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14 marzo 2011

Diritto, Occupazione, Apartheid
di Angelo Stefanini

La "Israeli Apartheid Week 2011" ha riacceso il confronto duro tra sostenitori di Israele e attivisti dei diritti palestinesi. Su questo tema Nena News vi propone il seguente approfondimento

Gerusalemme, 14 marzo 2011, Nena News – Uno dei maggiori successi della narrazione pro-israeliana sulla questione palestinese e’ la quasi totale obliterazione della condizione di occupazione che il territorio palestinese sta subendo da parte di Israele. Dopo ben 43 anni (dalla “guerra dei sei giorni” del 1967) ancora oggi buona parte dell’opinione pubblica mondiale non e’ a conoscenza del fatto, o tende a sottovalutarne il significato, che il governo israeliano sta occupando militarmente il territorio che con l’armistizio arabo-israeliano del 1949 le Nazioni Unite affidarono ai palestinesi.  Si tratta dell’occupazione piu’ lunga della storia moderna. Non e’ un caso che i governi piu’ favorevoli alla causa israeliana (o forse i meno coraggiosi) non applichino nel loro linguaggio diplomatico quella che e’ la denominazione ufficiale delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dei maggiori consessi internazionali: territorio palestinese occupato (TPO).  La legislazione internazionale riconosce e accetta di buon grado il principio che territori altrui possano essere occupati con la forza, ma soltanto come condizione temporanea in attesa di giungere alla pace. La 4a Convenzione di Ginevra, tuttavia, impone obblighi ben precisi alla potenza occupante allo scopo di proteggere la popolazione occupata.

L’occupazione del territorio palestinese, inoltre, ha caratteristiche assolutamente speciali. In primo luogo e’ accompagnata da elementi espliciti di colonialismo,  uno dei quali e’ rappresentato dal quasi mezzo milione di coloni ebrei insediati nella Cisgiodania, a Gerusalemme Est e, fino al 2005, nella striscia di Gaza. In effetti, il conflitto e’ di tipo coloniale essendo radicato nell’ideologica del “Sionismo politico”   che mira a creare una maggioranza ebraica nella Terra di Israele (Eretz Israel) allo scopo di giungere ad uno Stato Ebraico per il Popolo Ebraico. I paesi, le citta’ e gli insediamenti costituiti in territorio palestinese dal 1967 da coloni ebrei israeliani, con il fattivo sostegno del governo israeliano, continuano ad aumentare e rappresentano probabilmente l’ostacolo maggiore ad un futuro accordo basato su due stati contigui e indipendenti. Infatti la creazione di colonie all’interno del TPO non soltanto viola l’art. 46, para 6, della 4° Convenzione di Ginevra, ma rappresenta, come detto sopra, anche una chiara forma di colonialismo che ebbe inizio, ironia della storia, proprio negli anni della decolonizzazione.

Un secondo elemento che differenzia e aggrava l’occupazione israeliana del territorio palestinese e’ il fenomeno della discriminazione su basi etniche e del vero e proprio apartheid presente non soltanto nel TPO, ma anche all’interno dello Stato di Israele. La stessa definizione di apartheid e’ controversa. Il termine proviene dalla lingua afrikaaner (“separazione”, “segregazione”) e si concretizza nell’istituzionalizzazione di un regime di discriminazione razziale sistematica o in “un sistema politico dove il razzismo e’ regolamentato per legge attraverso atti del parlamento”.  La Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid del 1973 definisce apartheid le “politiche e pratiche di discriminazione e segregazione razziale…” che hanno l’intento di “stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su di un altro e opprimerlo sistematicamente.”   L’art.3 dell’International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination condanna espressamente l’apartheid e la discriminazione razziale definita come “la distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata su razza, colore, discendenza, oppure origine nazionale o etnica che ha lo scopo o l’effetto di nullificare o ridurre il riconoscimento, godimento o esercizio, su di un piano di parita’, dei diritti umani e delle liberta’ fondamentali nella vita politica, economica, sociale, culturale o qualsiasi altro campo della vita pubblica.”

2. Discriminazione e apartheid nel TPO

Il Rapporto per l’anno 2010 dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulle violazioni ai diritti umani commesse da Israele nei Territori Palestinesi Occupati fa uso per la prima volta di esplicite espressioni come ‘apartheid’, ‘colonizzazione’ per riferire di quanto sta accadendo nel TPO. “… e’ opinione dello Special Rapporteur che un simile linguaggio descriva in modo piu’ accurato le realta’ dell’occupazione alla fine del 2010 e che le narrazioni apparentemente piu’ neutrali dei fatti mascherino le strutture di questa occupazione che per 43 anni ha minato i diritti dei palestinesi garantiti dalla legislazione internazionale.”

E’ stato lo stesso ex-consigliere del ministro della difesa israeliano, Haggai Alon, ad usare quest’espressione (“apartheid policy”) descrivendo la politica portata avanti dall’esercito israeliano per svuotare la citta’ di Hebron, nonostante faccia parte del territorio palestinese, dalla popolazione araba.  La parola ebraica “hafrada” (‘separazione’) viene da tempo utilizzata in Israele per indicare la politica di separazione tra arabi ed ebrei perseguita dal governo. Lo stesso Muro che Israele sta costruendo viene comunemente chiamato con il termine “barriera hafrada” ossia “barriera di separazione” o “muro dell’apartheid” e non con quello di “barriera di sicurezza” utilizzato invece a livello internazionale per giustificarne la necessita’ come protezione contro il terrorismo.

Questo linguaggio rivela la percezione a livello dell’opinione pubblica di quella che e’ un’esplicita scelta di netta separazione, e in parte di vero e proprio razzismo, nei confronti dei palestinesi e degli arabi in genere. Il muro, che una volta terminato misurera’ circa 760 km. (ossia quasi il doppio della lunghezza della Green Line, la linea di confine fissata nel 1949 tra Cisgiordania e Israele), in realta’ non e’ inteso a separare ebrei da palestinesi in quanto dalla sua parte orientale rimangono 69 insediamenti con circa 60.000 coloni ebrei. Lungo quattro volte quello di Berlino, esso separa 33.000 palestinesi e il 12% del territorio palestinese dal resto della Cisgiordania. Esistono inoltre altri 200.000 palestinesi residenti in paesi e citta’ completamente circondati dal muro con un’unica via d’uscita. Il 25% dei 253 mila palestinesi di Gerusalemme Est, dopo la sua costruzione, si troveranno, loro malgrado, dalla parte sbagliata del muro.

Apartheid e’ l’espressione esplicitamente utilizzata anche dall’ex Presidente Jimmy Carter in un suo libro del 2006 che ha suscitato aspre polemiche e mostrato l’intransigenza intellettuale dell’autore di fronte alle pressioni delle potenti organizzazioni pro-israeliane.  Molti gruppi ebraici, compresi gli oltre 10 mila membri della Jewish Voice for Peace, hanno espresso il loro plauso al coraggio di Carter.

I Jews for Justice for Palestinians hanno svolto un’analisi eccellente dell’apartheid israeliano  mentre gli European Jews for a Just Peace, comprendente 16 organizzazioni ebraiche in nove paesi europei, hanno fatto appello alla fine delle politiche israeliane di “oppressione, segregazione e umiliazione”.  Secondo l’antropologo israeliano Jeff Halper, quello che succede ai palestinesi e’ ben piu’ che essere discriminati: essi sono derubati ed espropriati (“nishul” in ebraico) . Un esempio che riguarda il territorio palestinese e’ la sua frammentazione, imposta da Israele, in un arcipelago di “zone sovrane” non contigue tra loro, analoghe ai Bantustan del regime razzista sudafricano, descritte dallo stesso architetto israeliano di tale aberrazione come “uno Stato palestinese permanentemente temporaneo”.

Rimanendo nel TPO, la legge che riguarda la cosiddetta “Seam Zone”, cioe’ l’area compresa tra il muro di separazione e la Green Line, e quindi a tutti gli effetti territorio palestinese, stabilisce che gli israeliani possano circolare liberamente mentre i palestinesi, molti dei quali possiedono terre o abitazioni in quella zona, necessitano di un permesso speciale. Esistono inoltre leggi che obbligano i palestinesi ad ottenere permessi per potersi muovere all’interno della stessa Cisgiordania, e tra questa e Gaza e Gerusalemme Est (occupata nel 1967 e illegalmente annessa in maniera formale ad Israele nel 1980).

Nel TPO avvengono inoltre discriminazioni non sancite da leggi ma praticate quotidianamente. Un tipico esempio è il sistema dei posti di blocco la cui regolamentazione e’ a totale discrezione del comandante militare. Non esiste una legge israeliana che stabilisca, per esempio, che i palestinesi di eta’ tra i 16 e i 35 anni non possano uscire dalla citta’ di Nablus. La decisione e’ totalmente arbitraria (“questione di sicurezza” e’ la giustificazione addotta), chi la prende non deve renderne conto a nessuno ed e’ applicata per un periodo sconosciuto.

Nel maggio 2009 l’Human Sciences Research Council of South Africa (HSRC) ha pubblicato i risultati di un’approfondita ricerca intesa ad analizzare se la condotta di Israele nel TPO possa rientrare nelle definizioni di colonialismo e apartheid fornite dalla legislazione internazionale. Lo studio, durato 15 mesi, e’ stato svolto da un team composto di esperti in diritto internazionale provenienti da Sud Africa, Gran Bretagna, Israele e Cisgiordania.

Riguardo all’ipotesi di colonialismo, lo studio evidenzia come la politica di Israele sia di frammentare la Cisgiordania e annetterne una parte in modo permanente, cosa che costituisce una caratteristica essenziale del colonialismo. Israele nel TPO si e’ appropriata di terre e di risorse naturali, ha fuso l’economia palestinese con la propria e ha dominato il popolo palestinese per assicurare la sua sottomissione a tali misure. Israele ha inoltre negato ai palestinesi il diritto a governare le loro risorse naturali e i loro affari economici. Tali pratiche violano la proibizione al colonialismo che la comunita’ internazionale ha sancito negli anni ‘60 durante il grande periodo di decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia.

Il gruppo di studio ha inoltre evidenziato come le leggi e le politiche israeliane nel TPO rientrino nella definizione di apartheid della Convenzione Internazionale sulla Soppressione e Punizione del Crimine dell’Apartheid. In breve, la legge israeliana definisce la popolazione ebraica come un gruppo distinto con speciali diritti e privilegi. Tale legislazione viene inoltre estesa al TPO in modo da attribuire privilegi ai coloni ebrei e svantaggi ai palestinesi sulla base delle loro identita’, intese come identita’ razziali nel significato fornito dal diritto internazionale. Un esempio di apartheid e’ individuato specialmente nella demarcazione della Cisgiordania in “riserve” geografiche in cui i palestinesi sono confinati a risiedere senza poterne uscire in mancanza di permessi speciali. Secondo il rapporto dell’HSCR questo sistema e’ molto simile alla politica del “Grand Apartheid” nel Sud Africa in cui i neri erano confinati nei Bantustan.

Anche il Rapporto Goldstone  denuncia come Israele imponga un regime che combina occupazione, colonialismo e apartheid. Per esempio, nel para 206 esso afferma che, avendo applicato fin dal 1967 la sua legislazione nazionale al TPO nonostante la proibizione imposta dal diritto internazionale, Israele ha istituzionalizzato la discriminazione nei confronti dei palestinesi a beneficio dei coloni ebrei, cittadini ebrei israeliani o altro. I vantaggi esclusivi riservati agli ebrei, continua il Rapporto, derivano dai due tipi di stato civile che vigono nella legislazione israeliana, ossia la “nazionalita’ ebraica” distinta dalla “cittadinanza israeliana”. Il primo tipo di stato civile concede diritti e privilegi superiori a “persone di razza o discendenza ebraica”, particolarmente nell’uso della terra, abitazioni, sviluppo, immigrazione e accesso alle risorse naturali. Le procedure amministrative, invece, definiscono gli abitanti autoctoni del TPO come “persone aliene” proibendo loro di costruire o affittare su larga parte della terra designata dal governo di Israele come “Terra Statale”. Il para 207 del Rapporto fa inoltre notare come l’uso di un doppio stato civile che favorisce le persone di nazionalita’ ebraica (le’om yehudi), rispetto a coloro che posseggono soltanto la cittadinanza israeliana (ezrahut) ma sono di altra nazionalita’ (ad es. araba), istituzionalizzi una profonda discriminazione a svantaggio dei palestinesi.

Vediamo ora alcuni esempi pratici di discriminazione e apartheid che avvengono nel TPO.

Disuguale allocazione dell’acqua: I palestinesi in Cisgiordania hanno accesso soltanto a un quinto dell’acqua consumata dagli israeliani, nonostante che la maggior parte della falda acquifera usata da entrambi i gruppi si trovi nel territorio palestinese. Isreale si e’ impossessato dell’83% delle acque sottostanti la Cisgiordania a favore dei suoi residenti e dei coloni, lasciando i palestinesi in una carenza spaventosa. I palestinesi non possono accedere alle acque del bacino del Giordano, totalmente nelle mani di Israele. La maggior parte dei palestinesi non può perforare nuovi pozzi e quindi deve acquistare acqua da Israele. Secondo la Banca Mondiale,  fino ad un terzo di questa acqua viene sprecata a causa delle perdite delle reti vecchie e inefficienti, condizione a sua volta dovuta alle restrizioni a cui i palestinesi sono sottoposti. In pratica, i palestinesi hanno accesso a non piu’ di 60-70 litri pro capite al giorno e alcuni sopravvivono con non piu’ di 10-20 litri per persona al giorno. Questi livelli sono inferiori a quelli precedenti al 1967, anno in cui e’ iniziata l’occupazione israeliana e da cui la popolazione palestinese e’ piu’ che raddoppiata.  Fino al giugno 2006 circa 215.000 palestinesi in 220 villaggi vivevano in comunita’ prive di impianti di acqua corrente. Nelle citta’ palestinesi con acqua corrente è spesso utilizzato un sistema a rotazione, che limita il flusso in ore diverse per fornire acqua a tutti i villaggi. A causa dell’aumento della domanda nella stagione calda, l’impresa israeliana Merkerot discrimina tra le due parti aumentando la quantita’ di acqua a disposizione dei coloni a spese delle comunita’ palestinesi. E’ successo anche che soldati israeliani abbiano sparato alle cisterne di acqua palestinesi rendendole inutilizzabili.

Un altro esempio di separazione e apartheid e’ quello vigente nel sistema stradale. Fu proprio con l’uscita del rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem  sulle “strade proibite” che si comincio’ a parlare esplicitamente di regime di apartheid: strade per palestinesi e strade per ebrei. Nella Cisgiordania (che, ricordiamo, e’ territorio palestinese) circa 700 km di strade sono segregati, ossia proibiti ai palestinesi. Esistono categorie diverse di strade: completamente proibite, parzialmente proibite (a meno di possedere permessi speciali), fisicamente inaccessibili, ecc. Non esistono leggi che impongano un uso delle strade nel TPO distinto tra israeliani e palestinesi: strade per i poveri e strade per i coloni. Tuttavia questo e’ cio’ che praticamente succede. I palestinesi hanno targhe diverse dai residenti in Israele (compresa Gerusalemme Est). I primi devono attendere in lunghe code ai posti di blocco mentre gli altri possono tranquillamente transitare. L’ex ministro dell’istruzione israeliano Shulamit Aloni racconta di quando, avendo chiesto ad un soldato israeliano quale legge gli consentisse di confiscare un’auto palestinese che percorreva una strada riservata ai coloni ebrei, si senti’ rispondere: “E’ questo quello che dovremmo fare? Mettere segnali che indichino ‘Riservato ai coloni’ ‘Riservato ai palestinesi’ e lasciare cosi’ che qualche giornalista antisemita li fotografi per mostrare al mondo che qui esiste l’apartheid?” E’ comprensibile la tentazione di paragonare questo tipo di apartheid con quello presente nel Sudafrica fino agli anni 90. Quello sudafricano tutto sommato era tuttavia piu’ ‘onesto’ non avendo ritegno a indicare esplicitamente che cosa fosse consentito ai bianchi e che cosa ai coloured.

Gli ebrei israeliani possono viaggiare liberamente nella Cisgiordania (anche se non possono entrare nelle citta’ palestinesi). I palestinesi all’interno della Cisgiordania devono fare i conti con la limitazione della liberta’ di movimento dovuta a ostacoli di vario tipo posti dall’esercito israeliano. Nel marzo 2010 tali ostacoli ammontavano a 505 tra cui 65 posti di blocco militari con personale permanente, 22 “parziali” e 418 blocchi senza personale, come ostacoli fisici sulla strada (blocchi di cemento, cumuli di terra, barriere di vario tipo, trincee, ecc.). Checkpoint “volanti” sono quelli che improvvisamente e senza preavviso sono installati sulle vie di comunicazione dei palestinesi che spesso si trovano costretti a deviare il proprio percorso utilizzando vie alternative che possono fare ritardare il viaggio di ore.

Chiunque abbia un nonno ebreo ha il permesso di trasferirsi in Cigiordania e sistemarsi sulla terra sottratta ai palestinesi. Eppure Israele rifiuta di concedere un visto permanente ai palestinesi che vivono in altre parti del mondo e che desiderino ritornare in Palestina. Molti uomini d’affari che sono rientrati dopo gli accordi di Oslo rischiano l’espulsione nonostante abbiano famiglie e figli che vivono in Palestina.    Inoltre, decine di migliaia di stranieri sposati con persone residenti nel TPO non hanno il permesso alla riunificazione familiare, ossia di vivere con i loro coniugi. Al contrario, i coloni ebrei che vivono nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale possono risiedere con il proprio partner a prescindere dal paese di origine.

Israele sta costruendo veri e propri ghetti circondati da mura, barriere e filo spinato per contenere ed isolare la popolazione palestinese, separandola dalle loro terre coltivate e dalle risorse acquifere, negando loro la capacita’ di sostenere le proprie famiglie con la terra che da secoli hanno coltivato. Colonie ebraiche provviste di ogni servizio e modernita’ continuano ad essere costruite su queste terre palestinesi. La striscia di Gaza e’ ormai trasformata in una vera e propria prigione a cielo aperto circondata da muri e barriere e con blocco delle importazioni ed esportazioni.    I villaggi palestinesi sono frequentemente utilizzati come zone di esercitazioni militari dall’esercito israeliano che compie incursioni notturne, terrorizzando le famiglie e gli abitanti. Naturalmente gli insediamenti colonici ebraici non sono soggetti a tali soprusi.

Una evidente discriminazione e uso di due pesi e due misure avviene nei confronti dei palestinesi vittime della violenza dei coloni.   Mentre la violenza dei coloni israeliani nel TPO e’ trattata con estrema tolleranza, quella dei palestinesi contro i coloni e’ repressa da esercito e polizia israeliani con ogni mezzo, a volte anche incompatibile con il diritto internazionale.

Israele pratica in modo esteso e, a detta dei critici, indiscriminato la cosiddetta “detenzione amministrativa”.  Essa consiste nell’arresto senza imputazione o processo, autorizzato soltanto da procedure amministrative e non su base giuridica. Secondo la legislazione internazionale tale pratica e’ permessa soltanto in casi eccezionali e come ultimo mezzo disponibile per prevenire un pericolo che non puo’ essere evitato con altri strumenti meno lesivi della liberta’ individuale. Ai prigionieri palestinesi non sono concessi gli stessi meccanismi di protezione di cui invece usufruiscono quelli ebrei. E’ spesso negata l’assistenza legale o di vedere i familiari, anche perche’, in violazione del diritto internazionale, sono detenuti in territorio israeliano. Contro di loro e’ spesso utilizzata la tortura e trattamenti disumani e degradanti.    Anche il Bureau of Democracy, Human Rights, and Labor del Dipartimento di Stato statunitense riconosce che Israele impiega “pressione fisica e trattamenti degradanti come metodi di interrogatorio contro i palestinesi arrestati nei territori occupati…” Tuttavia, nonostante la Corte Suprema abbia proibito l’uso di una serie di pratiche violente e illecite, ha permesso l’utilizzo di “moderata pressione fisica” nei confronti di prigionieri considerati in possesso di informazioni su attacchi imminenti, definiti “bombe a orologeria”.

Israele ha confiscato la maggior parte delle terre della Valle del Giordano e ha dichiarato quest’area off limits per i palestinesi senza permesso speciale. I contadini e interi villaggi di conseguenza hanno perso la loro fonte di sostentamento. Mentre gli agricoltori di Gerico non possono andare a visitare i parenti nel resto della Valle del Giordano parte del TPO, i coloni ebrei possono viaggiare indisturbati su tutto il territorio.    La valle del Giordano e’ classificata come area C e quindi, secondo gli accordi di Oslo, sotto il controllo israeliano. In questa zona Israele ha imposto severi divieti di costruzione e di movimento che colpiscono soltanto i palestinesi, costringendoli in pratica ad abbandonare la zona.    Il regime imposto da Israele nell’area C di tutta la Cisgiordania proibisce la costruzione di abitazioni sul 70% del territorio mentre nel restante 30% una serie di restrizioni in pratica elimina ogni possibilita’ di ottenere il permesso necessario per edificare. Di conseguenza ai palestinesi non rimane che costruire “illegalmente” con il rischio della demolizione della loro abitazione.     L’Israeli Committe Against House Demolition (ICAHD)  stima che dal 1967 al luglio 2009 in Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza sono state demolite 24.145 abitazioni di cui, secondo le Nazioni Unite, 4.297 a Gaza durante l’operazione Piombo Fuso (Dic. 2008-Gen. 2009).

Il fenomeno della demolizione delle case palestinesi e delle espulsioni di famiglie palestinesi dalle proprie abitazioni si sta facendo molto preoccupante a Gerusalemme Est    dove e’ evidente il tentativo delle autorita’ israeliane di modificare la composizione demografica della citta’ aumentando la presenza ebraica nella parte orientale storicamente popolata da arabi palestinesi.      Dei 17.600 acri (1 acro corrisponde a circa il 40% di un ettaro) di terra che comprende Gerusalemme Est (inclusa la Citta’ Vecchia e l’area commerciale), i cittadini palestinesi di Gerusalemme oggi hanno il diritto di usarne e costruirvi meno del 9%.

Pur rappresentando il 34% della intera popolazione della città, gli arabi di Gerusalemme Est  ricevono meno del 12% del budget sociale, nonostante il loro livello di povertà sia più del doppio dei residenti ebrei e il 77.2% dei bambini arabi sia al di sotto della soglia di povertà (in contrasto al 39.1% dei bambini ebrei). Ad essi va il 15% delle spese per l’istruzione, l’8% dei servizi tecnici e appena l’1.2% per la cultura e l’arte.    Esiste un’enorme mancanza di classi per le scuole arabe a Gerusalemme Est. Nell’autunno del 2006 almeno 131 studenti non furono ammessi a scuola per carenza di posti. Esiste una legge che garantisce la copertura delle spese in scuole private nel caso che la scuola pubblica non riesca ad assicurare il diritto allo studio. “Evidentemente non si applica agli arabi”, ha affermato il presidente della Parent Teacher Association.  Secondo l’Association for Civil Rights in Israel (ACRI),  nel 2008 Gerusalemme Est mancava di 1.500 aule, carenza stimata a 1.900 per il 2010. A partire dall’annessione, il governo israeliano ha espropriato oltre tre quarti delle terre private di proprietà di cittadini arabi. In quella parte della città mancano 70 km di linea fognaria e circa 160.000 residenti (oltre la metà della popolazione palestinese) non sono collegati alla rete pubblica dell’acqua.

3. Israele, bastione di democrazia?

Israele viene generalmente indicato come il bastione della liberta’ e unica democrazia che si oppone ai regimi dittatoriali e teocratici nel Medio Oriente.  E’ davvero Israele uno Stato sovrano, indipendente e democratico, governato da e per tutti i suoi cittadini secondo il significato etimologico della parola “democrazia”? (dal greco δῆμος (démos): popolo e κράτος (cràtos): potere).

La Dichiarazione di Fondazione (conosciuta come Dichiarazione di Indipendenza) dello Stato di Israele del 15 maggio 1948 recita: “Quindi noi, membri del Consiglio del Popolo, rappresentanti della Comunità Ebraica in Eretz [Terra] Israele e del Movimento Sionista, siamo qui riuniti nel giorno della fine del Mandato Britannico su Eretz Israel e, in virtù del nostro diritto naturale e storico e della risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dichiariamo la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d’Israele.”  All’interno di questa affermazione si trovano due posizioni tra loro contrapposte e difficilmente conciliabili. Da una parte, il nuovo Stato di Israele, rifacendosi alla risoluzione 181 delle Nazioni Unite,  si impegna legalmente e politicamente a rispettare lo Statuto delle Nazioni Unite e a conformarsi al diritto internazionale e ai valori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Dall’altra parte, la Dichiarazione si fonda espressamente sui principi del movimento politico sionista grazie al quale e’ stata possibile la creazione dello Stato “ebraico” di Israele.
Il Sionismo viene definito dalla Enciclopedia Ebraica  come il movimento nazionalista ebraico emerso alla fine del XIX secolo con lo scopo di fare rientrare il popolo di Israele nella loro storica terra di origine, la Terra di Israele secondo quanto promesso da Dio stesso nella Bibbia (Genesi 15:18-21). Il principio fondante di tale movimento tuttavia non e’ mai stato di natura liberale e democratica, ma etnocratica, nell’intento di costruire uno Stato “ebraico” riservato agli ebrei provenienti da tutto il mondo o che comunque assicuri, attraverso la legge e la pratica, una maggioranza demografica della popolazione ebraica nel territorio sotto il suo controllo. Fondato nel 1897 da Teodoro Herzl, questo movimento e’ meglio conosciuto come “sionismo politico” e va distinto dal “sionismo spirituale”  che invece si e’ sempre fortemente opposto all’idea di uno stato ebraico e rivolto alla istituzione di un centro culturale e spirituale per arricchire la vita degli ebrei ovunque essi si trovino.
Va quindi fatta una chiara distinzione tra Sionismo come programma politico ed Ebraismo come confessione religiosa. L’Ebraismo non e’ il Sionismo; in quanto scelta religiosa, dovrebbe essere una questione strettamente personale e, come tutte le preferenze individuali, non dovrebbe riguardare la legge. Il Sionismo come programma politico e’ invece ovviamente aperto al dibattito pubblico e dovrebbe essere oggetto legittimo di critica. Anti-ebraico o anti-semita e’ chi ritiene che gli ebrei non debbano godere, come minoranza, di pari dignita’ o di pari diritti nelle societa’ a maggioranza non ebraica. Anti-sionista e’ chi ritiene che creare uno stato sovrano ebraico nella regione detta Palestina (su cui la Gran Bretagna ha esercitato un mandato amministrativo per conto della Lega delle Nazioni dal 1920 al 1948) a scapito della popolazione che da secoli o millenni vi ha risieduto, e che mantenga, nella sua legislazione come nella sua pratica, una maggioranza demografica ebraica, non sia una buona idea. Una parte importante dell’Ebraismo ultra-ortodosso (come il gruppo dei Neturei Karta ) considera il Sionismo come la peggiore espressione dell’apostasia religiosa ebraica. Esistono ebrei anti-sionisti, ossia contrari al programma politico dell’organizzazione sionista. Essere anti-sionista non significa essere un razzista cosi’ come in Sudafrica il movimento anti-apartheid non era contro i bianchi.
La tragedia degli arabi palestinesi che vivevano e furono espulsi dalla terra poi diventata Stato di Israele, e di quelli che ancora vi abitano, e’ che i loro usurpatori e persecutori vengano identificati nella opinione pubblica, e nella narrazione ‘occidentale’ dei fatti, non come Sionisti ne’ come Israeliani, ma come Ebrei. Secondo l’antropologo ebreo anglo-israeliano Uri Davis, l’espressione “Stato ebraico e democratico”, come Israele si definisce, e’ un vero e proprio ossimoro in quanto al suo interno vigerebbe, attraverso Atti del Parlamento, un apartheid istituzionalizzato che evidentemente non si concilia con i valori democratici ed in particolare con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.   Una modalita’ in cui tale apartheid sarebbe radicato nella legislazione israeliana e’ l’uso dei concetti di “cittadinanza” e “nazionalita’”.
La “cittadinanza” e’ un certificato che descrive la relazione giuridica esistente tra un individuo e lo Stato. Nel caso della cittadinanza democratica lo Stato riconosce certi diritti (politici, civili, sociali e materiali) al cittadino. A differenza di Paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti che riconoscono un’unica cittadinanza (democratica) universale per tutti i propri cittadini senza distinzione di nazionalita’, religione, lingua, etnia, sesso o qualsiasi altra condizione sociale, nello Stato di Israele le cose vanno diversamente. Ispirato ai principi del Sionismo, infatti, il Parlamento israeliano, la Knesset, ha classificato i cittadini israeliani in quattro classi in base a considerazioni razziali (vedi nota iii). Nonostante formalmente la legge non discrimini tra le diverse classi di cittadini, nonostante cioe’ coloro che sono classificati come “non-ebrei” (circa il 25%) abbiano di fronte alla legge gli stessi diritti rispetto a coloro che sono classificati come “ebrei” ed entrambi possano partecipare alla vita politica, la discriminazione e’ invece evidente per quanto riguarda l’accesso alla proprieta’ della terra, ai servizi sociali e al welfare, oltre che alle risorse materiali dello Stato. Ai cittadini classificati come “non-ebrei”, infatti, e’ negato l’affitto o l’acquisto di terre e case nel 93% del territorio di Israele antecedente al 1967, ora amministrato dall’Israel Land Administration.
Oltre ai cittadini di seria A (“ebrei”) e a quelli di serie B (“non-ebrei”, quasi tutti arabi), esistono poi i cittadini di serie C, cioe’ i cittadini arabi di Israele che, pur trovandosi all’interno dei confini dello Stato, vengono classificati per legge come “assenti”. Questa categoria di persone (cosidetti “presenti/assenti”) sono effettivamente presenti in Israele, pagano le tasse e usufruiscono, se vogliono, del diritto di voto. Tuttavia, essendo classificati come “assenti”, sono privati di tutti i diritti di proprieta’ (come terre, case, societa’, azioni, conti bancari, risparmi bancari, ecc.) che possedevano prima del 1948. Con la nascita dello Stato di Israele, infatti, tutti i palestinesi sfollati dalle loro case che non erano fuggiti all’estero o rimasti uccisi dalla violenta opera di “pulizia etnica”   delle forze israeliane, ma rimasti all’interno della Linea Verde (confine tra Israele e Cisgiordania), furono classificati per mezzo della Absentees’ Property Law del 1950 come “present-absentees”. Oggi i presenti/assenti ammontano a oltre 250.000, ossia circa al 25% della popolazione araba palestinese. Con la stessa Absentees’ Property Law la Knesset identificava anche una ulteriore categoria di cittadini,  anzi di apolidi o non-cittadini, quelli di serie D, costituiti dai 750.000 palestinesi che nel 1948 erano stati espulsi e dovettero rifugiarsi nei Paesi vicini come Giordania, Siria, Libano, all’interno della Striscia di Gaza e in Cisgiordania. I sopravvissuti e i loro discendenti superano oggi il numero di quattro milioni. Secondo la Risoluzione delle NU n.181(II) del 1947, che suddivideva il Mandato Britannico della Palestina in uno “Stato Ebraico” e uno “Stato Arabo” e Gerusalemme come corpus separatum, questa popolazione ha diritto di cittadinanza nello Stato Ebraico. Con la legge suddetta, tuttavia, Israele nega loro questo diritto rendendoli cosi’ apolidi, in violazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e della legislazione internazionale. E’ in tale contesto che e’ necessario esprimere un giudizio sul tipo di democrazia vigente nello Stato di Israele.
Abbiamo visto come esistano differenti tipi o livelli di cittadinanza in Israele che danno luogo a differenti diritti, anzi a vere e proprie discriminazioni. Tuttavia, oltre alla cittadinanza, la popolazione residente in Israele viene anche classificata in base ad altre due categorie: nazionalita’ e religione. Per “nazionalita’” si intende l’appartenenza ad una determinata Nazione o Stato sovrano. In genere puo’ essere acquisita o per nascita all’interno della giurisdizione di un determinato Stato (“ius soli”), per eredita’ dai genitori (“ius sanguinis”) o per “naturalizzazione”. In Israele, la Legge del Ritorno (1950) definisce il diritto di “ritorno” nella Terra di Israele (aliyah) legato alla nazionalita’ ebraica, specificando che “’Ebreo significa una persona nata da madre ebrea o che si e’ convertita all’Ebraismo e non e’ membro di un’altra religione.”   Secondo questa legge l’acquisizione della cittadinanza per gli ebrei non e’ soltanto ‘automatica’, ma nel caso in cui un ebreo immigrato in Israele non gradisse ricevere la cittadinanza israeliana dovrebbe a tale scopo fare esplicita domanda scritta.
Una terza categoria da tenere in considerazione per valutare discriminazione e apartheid in Israele e’ la “religione”. Infatti, a differenza dagli stati democratici occidentali il cui sistema politico e’ severamente basato sul principio di separazione della religione dallo Stato (e della razza/etnia dallo Stato) oltre che sui valori della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, lo Stato di Israele ritiene che la religione (quella Ebraica) sia una sua caratteristica essenziale.  Nel primo caso (gli Stati democratici occidentali) si parla di Stato secolare: in esso lo Stato, essendo un costrutto umano, non esprime valori ma rappresenta soltanto un mezzo, uno strumento per raggiungere i valori che, invece, sono propri della persona umana, quelli contenuti nella Dichiarazione Universale. Dall’altra parte, uno Stato basato sulla supremazia di una nazionalita’, gruppo etnico, razza o religione (quale sia il termine che si voglia usare) viene definito Etnocrazia. Per Etnocrazia viene inteso un sistema politico che cerca di tenere insieme un dominio etnico strutturale con il rispetto dei diritti civili, politici e democratici.  Esempi di questo tipo sono la Latvia, l’Estonia, e la Malesia. Per Teocrazia si intende una forma di governo intesa sotto l’immediata guida divina. Esempi contemporanei del genere possono essere considerati l’Iran, il Vaticano e l’Arabia saudita. A noi scegliere a quale categoria appartenga Israele. Il cittadino ebreo ‘modello o prototipo’ dello stato di Israele quindi e’ quello che ha cittadinanza israeliana, nazionalita’ ebraica e religione ebraica.
Nonostante la legislazione israeliana, a differenza di quella dichiaratamente razzista sudafricana, non regoli aspetti come la segregazione nei luoghi pubblici come alberghi, ristoranti, cinema o autobus (il cosiddetto petty apartheid), all’interno dello Stato di Israele esistono, secondo il giornalista britannico Jonathan Cook, ‘grandi’ e ‘piccoli’ apartheid.  Se infatti da una parte, come visto sopra, sono evidenti nella stessa legislazione espliciti elementi di discriminazione, dall’altra parte esistono pratiche discriminatorie che fanno parte del prevalente ‘sentire comune’ e che danno luogo a soprusi quotidiani non codificati in documenti scritti. Per questo motivo Israele continua ad essere indicata come l’unica democrazia nel Medio Oriente e bastione della liberta’ dell’occidente.

Ma come e’ riuscito finora Israele a non essere messo sul banco degli imputati come paese che discrimina i suoi cittadini (o che pratica l’apartheid)? Lo spiega in modo elegante Israel Shahak,  professore alla Universita’ Ebraica di Gerusalemme, dal 1970 al 1990 Presidente della Israeli League for Human and Civil Rights e scomparso nel 2001. Egli descrive il sistema legislativo dello Stato di Israele come una “strana mistura di democrazia avanzata e discriminazione retrograda, combinata a goffi tentativi di nascondere la realta’ di discriminazione” esistente. Cita l’esempio dell’unica legge (la Legge del Ritorno) in cui si usi la parola “ebreo”. Nei casi in cui una legge qualsiasi intenda discriminare a favore degli ebrei, e’ sufficiente usare l’espressione “persone che avrebbero beneficiato della Legge del Ritorno se si fossero trovate al di fuori dei confini di Israele”, cioe’ esclusivamente gli ebrei.  La Legge del Ritorno specifica esplicitamente che i suoi benefici possono andare soltanto agli ebrei. Un altro modo per farla franca e’ quello di varare leggi altisonanti a favore della uguaglianza e dei diritti umani, ma inserendo un piccolo paragrafo che specifica che le norme contenute non potranno contraddire leggi e regolamenti gia’ promulgati. Siccome le principali leggi discriminatorie sono state approvate negli anni ’50 e ’60, le nuove leggi, per quanto democratiche e liberali, non potranno avere alcun effetto sulla discriminazione esistente. Il prof. Shahak conclude amaramente che se tali leggi discriminatorie fossero utilizzate in qualsiasi parte del mondo contro gli ebrei sarebbero giustamente considerate anti-semite.

I critici che accusano l’ideologia sionista di praticare l’apartheid tendono spesso a fare confronti con quanto successo in Sudafrica fino al 1994. Se da una parte tra i due casi esistono ovvie somiglianze (evidenti discriminazioni su base razziale) e profonde differenze (assenza di petty apartheid), cio’ che emerge dalla condizione di discriminazione esistente in Israele e’ l’esistenza di “un tipo particolare di organizzazione degli affari umani moralmente deplorevole in cui vengono violati specifici precetti morali.”  L’apartheid del Sudafrica ha assunto su di se’ le caratteristiche paradigmatiche di un ‘Male’ che le nazioni del consesso civile avevano il diritto e il dovere di combattere con sanzioni e boicottaggio. Tale presa di posizione, che oggi molti non ritengono legittima per Israele, violava i presupposti morali di una larga serie di sistemi di valori, piu’ ancora di quanto non facciano, ad esempio, il capitalismo e il ‘libero mercato’ che pure, con i loro effetti moltiplicatori su disuguaglianze e ingiustizie sociali, probabilmente finiscono per avere impatti molto peggiori sulla salute e la qualita’ della vita delle persone. Come fa notare Glaser, l’apartheid del Sudafrica rappresentava un caso acuto di violazione di tre valori in particolare: il valore della liberta’ individuale (limitando la possibilita’ di mescolamento tra le varie razze), il valore dell’uguaglianza (offrendo differenti livelli di opportunita’ e finanziamenti pubblici) e quello della democrazia (pur con il diritto di voto, le strutture dei gruppi di colore erano subordinate ai bianchi). L’autore sostiene che questi stessi valori sono violati dal sionismo politico di Israele e quindi sostanzialmente il sionismo israeliano, pur mantenendo certe differenze con la situazione sudafricana, e’ ‘moralmente deprovevole’ tanto quanto l’apartheid sudafricano.

Gli esempi pratici  di discriminazione e apartheid all’interno dello Stato di Israele sono ben documentabili. Per esempio, in Israele esistono sistemi scolastici separati e di qualita’ inferiore per gli arabi. Sistemi di separazione sono presenti addirittura anche tra studenti ebrei ultra-ortodossi e altri connazionali.  Nel 2001 Human Rights Watch evidenziava come ¼ degli 1.600.000 studenti israeliani segua un sistema scolastico pubblico completamente separato. Il rapporto affermava che “I bambini arabo israeliani frequentano scuole con classi piu’ numerose e con minor numero di insegnanti dei bambini che fanno parte del sistema scolastico riservato agli ebrei, ed alcuni devono percorrere lunghe distanze per raggiungere la scuola piu’ vicina. Le scuole arabe inoltre contrastano in modo drammatico con il sistema per la maggioranza ebraica per la loro frequente assenza di servizi essenziali come biblioteche, computer, laboratori e spazi ricreativi… Gli insegnanti arabo-palestinesi hanno in media qualifiche piu’ basse e percepiscono stipendi inferiori di quelli non palestinesi.”   Altri studi, come quello dell’Universita’ Ebraica di Gerusalemme,  mostrano le stesse disuguaglianze e discriminazioni.

Agli insegnanti delle scuole pubbliche non e’ permesso affrontare il tema della storia araba nella regione medio orientale. I testi scolastici israeliani non mostrano la Linea verde o comunque il confine internazionalmente riconosciuto tra Israele e il territorio occupato.  La Cisgiordania viene chiamata ‘Giudea e Samaria’. Gli insegnanti delle scuole arabe devono essere approvati dal servizio di sicurezza statale, lo Shin Bet, e il curriculum non contiene riferimenti alla storia e alla cultura palestinese. Lo Shin Bet proibisce addirittura che venga inclusa la grande letteratura araba e palestinese.

Le citta’ e i villaggi arabi non ricevono gli stessi finanziamenti di quelli ebraici, nonostante il livello di tassazione sia uguale per arabi ed ebrei.  Israele ha un sistema di tassazione progressiva con i piu’ ricchi che pagano piu’ di quelli con redditi inferiori. In un tale sistema le comunita’ piu’ povere dovrebbero essere aiutate dalle tasse piu’ elevate pagate dai piu’ benestanti. Questo pero’ non succede per i quartieri arabi in Israele. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato statunitense, le spese governative sono proporzionalmente piu’ basse nelle aree a prevalenza araba rispetto a quelle ebraiche, con un ovvio impatto negativo sulla popolazione giovanile delle citta’ e dei villaggi arabi.  Nel periodo 2000-2004 i cittadini arabi hanno ricevuto meno del 5% dell’intero bilancio ordinario di Israele. Nel 2005 alle comunita’ arabe e’ stato assegnato meno del 3% dei Fondi per lo Sviluppo.

Ai palestinesi e’ negato il diritto di ritornare nelle abitazioni e sulle terre che furono loro sottratte nel territorio che ora e’ Israele.    Al contrario, una qualsiasi persona che abbia un nonno ebreo in qualunque parte del mondo puo’ sistemarsi sulla terra che e’ stato sottratta agli arabi sia in Israele sia nel territorio palestinese occupato, in violazione della legislazione internazionale. L’art 49 della 4a Convenzione di Ginevra, infatti, proibisce al Paese occupante di trasferire la sua popolazione nel territorio da esso occupato.

Secondo il professor Saree Makdisi dell’UCLA, “La legge israeliana sulla Nazionalita’ (Nationality Law, 2003) proibisce ai cittadini palestinesi di Israele di sposare un partner palestinese che risieda nel territorio occupato e di vivere col proprio coniuge in Israele. La stessa legge non e’ applicata ai cittadini ebrei israeliani che sposino coloni ebrei che vivono nel territorio occupato. E’ interessante notare come una simile legge era stata proposta in Sudafrica durante il periodo dell’apartheid, per poi essere rigettata dalla Corte Suprema di quel Paese. La stessa legge e’ stata invece ratificata dalla Corte Suprema israeliana nel 2006.”  A nulla e’ valsa la denuncia di violazione dei diritti umani espressa da 81 membri del parlamento britannico.

Molti villaggi palestinesi, alcuni precedenti alla fondazione dello Stato di Israele, non sono riconosciuti dal governo israeliano e quindi non sono forniti di acqua corrente, elettricita’ o strade di accesso.  Alcuni non compaiono nemmeno sulle mappe. Altri sono stati distrutti negli anni recenti. Circa 450 villaggi palestinesi sono stati distrutti dopo la dichiarazione di indipendenza di Israele nel 1948.  Nel 2005 215.000 palestinesi in 220 villaggi erano privi di connessione ad un sistema fognario.  Un’indagine dei Physicians for Human Rights-Israel evidenziava che 34 villaggi non riconosciuti mancavano di qualsiasi tipo di servizio sanitario, come ad esempio il villaggio di Al-Fura’a con i suoi 3885 abitanti.   Circa la meta’ dei 160.000 che costituiscono la popolazione araba beduina di Israele vive nel deserto del Negev in circa 45 villaggi non riconosciuti dallo Stato. Per molti anni essa e’ stata sottoposta a una severa discriminazione e marginalizzazione, vittima in particolare di severe politiche di demolizioni di abitazioni e distruzione dei raccolti. Mentre i Beduini sono sottoposti a forti pressioni ad abbandonare i loro luoghi di residenza senza avere alcuna alternativa reale o adeguato indennizzo, le stesse autorita’ statali israeliane che esercitano questa pressione assegnano vasti appezzamenti di terreno soltanto agli ebrei, assegnando inoltre alle istituzioni municipali ebraiche l’autorita’ di ‘proteggere la terra’ dall’intrusione dei proprietari originari.  Il governo israeliano ha inviato aerei ad irrorare di sostanze velenose i raccolti dei Beduini, avvelenando gli animali e causando gravi problemi alla salute della popolazione.  Secondo alcuni, questa pratica e’ stata interrotta nel 2006; ora gli stessi raccolti sono distrutti dalle autorita’ israeliane sradicandoli.

La politica di discriminazione verso gli arabi e’ evidente anche nei limiti imposti alla crescita delle loro comunita’. A partire dal 1948 sono state istituite dozzine di nuove comunita’ abitative per gli ebrei, ma molto poche per i palestinesi, in questo modo causando un severo problema di sovraffollamento residenziale. In Israele il 93% della terra e’ per uso e beneficio esclusivo della popolazione ebraica da parte dello Stato (Development Authority e Israel Land Administration) e agenzie para-statali, compresa l’Organizzazione Sionista Mondiale e il Jewish National Fund..  La terra puo’ essere e viene effettivamente confiscata ai villaggi arabi e messa a disposizione della popolazione ebraica. Susan Nathan, una ebrea israeliana che vive in un villaggio arabo in Israele descrive la sua esperienza al riguardo nel libro ‘The other side of Israel’.  Qualsiasi terra in Israele puo’ essere soltanto ottenuta in ‘leasing’ non essendo possibile acquistarla privatamente. Fino a qualche anno fa gli arabi israeliani non potevano avere terra in ‘leasing’ dalla Israeli Land Administration (ILA) che, come visto sopra, la controlla praticamente nella sua totalita’. La terra, gran parte della quale fu espropriata agli arabi, e’ ora posseduta o dalla Stato (80%) o dal Jewish National Fund (13%).

Nell’area della Galilea nel nord di Israele vivono molti arabi israeliani. Nel 2001 il governo israeliano diffuse un piano per la ‘ebraicizzazione’ della regione della Galilea,  citando come la presenza araba in quella regione costituisse un problema. Il piano restringe lo sviluppo delle aree industriali e commerciali e delle aree edificabili nei villaggi arabi, posizionando le costruzioni industriali, commerciali e turistiche nelle aree ebraiche e nelle loro vicinanze.

Il servizio militare nell’esercito israeliano e’ un prerequisito assoluto per potere ottenere i migliori posti di lavoro pubblici e privati in Israele.  Anche se per legge tutti i cittadini israeliani sono soggetti alla leva militare obbligatoria, una pratica di lunga data esenta le minoranze non ebraiche, fatta eccezione per Drusi e i Beduini, che quindi vengono a perdere i benefici che derivano dal prestare servizio.  Va notato, tuttavia, che gli ebrei religiosi che sono dispensati non subiscono tale discriminazione e godono di tutti i vantaggi e opportunita’ che vanno a chi fa il militare. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato statunitense, nel 2004 soltanto il 3% dei dipendenti pubblici in Israele erano arabi.  I cittadini arabi sono spesso discriminati non potendo accedere a spazi ricreativi, piscine, parchi acquatici e altre strutture pubbliche frequentate dai cittadini ebrei.

Gli arabi sono spesso fermati e perquisiti negli aeroporti e stazioni ferroviarie israeliani, spesso in modo invasivo.  Sono piu’ frequentemente trattenuti o accompagnati all’aereo dal personale della sicurezza. Mentre la maggior parte degli ebrei puo’ viaggiare tranquillamente, i cittadini arabi di Israele sono spesso sottoposti ad aggressivi interrogatori soltanto per la loro appartenenza etnica.  Esistono in ogni caso eccezioni. Anche i pacifisti israeliani o internazionali sono a volte costretti a ritardi o a perquisizioni invadenti; la differenza e’ che gli arabi subiscono lo stesso trattamento a prescindere da affiliazione politica o attivita’.

Quasi tutte le citta’ e i villaggi arabi nel nord di Israele sono privi di rifugi pubblici anti-bombardamento mentre diversi di questi sono stati costruiti per la maggior parte delle comunita’ ebraiche. Analogamente, le autorita’ per la difesa civile non ha attrezzato le comunita’ arabe, a differenza di quelle ebraiche, di sirene di allarme contro gli attacchi aerei. A causa di cio’ molte persone nei villaggi arabi sono morte sulle strade durante la guerra contro il Libano (2006) mentre la maggior parte degli ebrei erano al riparo nei rifugi.  Durante la guerra le autorita’ israeliane diffusero alle famiglie istruzioni su come proteggersi in caso di emergenza attraverso la radio, la televisione e con brochures, ma soltanto in lingua ebraica, nonostante l’arabo sia una delle due lingue ufficiali di Israele.

Lo Stato di Israele dichiara apertamente di essere “lo Stato del popolo ebraico” e la sua bandiera mostra il simbolo religioso di Israele, ma non possiede una Costituzione che protegga i diritti del 25% dei suoi cittadini che non sono ebrei  e che invece devono onorare lo spirito ebraico cantando l’inno nazionale israeliano.  L’inno inizia con le parole: “Nel cuore ebraico uno spirito ebraico canta ancora.”  Parla di 2.000 anni di lotta del popolo ebraico per liberare la propria terra. Ovviamente non si fa cenno a nessun’altra religione. Molte famiglie hanno vissuto su questa terra per generazioni prima che fosse fondato lo Stato di Israele. Esiste un ovvio conflitto fra il dichiararsi uno Stato democratico, ossia di tutti i cittadini, e allo stesso tempo uno Stato ebraico, ossia soltanto degli ebrei.

Come descritto in precedenza, in Israele e’ presente un duplice sistema di leggi che discrimina tra israeliani ebrei e israeliani non-ebrei in base ad un discutibile concetto di “nazionalita’ ebraica”. Questa applicazione pregiudiziale della legge e’ evidente in tutti i procedimenti del sistema legale, dal diritto alla informazione e al giusto processo, al trattamento nelle prigioni. Ne risulta una profonda disuguaglianza e ingiustizia nel trattamento delle due comunita’, ebraica e non ebraica.

Gli abitanti del luogo, cristiani e musulmani (e pure samaritani, considerati dai locali e da Israele come ebrei) sono vissuti lì in pace per secoli prima della creazione dello Stato Ebraico. Questi cittadini sono ora indicati come una minaccia demografica, il cosiddetto “problema arabo”. L’attuale ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, in occasione della nomina del primo ministro di nazionalita’ araba in Israele ha chiesto le dimissioni del Ministro della Difesa Amir Peretz. Un altro membro del governo ha affermato “Questa e’ assimilazione… Mi appello al Primo Ministro a non approvare questa nomina per proteggere l’interesse di Israele come Stato ebraico e sionista.”  Lieberman ha affermato che la minoranza araba in Israele rappresenta un “problema” che richiede “separazione”, dichiarando che Israele deve ridisegnare la propria mappa per “scambiare” parte della popolazione araba, allo scopo di creare uno “Stato ebraico piu’ omogeneo.” Circa un terzo dei cittadini ebrei di Israele sono a favore del trasferimento degli arabi fuori di Israele, e il 60% pensano che dovrebbero essere incoraggiati ad andarsene.

4. Conclusione

Cio’ che colpisce delle discriminazioni presenti in Israele, Cisgiordania e Gaza e’ la loro dimensione e gradiente. In effetti, come affermato da Jeff Halper, “I sudafricani bianchi non hanno bombardato Soweto!” Il sistema di controllo di Israele sui palestinesi è capillare e molto efficiente, compreso il sistema dei partiti: i palestinesi infatti sono il 20% della popolazione ma alla Knesset non hanno affatto il 20% degli eletti. Va detto tuttavia che, almeno, i palestinesi di Israele hanno il diritto di voto per il Parlamento che fa le leggi che li riguardano. I palestinesi dei territori occupati, no.

Affinche’ Israele, come qualunque altro Paese appartenente alla comunita’ civile internazionale, accetti il diritto internazionale come valida cornice giuridica che porti alla fine del conflitto israelo-palestinese e’ necessario che l’obiettivo si concentri, oltre che sulla lotta all’occupazione israeliana, anche sulla eliminazione della discriminazione e dell’apartheid esistente sia nel TPO sia all’interno dello stesso Stato di Israele. Secondo Uri Davis e’ necessario un processo di “smantellamento dello Stato di Israele come Stato Ebraico nel senso sionista del termine, uno Stato di apartheid…”   Il conflitto finira’ soltanto quando colonizzatore e colonizzato vivranno insieme in condizioni di uguaglianza e parita’ di diritti. Fino a quel momento le politiche e le pratiche razziste e discriminatorie dello Stato di Israele vanno senza timore denunciate e combattute, come raccomanda lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite, chiamandole con il loro vero nome.

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