaggio si basa infatti sulla percezione, e la condanna, dell'indifferenza della larga maggioranza degli intellettuali israeliani nei confronti dell'occupazione - una neutralità che non è che invece sostegno al più forte. Ma non è solo questione di silenzio e negazione. In realtà, dall'arsenale delle giustificazioni ideologiche alla collaborazione diretta con l'apparato militare, "il boicottaggio ha raggiunto l'università perché l'università ha scelto di essere ufficiale e nazionale", ha scritto Ilan Pappé. Uno che del boicottaggio, e non solo accademico, è tra i promotori perché testimone diretto della sua efficacia, quando ancora era professore a Haifa: tra minacce anonime e poliziotti chiamati a impedire i suoi seminari sul 1948, è stato costretto a trasferirsi in Inghilterra.

Contiguità e complicità. L'accusa più diffusa, per il boicottaggio accademico, è di essere in realtà controproducente: colpire quel segmento del paese più sensibile alle ragioni dei palestinesi. Un segmento che però, dall'analisi di Uri Yacobi Keller, non sembra propriamente quello a cui affidare tentativi di pace. Il Technion di Haifa per esempio, consapevole che sempre meno israeliani hanno voglia di combattere, e soprattutto morire, nei Territori, ha prontamente progettato ruspe telecomandate per la demolizione di case e olivi, e equipaggiato di intelligenza artificiale aerei privi di pilota. E il sostegno all'occupazione non è solo, esplicita, la ricerca a libro paga delle forze armate: è anche, e largo e vario, il trattamento preferenziale per gli studenti impegnati nell'esercito, perché riservisti o perché militari di carriera: borse di studio, quote riservate nelle facoltà a numero chiuso, addestramenti convertibili in crediti, lezioni e appelli supplementari - la Ben Gurion di Beersheva, in cui gli ufficiali dell'aeronautica si laureano in un anno invece che tre, ha premiato con trentacinque euro al giorno gli assenti per Piombo Fuso. Una miriade di benefici che si ribaltano inevitabili, tra l'altro, nella discriminazione di quanti non vogliono o non possono servire nell'esercito: gli obiettori di coscienza, ma soprattutto i cittadini arabi di Israele - che per questo, per esempio, non sono ammessi nei dormitori dell'università di Haifa. Nonostante l'eguaglianza formale, gli studenti arabi sono progressivamente falciati via da un setaccio di ostacoli sociali e culturali restituito alla luce da statistiche inequivoche: sono oltre il 20 percento della popolazione: ma poi solo il 10 percento delle lauree, il 5 percento dei master, il 3 percento dei dottorati - l'1 percento dei professori. E dalla contiguità si scivola rapidi in complicità. Con un contributo fisico, mattone a mattone, all'occupazione, quando la Bar Ilan di Tel Aviv inaugura una sede distaccata nell'insediamento di Ariel "per fortificare i futuri confini di Israele" - ma anche, e più sottile, neurone a neurone, con un contributo intellettuale e morale: Arnon Sofer, cattedra di geostrategia a Haifa, studia l'ebraicizzazione della Galilea come altrove si studia la riforestazione dell'Amazzonia. Cementando così, e nella più totale impunità, denuncia Omar Barghouti, quella cultura del razzismo e della disumanizzazione, del disconoscimento dell'Altro che è il Muro più invisibile e insidioso, ormai, alla cui ombra sono confinati i palestinesi.

Laurearsi criminali. L'icona di questa mobilitazione e coscrizione delle istituzioni civili è l'università di Tel Aviv, i cui programmi di ricerca sono spesso organici alle priorità di sicurezza stabilite dagli apparati militari. Costruita sulla Pompei di Sheikh Muwanis, villaggio arabo divelto nel 1948, l'università di Tel Aviv ospita l'Institute for National Security Studies, il principale think tank strategico di Israele: un centro di ricerca in borghese, e impegnato invece, e sistematico, in quella che definisce "la ristrutturazione delle forze armate a fronte di un conflitto ormai asimmetrico e non convenzionale". I programmi di ricerca commissionati e finanziati direttamente dall'esercito sono oltre cinquanta, dagli esplosivi e tecniche di classificazione biometrica e genomica, a cui si dedica la facoltà di chimica, alle tecniche di intercettazione e videosorveglianza affinate nella facoltà di ingegneria. Ed è nelle sue aule, in particolare, tra libri di diritto internazionale mai neppure sfogliati, che è stata elaborata la Dottrina Dahiya denunciata dal Rapporto Goldstone - la teoria dell'attacco intenzionalmente indiscriminato come sola opzione realistica contro il terrorismo. "Avremmo dovuto progettare una guerra tra Israele e il Libano, non tra Israele e Hezbollah", si pentiva una rivista dell'università, numero di novembre del 2008, in un articolo intitolato Forza sproporzionata: il concetto di risposta di Israele alla luce della seconda guerra del Libano: "le sofferenze di centinaia di migliaia di persone sono capaci di influenzare chi è al potere più di ogni altra cosa". Non è sufficiente limitarsi agli obiettivi militari, dunque, ma al contrario - è inutile braccare i lanciatori di razzi, uno a uno: è necessario colpire con violenza l'intera popolazione, costringere a lunghi e costosi processi di ricostruzione, perché sia la stessa popolazione, esausta e affamata, a isolare i movimenti islamici. Il laboratorio dell'università di Tel Aviv, al confine con l'Egitto, dispone oggi di oltre un milione e mezzo di cavie.

Sapere è resistere. La fiducia nell'efficacia del boicottaggio accademico si àncora alla consapevolezza che l'economia israeliana è un'economia della conoscenza, esportatrice di tecnologia - un'economia terza dietro Stati Uniti e Cina per numero di imprese quotate al Nasdaq, in un paese piccolo quanto la Toscana. Diversa invece la motivazione alla base della campagna per il diritto allo studio promossa in Italia da Danilo Zolo, con l'obiettivo di intensificare le relazioni tra le nostre università e i Territori Occupati. Perché le università palestinesi hanno un ruolo non solo culturale, ma anche sociale e politico: sono da sempre "arene per il pensiero critico e la perizia tecnica", nella sintesi del rettore della Birzeit di Ramallah: l'energia motrice della costruzione del futuro stato indipendente e sovrano - e soprattutto oggi, con una Autorità Palestinese intrappolata dalle norme di Oslo a governare senza neppure mappe aggiornate: i loro centri di ricerca sono una risorsa insostituibile per l'analisi, il monitoraggio, la programmazione dell'intervento pubblico. E questo ruolo di state-building è integrato da un ruolo, non meno essenziale, di nation-keeping. Per contrastare quello che è il disegno di fondo di Israele: il de-sviluppo, secondo la formula di Sara Roy, l'atomizzazione della società palestinese in una aggregazione di individui malleabile allo sfruttamento e alla subordinazione - la cosiddetta pace economica. E studiare, allora, curare e coltivare la propria identità collettiva, diventa la prima forma di resistenza. Non a caso Birzeit è stata chiusa già negli anni Settanta: molto prima che l'Intifada offrisse agli israeliani il pretesto della sicurezza per sigillare anche gli asili - e qualificare come reato il semplice possesso di libri. Dopo Oslo, l'assalto al diritto allo studio ha solo cambiato natura: ancora incursioni e proiettili, naturalmente, ancora soldati a sbarrare l'ingresso, e sullo sfondo precario di una sopravvivenza per molti aggrappata ormai agli aiuti umanitari: ma soprattutto, le restrizioni alla libertà di movimento. Perché se a Gaza è vietata persino l'importazione di inchiostro, e si spara alle navi cariche di pacifisti e quaderni, nella West Bank le università rischiano di asfissiarsi in istituzioni locali. Formalmente, ci si laurea comunque: ma l'isolamento sgretola l'unica trincea possibile contro quello che è per Danilo Zolo l'etnocidio in corso - la progressiva erosione dell'identità storica, culturale, sociale dei palestinesi: della loro identità unitaria di popolo.

Boicottare chi boicotta. Secondo Alan Dershowitz, il boicottaggio accademico è un inammissibile attacco alla libertà di parola, che è insieme libertà di esprimersi e libertà di essere ascoltati. E ricorda pericolosamente il boicottaggio degli ebrei precipitato passo a passo in Olocausto: è infatti un boicottaggio selettivo, osserva, invocato solo nei confronti di Israele, tra i mille altri paesi responsabili di violazioni dei diritti umani - è una forma di antisemitismo. In effetti, l'ultima illustre vittima è stato l'ebreo Noam Chomsky, respinto alla frontiera da quella che è stata definita "una polizia del pensiero". "Il governo non apprezza quello che lei dice", si è sentito spiegare. Alla frontiera di Israele.

Tuttavia non si dirà: i tempi erano oscuri / ma: perché i loro poeti hanno taciuto?

Bertolt Brecht

 

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