The New York Times

05.07.2010
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Martedì 27 Luglio 2010 21:59

Il Fisco Americano Aiuta i Coloni nella West Bank
di Jim Rutenberg, Mike Mcintire, Ethan Bronner
Isabel Kershner e Myra Noveck hanno contribuito al reportage da Gerusalemme.

Har Bracha, West Bank - Due volte all’anno, alcuni evangelici statunitensi arrivano in un’azienda vinicola ad Har Bracha, un insediamento ebraico sulle colline dell’antica Samaria, per raccogliere l’uva e potare le viti: per loro significa partecipare in prima persona alla profezia biblica.

Credono, infatti, che l’aiuto dei cristiani ai vignaioli ebrei qui, nella Cisgiordania occupata, preannunci il secondo intervento di Cristo. Perciò si fanno reclutare da Ha Yovel, un’associazione benefica con sede nel Tennessee, che invita i volontari a “lavorare insieme al popolo di Israele” condividendone “la passione per l’imminente giubileo di Yeshua, il messia.”

Ma durante la loro ultima visita, a febbraio, i volontari si sono trovati nel bel mezzo del conflitto per la terra che segna la vita quotidiana in questa parte del mondo. Quando gli evangelici si sono diretti verso le vigne, alcuni palestinesi, che accusano i coloni ebrei di aver piantato delle viti rampicanti nelle loro terre per appropriarsene, li hanno presi a sassate. Due volontari sono rimasti feriti, e nella rissa che è seguita uno dei guardiani degli insediamenti ha sparato a un pastore palestinese di 17 anni, colpendolo a una gamba.

“Certi stranieri pensano che questa terra sia la Terra promessa e che aiutare gli ebrei sia un loro dovere”, commenta Izdat Said Qadoos, un abitante del vicino villaggio palestinese. “Ma questa non è la Terra promessa. E’ la nostra terra”.

Ha Yovel è una delle tante associazioni statunitensi che usano donazioni detraibili dalle tasse per aiutare gli ebrei a stabilirsi in modo permanente nei territori palestinesi occupati da Israele. Così viene ostacolata la creazione di uno stato palestinese, che molti considerano una condizione indispensabile per la pace in Medio Oriente.

Il risultato è una sorprendente contraddizione: da una parte il governo degli Stati Uniti cerca di mettere fine alla creazione degli insediamenti ebraici, che prosegue ormai da quarant’anni, e di promuovere la creazione di uno stato palestinese, in Cisgiordania; dall’altra il ministro del tesoro statunitense contribuisce a sostenere gli insediamenti accordando sgravi fiscali a chi fa delle donazioni in loro favore.

Il New York Times ha analizzato gli elenchi pubblici, sia negli Stati Uniti sia in Israele, e ha individuato almeno quaranta associazioni americane che negli ultimi vent’anni hanno raccolto donazioni per oltre 200 milioni di dollari a favore degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Questi soldi vanno per lo più a scuole, sinagoghe e centri ricreativi: tutte destinazioni perfettamente legali. Ma servono anche per acquisti più discutibili sul piano giuridico (come alloggi, cani da guardia, giubbotti antiproiettile, mirini per armi da fuoco e veicoli), usati per rendere sicuri gli avamposti nelle zone occupate.

Per certi versi, la legislazione degli Stati Uniti in materia tributaria è più indulgente di quella israeliana. Per quest’ultima, infatti, gli avamposti che ricevono donazioni private fiscalmente detraibili (a differenza di quelli finanziati dal governo israeliano) sono illegali. E una decina di anni fa Israele ha tolto gli sgravi fiscali per contributi destinati agli insediamente ebraici in Cisgiordania.

Oggi la polemica sugli insediamenti sta diventando più dura e la questione è stata al centro della discussione durante la visita a Washington del premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Gli Stati Uniti sono stati spesso contrari agli insediamenti, ma il presidente Obama si è distinto per averli esplicitamente definiti un ostacolo alla pace. A suo dire, una soluzione a due stati è essenziale per disinnescare la rabbia del mondo islamico nei confronti dell’occidente. Per far decollare i colloqui di pace, su pressione degli Stati Uniti, Netanyahu ha temporaneamente congelato ogni nuova costruzione. Ma il blocco degli insediamenti e la prospettiva di una ripresa dei negoziati hanno dato nuovo impulso, e un carattere di urgenza, alla causa dei coloni e alle raccolte di fondi in loro favore.

Usare gli enti benefici per promuovere obiettivi di politica estera non è una novità, e del resto gli americani ottengono degli sgravi fiscali anche quando fanno donazioni ai gruppi filo-palestinesi. Ma le donazioni ai coloni ebrei toccano una questione centrale nelle trattative in corso. Inoltre Washington finora non ha permesso  che Israele usasse gli aiuti governativi statunitensi per finanziare gli insediamenti. D’altro canto, gli Stati Uniti non hanno mai messo in discussione gli sgravi fiscali sulle donazioni, anzi non se ne sono mai occupati. L’Internal Revenue Service (Irs), il fisco statunitense, si rifiuta di discutere delle donazioni a favore degli insediamenti in Cisgiordania, e i funzionari del Dipartimento di stato sono disposti a parlarne solo in modo generico e a condizione di restare anonimi.

Uno di loro ci ha detto: ”Effettivamente è un problema”. E ha aggiunto: “Non aiuta le iniziative che ci stiamo sforzando di mettere in campo in Medio Oriente”.

Anche secondo Daniel C. Kurtzer, ambasciatore statunitense in Israele dal 2001 al 2005, la questione è delicata.

“Ci ha fatto diventare matti”, ha commentato. Ma “era un argomento di cui non è mai stato facile parlare”. Kurtzer ha aggiunto che, se le donazioni private da sole non sono certo sufficienti a tenere in piedi gli insediamenti, “qualche centinaio di milioni di dollari fa una differenza enorme”.

La maggior parte delle donazioni va a insediamenti grandi, che si trovano vicino al confine con Israele, e in qualsiasi accordo di pace sarebbero probabilmente annessi in cambio di terre situate altrove. Questi finanziamenti suscitano meno preoccupazioni di  quelli destinati agli avamposti illegali abitati da coloni particolarmente agguerriti, a cui fanno comodo anche donazioni modeste, ma regolari”.

Nel 2007, quando le autorità israeliane hanno sospeso tutti i progetti per la costruzione di alloggi permanebnti in un piccolo insediamento non lontano dalla Giordania, chiamato Maskiot, due associazioni statunitensi senza fini di lucro, One Israel fund e Christian Friends of Israel communities, hanno raccolto decine di migliaia di dollari per aiutare i coloni a costruire strutture temporanee e a resistere finchè le autorità non avessero revocato la sospensione dei lavori.

Alcuni israeliani che lavorano per i servizi di sicurezza sono infastiditi dalle donazioni destinate agli insediamenti illegali o a quelli più agguerriti.

“La cosa non mi fa piacere”, ha risposto un militare di alto grado in servizio in cisgiordania a chi gli chiedeva delle donazioni fatte a un seminario rabbinico radicale diretto da una persona che aveva esortato i soldati a disobbedire agli ordini di cacciare i coloni.

Anche i funzionari palestinesi sono indignati.

“Gli insediamenti violano il diritto internazionale e gli Stati Uniti, che a parole vogliono una soluzione a due stati, permettono di fare donatori ai coloni”, esclama Saeb Erekat, capo dei negoziatori palestinesi. Ma gli insediamenti sono un argomento delicato anche tra gli ebrei  americani. Alcune delle principali organizzazioni  ebraiche di beneficenza, come la Jewish federation of North America, si rifiutano di finanziare i lavori di costruzione in Cisgiordania.

Tra gli statunitensi che fanno donazioni agli insediamenti c’è un po’ di tutto: dai più ricchi – come il magnate del settore ospedaliero, Irving I. Moskowitz, o la famiglia che produce i gelati Haagen-Dazs – ai meno ricchi, come i partecipanti alle aste per l’acquisto di pizzerie kosher a Brooklyn o gli evangelici che abbiamo incontrato a una riunione di studi biblici tenuta di recente in una cantina di Long Island. Tutti però hanno in comune la convinzione che riportare sotto il pieno controllo degli ebrei la Cisgiordania, dove sorsero gli antichi regni Ebraici, sia decisivo per la sicurezza di Israele e per la realizzazione delle profezie della bibbia.

Kimberly Troup, direttrice della sezione americana di Christian friends of Israeli communities, ci ha detto che la sua è un’associazione umanitaria, ma “ più costruiamo, più sosteniamo e incoraggiamo il diritto dei coloni a vivere su quella terra, più sarà difficile per le autorità israeliane scegliere la via del disimpegno e del ritiro”.

Considerare i fatti.

Mezzo milione di ebrei israeliani vive oggi nei territori occupati durante la guerra dei sei giorni, nel giugno del 1967. Ma, a livello internazionale, c’è un forte consenso sulla necessità di creare uno stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dove abitano circa 4 milioni di palestinesi.

Un eventuale accordo di pace non potrà che essere un compromesso basato sull’esame di alcuni dati di fatto. Vediamoli.

La maggioranza degli ebrei in Cisgiordania vive in un ambiente tipicamente residenziale, con casette ordinate, condomini di molti piani e autostrade che portano a Gerusalemme e a Tel Aviv. Sul piano politico e ideologico, questi insediamenti e i loro abitanti non hanno niente di diverso dal territorio israeliano vero e proprio. Se ci sarà un accordo di pace, la maggioranza di queste persone resterà dov’è e quelle che saranno costrette ad andarsene lo faranno probabilmente in modo pacifico.

Ma negli insediamenti più isolati e negli avamposti illegali (che ormai si contano a decine) i coloni opporranno quasi certamente una resistenza violenta a un eventuale sgombero. C’è quindi il rischio di uno scontro tra israeliani, che potrebbe essere duro e doloroso.

E probabilmente i coloni ribelli saranno sostenuti con le donazioni dei contribuenti americani convinti che cedere la Cisgiordania servirà solo a rafforzare gli islamici redicali decisi, come crede Obama, a distruggere Israele.

Helen Friedman è una newyorkese che gestisce un ente benefico chiamato Amaricans for e safe Israel. Nella primavera scorsa, ha detto ai suoi sostenitori impegnati in una visita in Cisgiordania: “Dobbiamo fare in modo che i nostri rappresentanti al congresso spingano Obama a smettere di premere su Israele affinchè si autodistrugga”.

Anche Israele nel 1984 – quando al governo c’era il Likud (centrodestra) – concesse sgravi fiscali a chi finanziava la costruzione di insediamenti. Gli sgravi furono aboliti dal governo laborista nel 1995 e poi di nuovo, dopo il loro ripristino, nel 2000. Avraham Shohat, ministro delle finanze in quegli anni sia con i conservatori sia con il laboristi, ci ha detto che ha solo un vago ricordo di come si presero quelle decisioni, ma che in linea di principio ritiene ammissibili le detrazioni fiscali solo per donazioni a favore del sistema scolastico e previdenziale per i poveri: non a favore della costruzione di insediamenti.

In teoria lo stesso vale per gli Stati Uniti, dove la legislazione fiscale incoraggia i cittadini a sostenere le organizzazioni senza fini di lucro, eventualmente anche contrari alla linea politica del governo, purchè abbiano finalità educative, religiose o assistenziali.

La difficoltà sta nel definire chiaramente queste finalità  e poi farle rispettare.

Negli Stati Uniti gli enti assistenziali registrati sono più di un milione e le descrizioni delle loro finalità fornite al fisco sono vaghe ed evasive, se non addirittura fuorvianti. Inoltre, le associazioni religiose non sono tenute per legge a rendere noti i loro bilanci. Questo significa che gli insediamenti ebraici nel Territori Palestinesi Occupati potrebbero ricevere somme di cui non rimane traccia nei documenti ufficiali.

Lo studio condotto dal New York Times sulle associazioni che sostengono i coloni mostra che queste per lo più rispettano le norme fiscali statunitensi. Alcune però si muovono ai limiti della legalità, perché usano i loro fondi per finanziare campagne politiche e acquisti di alloggi residenziali, non presentano la dichiarazione dei redditi, creano dei comitati di garanti fittizi, oppure convogliano le donazioni direttamente nelle casse di organizzazioni straniere, un’operazione esplicitamente proibita dal fisco statunitense.

Una di queste associazioni ai margini della legalità è Friends of Zo Artzeinu/Manhigut Yehudit. La sede si trova a Cedarhurst, nello stato di New York, e uno dei suopi fondatori è Samuel Sackett, ex-direttore esecutivo di un partito politico israeliano, il Kahane Chai, che è stato messo fuorilegge. Dai registri dell’associazione risulta che una parte dei 5,2 milioni di dollari che ha raccolto negli ultimi anni è stata versata ai “complessi edilizi comunitari” di Manhigut Yehudit, una corrente di estrema destra del Likud di Benjamin Netanyahu (il partito oggi al potere in Israele). Sackett dirige Manhigut Yehudit insieme all’esponente politico Moshe Feiglin.

La legislazione tributaria degli Stati Uniti proibisce l’uso di fondi assistenziali per finalità politiche, sia in patria che all’estero. Ma né Sackett né Feiglin hanno accettato di rispondere alle nostre domande sulla natura di questi “complessi edilizi comunitari”. Sackett ci ha mandato una email in cui scrive che l’associazione non è impegnata in attività politiche, ma si occupa di progetti umanitari e di “informare l’opinione pubblica circa l’esigenza di una leadership autenticamente ebraica in Israele”.

Naturalmente tra i beneficiari degli sgravi fiscali accordati dalle leggi americane non ci sono solo associazioni che sostengono i coloni. Il Free Gaza Movement ha organizzato la flotta di imbarcazioni che ha tentato di rompere il blocco israeliano a Gaza. Sul suo sito si legge che il movimento può essere sostenuto con donazioni fiscalmente detraibili attraverso l’American Educational Trust, una casa editrice che pubblica un periodico di orientamento filo-arabo. Inoltre, sgravi fiscali sulle donazioni sono stati concessi anche ad associazioni e a gruppi israeliani per la difesa dei diritti umani come Peace Now, spesso accusati di fare politica.

Ci sono alcuni enti benefici schierati con i coloni che mascherano le loro vere intenzioni.

Per esempio la Capital Athletic Foundation, gestita da Jack Abramoff, il lobbysta di Washington recentemente caduto in disgrazia. La fondazione aveva fatto donazioni per un totale di oltre 140.000 dollari al Kollel ohel tiferet, un gruppo israeliano di studi religiosi, per finalità “educative e sportive” . In realtà, un componente di quel gruppo di studio ha usato i fondi per finanziare le attività paramilitari nell’insediamento di Beitar Illit. Lo dimostrano i documenti venuti in possesso del senato americano durante le indagini su Abramoff, il quale, processato nel 2006, si è dichiarato colpevole di aver truffato i suoi clienti e di aver pagato tangenti a funzionari pubblici.

I documenti rivelano che Abramoff aveva dato istruzioni al colono Shmuel Ben Zvi, un vecchio amico delle superiori, per utilizzare il gruppo di studio come copertura dopo che il suo contabile si era lamentato che il denaro investito nell’equipaggiamento da cecchino e in una jeep “ non risulta buono” per la detrazione fiscale della fondazione.

Ma se le donazioni fatte dall’ente benfico di Abramoff erano abilmente camuffate (una volta ha spedito una tuta mimetica da cecchino in uno scatolone con l’etichetta “Costume da nonna salice per recita di Pocahontas”), altre sono più plateali. La Amitz rescue & security, che ha raccolto fondi tramite due associazioni non profit di Brooklyn, addestra ed equipaggia unità di vigilantes destinate agli insediamenti, e sul suo sito web esorta chi vuole fare donazioni a “inviare un assegno detraibile” per l’acquisto di binocoli a visione n otturna, automezzi a prova di proiettile e cani da guardia.

Altre organizzazioni invitano a staccare assegni a favore di una delle organizzazioni non profit che servono da camere di compensazione per le donazioni destinate a una vasta gamma di gruppi ebraici attivi in Israele e in Cisgiordania.

Ma le donazioni dirette a enti benefici stranieri non sono detraibili.

La legge permette di detrarre quelle a beneficio di enti statunitensi, in base al presupposto che le organizzazioni assistenziali contribuiscono a ridurre la spesa governativa per i programmi sociali.

Invece, come ci ha spegato Bruce R. Hopkins, avvocato e autore di alcuni volumi sulla legislazione fiscale in materia di non profit, il fisco statunitense permette di detrarre le donazioni agli enti americani che finanziano progetti assistenziali all’estero, a condizione che servano solo da tramite verso gruppi stranieri. Chi fa la donazione può indicare come vuole che siano usati i suoi soldi, ma le associazioni non profit, spiega Hopkins, hanno “un certo margine di autonomia nel decidere chi finanziare”.

Un’importante stanza di compensazione è il Central Fund of Israel, gestito  dagli uffici della Fratelli Marcus Tessili nel distretto di copertura di Manhattan. Dozzine di gruppi della Cisgiordania sembra abbiano considerato il finanziamento  poco più di un veicolo per riconvogliare a proprio vantaggio le donazioni, dando istruzioni ai loro sostenitori che se vogliono avere un’agevolazione fiscale, per prima cosa essi vi devono versare i loro contributi. La presidentessa del fondo, Hadassah Marcus, ha ammesso che vi sono stati depositati molti assegni da parte di donatori “ che vogliono che essi vengano destinati a vari programmi in Israele”, ma, ha aggiunto, il fondo conserva per se la decisione discrezionale definitiva sull’uso del denaro. Ha asserito che anch’esso fa proprie le assegnazioni alle famiglie di ebrei indigenti e le controlla, aggiungendo che il suo bilancio, che nel solo 2008 aveva raccolto 13 milioni di dollari, era stato verificato e risultava conforme alle normative della legislazione fiscale.

“Non siamo un imbuto: Stiamo cercando di costruire una terra,” ha affermato, aggiungendo, “Tutto ciò che stiamo facendro, ritornerà a casa nostra”.

Sostegno da un predicatore.

In un tardo pomeriggio di marzo il vice-presidente degli Stati Uniti, Joseph Biden, è atterrato in Israele e si è diretto verso il suo albergo a Gerusalemme. Doveva prepararsi a una settimana di colloqui per far ripartire le trattative di pace in Medio Oriente.

Intanto, dal lato opposto della città, in una sala congressi, molti degli esponenti israeliani che erano nell’agenda di Biden, tra cui il premier Benjamin Netanyahu, stavano ascoltando il reverendo Iohn Hagee, un influente predicatore americano, che ha donato milioni di dollari agli insediamenti in Israele e nei Territori Occupati. Il sostegno ai coloni è divenuto l’ideale di alcuni dirigenti conservatori repubblicani, quali Mike Huckabee e Sarah Palin.

“Israele esiste grazie al patto stretto da Dio con Abramo, Isacco e Giacobbe tremilacinquecento anni fa, e quel patto è ancora valido”, ha tuonato Hagee. “I leader del mondo non hanno l’autorità per dire a Israele e al popolo ebraico quello che possono e non possono fare nella città di Gerusalemme”.

Il giorno dopo le relazioni tra Stati Uniti e Israele hanno subito un duro colpo, quando Israele ha annunciato il progetto di costruire 1.600 nuovi alloggi per ebrei a Gerusalemme Est, che i palestinesi vorrebbero far diventare un giorno la loro capitale.

Il governo israeliano ha negato che le parole di Hagee abbiano avuto qualche peso nelle sue decisioni. Anche gli assistenti del reverendo hanno affermato che Hagee non intendeva influenzare le trattative di pace.

Tuttavia, la sua presenza ha evidenziato il ruolo dei sostenitori stranieri degli insediamenti.

E non c’è luogo dove questo ruolo sia più visibile e discutibile: Gerusalemme Est per Netanyahu dovrà restare sotto la sovranità israeliana qualunque sia l’accordo di pace che sarà concluso.

Intanto il governo israeliano incoraggia progetti archeologici finanziati da privati per riportare alla luce le radici ebraiche nelle zone arabe di Gerusalemme. Recentemente l’amministrazione Obama e le Nazuioni Unite hanno criticato un progetto che prevede di radere al suolo 22 case palestinesi per creare al loro posto un parco storico in un quartiere dove un’associazione non profit che si chiama El-‘Ad finanzia gli scavi e ricompra immobili dai loro proprietari arabi.

Per raccogliere fondi, organizzazioni come El-‘Ad fanno propaganda al nazionalismo ebraico nei salotti e nelle sale per banchetti di tutti gli Stati Uniti.

A maggio, una folla di professionisti per la maggior parte ebrei – che avevano pagato 300 dollari a persona a beneficio della Amici Americani di Ateret Cohanim – si è radunata in una sala da rinfreschi  molto cara del Flushing Meadows-Corona Park nel Qeens per pranzare e ascoltare John R. Bolton, ambasciatore presso le Nazioni Unite sotto la presidenza di George W. Bush, che ammoniva del pericolo di un Iran con armi nucleari.

Pochi giorni prima, la vice-presidentessa esecutiva del gruppo, Susan Hikind, era andata in onda su un programma radiofonico ebraico a New York dove aveva espresso l’opposizione del suo gruppo alla politica americana nel Medio Oriente. L’amministrazione Obama, ha dichiarato, non vuole che al banchetto siano presenti dei donatori perché ritiene che Gerusalemme dovrebbe “far parte in qualche modo della  futura capitale di uno stato  palestinese.”

“E chi la sta ostacolando?” ha affermato Ms. Hikind. “Le persone che sostengono Ateret Cohanim a Gerusalemme lavorano per garantire che Gerusalemme rimanga unita.”

Il Progetto di Ripristino di Gerusalemme di Ateret Cohanim opera per trasferire a famiglie ebree la proprietà di case arabe di Gerusalemme Est. Tali tentativi sono stati causa di una grande polemica; i comitati giuridici islamici  hanno minacciato di morte quei palestinesi che vendono a ebrei proprietà nei territori occupati, e le vendite spesso vengono fatte utilizzando compagnie di copertura e intermediari.

“Il ripristino della proprietà in effetti è un termine brutto – il riscatto è probabilmente una espressione migliore,” ha sostenuto all’assemblea degli Amici americani di Ateret Cohanim D. Bernard Hoenig, un avvocato di New York. “Il perno della questione è, ci sono arabi che vogliono vendere le loro case, e hanno offerto alla nostra organizzazione l’opportunità di acquistarle.”

Hoenig ha raccontato che anni fa Ateret Cohanim aveva comperato due edifici, ma che di solito aiuta a combinare l’acquisto per altri investitori ebrei. Il fatto, tuttavia, non viene citato nelle dichiarazioni dei redditi dell’affiliata americana. Piuttosto descrivono come loro obiettivo caritatevole fondamentale il finanziare “in Israele enti per l’istruzione superiore,” oltre che campeggi per bambini, sostegno per famiglie bisognose e sicurezza per  ebrei che vivono a Gerusalemme Est.

Infatti, esso mette in pratica tutte queste cose. Fornisce alloggio a studenti e a insegnanti della Yeshiva in proprietà che aiuta ad acquistare e sistema asili per l’infanzia e istituti per lo studio in altri edifici, e tutto ciò permette di qualificare le sue attività per motivi fiscali come educative o religiose.

Secondo i referenti del gruppo, l’affiliata americana fornisce pressappoco il 60% del finanziamento di Ateret Cohanim. Ma Hoenig ha sostenuto che nessuna parte del denaro americano se ne è andata in atti fondiari in quanto non avrebbero potuto essere qualificati come donazioni aventi diritto a sgravi fiscali.

Eppure, l’acquisto di proprietà è stata una parte integrante degli appelli di Ateret Cohanim  per la raccolta di fondi.

Pagine archiviate tratte dal sito web intestato all’affiliata americana – scaricate più o meno nell’ultimo anno – descivevano in modo particolareggiato come Areret Cohanim si era data da fare “ in modo silenzioso e discreto” per l’acquisto di edifici nelle aree palestinesi. Ed essa aveva richiesto donazioni per “ le scontate battaglie legali della sinistra araba,” per i costi delle abitazioni e per “altre spese (l’organizzazione, la progettazione, gli intermediari arabi, ecc.)”

Un atteggiamento inflessibile.

Profondamente all’interno della Cisgiordania, nella regione settentrionale chiamata Samaria, o Shomron, si trovano pressappoco 30 insediamenti e avamposti non autorizzati, considerati candidati più che sicuri all’evacuazione, qualsiasi sia l’accordo per uno stato palestinese. In termini di donazioni essi non si avvicianano assolutamente alle somme tirate fuori per Gerusalemme o per i vicini insediamenti. Ma  preoccupano in molti modi i funzionari di sicurezza e ancor più i palestinesi, in quanto sono molto inflessibili.

Qui, le comunità hanno la percezione di vivere un disagio maggiore. Alcune hanno solo poche strade asfaltate, e roulotte come abitazioni. I residenti – uomini con zuccotto e cernecchi, donne con copricapo, e famiglie con numerosi bambini – parlano spesso in termini apocalittici della necessità per gli ebrei di rimanere nel territorio. Essi affermano che, potrebbero essere necessarie generazioni, ma alla fine si compirà la promessa di Dio.

A novembre, dopo l’annucio del governo di Netanyahu di congelare le colonie, leader di Shomron invitarono i giornalisti perché fossero testimoni di come  riducevano in brandelli gli ordini.

David Ha’Ivri, responsabile pubblico per il governo locale, il Consiglio Regionale di Shomron, si è proposto come un rappresentante aggressivo, anche se amabile. Come dirigente di un ente nonprofit con sede in America, porta all’impresa caritatevole pure un retaggio militante.

Ha’Ivri, nel passato David Axelrod, era nato a Far Rockaway, Qeens, ed era stato discepolo del rabbino Meir David Kahane, violentemente anti-arabo, e un assistente ad alto livello oltre che cognato del figlio del rabbino, Binyamin Kahane. Entrambi i Kahane, che furono assassinati oltre 10 anni fa, dirigevano organizzazioni proibite in Israele per istigare , se non partecipare ad attacchi contro Arabi. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha inserito in seguito entrambi i gruppi, Kach e Kahane Chai, nella propria lista per il controllo del terrorismo.

Non più tardi di quattro anni fa, Ha’Ivri è stato implicato nella direzione della The Way of the Torah, un bollettino di informazioni kahanista segnalato negli Stati Uniti come un’organizzazione terroristica. Durante gli ultimi due decenni ha avuto diverse liti con le autorità in Israele, compreso un arresto per aver festeggiato in una intervista televisiva l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin e un periodo di detenzione in prigione conseguente alla profanazione di una moschea.

Funzionari del tesoro hanno affermato che le sanzioni che riguardano la presenza di un gruppo in una lista terrorista non si applicano necessariamente ai suoi ex dirigenti, e diffatti Ha’Ivri non lo si trova riportato su di essa.

Ha’Ivri ha dichiarato di non essere più impegnato in tale attività, aggiungendo che, a 43 anni, si era ammorbidito, anche se non lo erano le sue convinzioni più profonde. “Sono un po’ più invecchiato ora, e sono divenuto un poco più maturo,” ha detto.

Una domenica alla fine di maggio lo trovai a New York, su di un palco nel Central Park, mentre parlava al rito annuale di saluto per la celebrazione di Israele. “Noi non rinunceremo mai, mai alla nostra terra,” dichiarò Ha’Ivri.

Si mise in posa per le fotografie con il presidente del Comitato Nazionale Repubblicano, Michael Steele, e distribuì opuscoli sulla possibile “deducibilità dalle tasse del fisco statunitense 501 c3” delle donazioni fatte al suo ente di beneficenza, Shuva Israel, che fin dal 2004, aveva raccolto per le comunità di Shomron più di  2,6 milioni di dollari.

Sebbene le disposizioni del fisco statunitense (I.R.S.) stabiliscano che gli enti caritatevoli americani dimostrino di avere “Il pieno controllo dei finanziamenti donati e conservino una discrezionalità sul loro uso,” Shuva Israel risulta essere sotto il totale controllo dei coloni israeliani.

Ha’Ivri, che vive nell’insediamento di Kfar Tapuach, era stato quotato come direttore esecutivo del gruppo nel suo schedario fiscale più recente; Gershon Mesika, il dirigente del Consiglio di Shomron, è il presidente del consiglio d’amministrazione; e il contabile di Shuva Israel ha sede nell’insediamento di Tekoa. La sua rappresentanza americana è data da una casella postale ad Austin, Texas, dove, secondo il suo schedario fiscale, ci sono due volontari che hanno anche la doppia funzione di membri del consiglio di amministrazione.

Uno di questi, Jeff Luftig, ha dichiarato: “Io non ho mai partecipato al consiglio di amministrazione.”

Quando hanno chiesto ad Ha ‘Ivri informazioni a proposito della sua duplice funzione di dirigente dell’ente caritatevole e di uno dei funzionari con il consiglio che lo sostiene, Ha’Ivri ha dichiarato che da tempo non era più direttore esecutivo, sebbene non potesse ricordarsi che cosa fosse. Afferma che era sicuro che l’ente caritatevole si fosse attenuto alla legge, aggiungendo che il denaro che viene raccolto è diretto solo al miglioramento della vita dei coloni.

Esigere un Prezzo.

Se Ha’Ivri ha cambiato tattica, una nuova generazione ha raccolto il suo approccio aggressivo. Anche questi attivisti ricevono il sostegno americano.

La loro campagna ha preso il nome di “Cartellino del Prezzo”: Per ogni mossa delle autorità israeliane finalizzata a limitare la costruzione degli insediamenti, il prezzo imposto sarebbe stato un attacco a una moschea araba, a un vigneto o a un uliveto.

Le conseguenze sono state ostentate nella recente scorribanda nel villaggio arabo di Huwara, dove era stata profanata la parete di una moschea con graffiti della stella di Davide e con le prime lettere del nome del Profeta Mohammad scritte in ebraico. Nel vicino villaggio palestinese di Mikhmas, il vice sindaco, Mohamed Damim ha raccontato che i coloni erano giunti nel buio profondo della notte e hanno sradicato o  abbattuto centinaia di alberi di ulivo e di fichi.

“L’esercito non ha fatto nulla per proteggerci,” ha dichiarato. Sebbene gli attacchi siano per natura piccoli, i comandanti israeliani temono che essi facciano affondare la pace precaria che loro hanno creato nella Cisgiordania con la collaborazione dell’Autorità Palestinese.

In un’intervista, un ufficiale superiore ha dichiarato: “Tutto ciò potrebbe ravvivare il terrore e la violenza in tutta la Cisgiordania  ”.

Ufficiali israeliani delle forze dell’ordine sostengono che nelle indagini fatte nel nord sulla violenza dei coloni, si sono spesso imbattuti in persone collegate alla Yeshiva Od Yosef Chai dell’insediamento di Yitzhar. Dopo l’incendio di una moschea a Yasuf, a dicembre, le autorità hanno arrestato il rabbino capo della Yeshiva, Yitzhak Shapira, e parecchi studenti, ma li hanno dovuti rilasciare per mancanza di prove. Rabbi Shapira ha negato il suo coinvolgimento. E’ noto in Israele per i suoi punti di vista violenti. E’ stato il co-autore di un libro pubblicato lo scorso anno in cui si  forniva una giustificazione religiosa nel caso dell’uccisione di non-ebrei che rappresentano una minaccia per gli ebrei o, nel caso di bambini, potrebbero esserlo nel futuro.

Una targa posta all’interno di una yeshiva costruita di recente ringrazia il Dr. Moskowitz, imprenditore ospedaliero, e sua moglie Cherna, per il “loro sostegno continuo e generoso.” Un’altra afferma riconoscenza a Benjamin Landa di Brooklyn, un operatore di una casa di cura per anziani che ha fatto donazioni tramite la sua fondazione, l’Ohel Harav Yehoshua Boruch. Landa ha dichiarato di aver fatto donazioni alla yeshiva dopo che il suo vecchio edificio era stato distrutto a seguito di un saccheggio arabo. Nessuna delle donazioni americane era collegata alla campagna di aggressioni.

L’esercito israeliano ha organizzato le violazioni dell’autorizzazione accantonata che avevano costituito le basi per la minacciata demolizione della yeshiva. E i funzionari hanno escluso per mesi e mesi dalla Cisgiordania alcuni studenti della yeshiva.

In un’intervista, il direttore dell’Od Yosef Chai, Itamar Posen, ha dichiarato che i militari erano stati lasciati ingiustamente soli al di fuori della yeshiva perché “le cose che pubblichiamo sono contrarie alle loro idee, ed erano spaventati.”  Ha’Ivri e Mesika hanno accusato l’esercito di mettere in pericolo i mezzi di sostentamento degli uomini senza il dovuto processo.

Un fondo per la difesa legale dei coloni, Honenu, con il proprio braccio americano di beneficenza, ha tentato di fornire una rete di sicurezza.

Un appello on line per le donazioni fiscalmente detraibili da inviare all’ufficio postale di Honenu con base a Queens recitava,”Se possono essere sostenute le famiglie dei tre uomini, altri andranno in “Cima alle colline” per affrontare le minacce loro rivolte da parte dell’esercito e del governo.”

Raggiunto il mese scorso, uno degli uomini, Akiva HaCohen, si è rifiutato di dire l’entità del sostegno che aveva ricevuto dai donatori americani; anche i funzionari di Honenu in Israele si sono rifiutati di fare commenti.

Non c’è modo di fornire informazioni in base alle detrazioni fiscali della Honenu americana; nessuna disponibilità c’è stata da parte della Guidestar, una società di servizi che segue le tracce di certificazioni d’imposta fatte da società no-profit. Ai gruppi che raccolgono meno di 25.000 dollari all’anno non viene richiesta la documentazione. Ma una rivista di denunce dei redditi compilate da altre società caritatevoli ha mostrato che una Fondazione della Famiglia Americana ha fornito in un solo anno 33.000 dollari, sufficienti perché venga richiesta la registrazione.

Alla richiesta se non avesse mai presentato una dichiarazione dei redditi, Aaron Heimowitz, un pianificatore finanziario nel Queens, dove raccoglie donazioni per conto di Honenu, ha risposto: “Non sono in grado di rispondere.”

Finanze non trasparenti.

Enti caritatevoli di carattere religioso sono ancor meno trasparenti; il codice fiscale non impone loro di dichiarare pubblicamente le loro finanze.

Hagee è uno dei pochi cristiani sionisti che reclamizza la sua filantropia in Israele e nei territori, con almeno 58 milioni di dollari che, lo scorso anno, sono stati distribuiti attraverso un impero multimediale che ruota su un mare di libri, dvd e cd sul ruolo di Israele nella profezia biblica.

Gli assistenti di Hagee dicono che lui distribuisce la maggior parte  delle sue donazioni all’interno dei confini di Israele del 1967 e cerca di evitare le zone contese. Eppure un complesso sportivo nel grande insediamento di Ariel – il cui futuro è in discussione – porta il suo nome. E pochi anni fa , secondo i funzionari della yeshiva ad Har Bracha, Hagee ha donato 250.000 dollari per ampliare un dormitorio.

La yeshiva è il principale motore di crescita dell’insediamento, in quanto attrae studenti che mettono radici. (Alcuni di questi sono soldati, e il rabbino capo li ha invitati a rifiutare di obbedire all’ordine di sfrattare i coloni) Dopo che, nel 1992, la yeshiva era stata messa in funzione, “Il luogo decollò nel vero senso della parola,” aumentando da tre a più di 200 famiglie, ha raccontato il portavoce della yeshiva, Yonaton Behar. “L’obiettivo,” ha aggiunto,”è di crescere fino al punto in cui il problema di sradicare Har Brach non esista più.”

Ad Har Bracha confluiscono svariate forme di attività americane a favore dei coloni. La famiglia Moskowitz ha sostenuto il pagamento della costruzione principale della yeshiva. Nei paraggi, era stata costruita una cantina con l’aiuto di volontari forniti da ministeri Ha Yovel, che portano consistenti gruppi di volontari per potare e per fare la raccolta. L’ente caritatevole di Ha ‘Ivri promuove il programma.

Il proprietario della cantina, Nir Lavi, sostiene che la sua terra è stata autorizzata dallo stato. Ma i funzionari del villaggio palestinese contiguo di Iraq Burin affermano che parte della cantina era stata edificata su  terreno estorto a coloro che vi risiedevano con un furto della terra realizzato pezzo dopo pezzo.

Controversie di questo tipo sono caratteristiche della zona, come pure sono contrastanti i racconti su ciò che è accaduto quel giorno di febbraio quando il leader Ha Yovel, Tommy Waller, e i suoi volontari sostengono di essere stati attaccati e un pastore era stato colpito.

“Si erano fatti avanti gridando, e lanciando sassi con le loro fionde come Davide quando correva dietro al gigante,” ha dichiarato Waller, e ha aggiunto che una guardia di sicurezza di Har Bracha era venuta in soccorso sparando in aria, senza prendere di mira gli attaccanti.

Ma in un’intervista, il pastore Amid Qadoos, aveva riferito che i coloni avevano dato inizio al tafferuglio lanciandogli dei sassi perché stava pascolando il suo gregge sulla terra del villaggio, a pochi metri dal vigneto, dicendogli, “Non hai il permesso di stare qui”. Allora, ha raccontato che, come rappresaglia, lui e i suoi fratelli avevano lanciato in risposta delle pietre, e così facendo la guardia di sicurezza gli aveva sparato nel dorso della gamba. Suo padre, Aref Qadoos, ha aggiunto, “Loro vogliono che ce ne andiamo così possono confiscarci la terra, per via della semina.”

Nonostante due volontari fossero stati feriti, Waller ha affermato che né lui né il suo gruppo si sarebbe scoraggiato. “La gente è coinvolta nel nostro lavoro in quanto crede che la bibbia sia autentica e desidera essere partecipe della promessa di Dio,” ha asserito. “Noi crediamo che la restaurazione di un Israele, che includa la Samaria e l Giudea, faccia parte di quella promessa.”

Nell’ultimo anno, ha detto di aver portato 130 volontari. Per l’anno che verrà s’immagina saranno sui 400.


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http://www.huffingtonpost.com
July/ 6/10 02:21 PM

Israel Settlements Cover 42 Percent Of West Bank
By Matti Friedman

JERUSALEM — The Israeli military indicted a soldier Tuesday on a charge of manslaughter during last year's war in the Gaza Strip – the most serious criminal charge to come out of an internal investigation into the devastating offensive in the Hamas-ruled territory.

The soldier was among three troops, including a field commander, to face new disciplinary action stemming from their conduct during the offensive, which has drawn international condemnation for its civilian death toll. An Israeli human rights group praised the announcement, but said the disciplinary measures announced by the army so far were insufficient.

The steps against the soldiers were linked to four specific incidents during the offensive, which Israel launched to halt years of rocket fire from Gaza.

Around 1,400 Gazans, many of them civilians, were killed in three weeks of fierce urban fighting and aerial bombardments. Thirteen Israelis were killed. A report commissioned by the U.N. Human Rights Council accused Israel of deliberately targeting civilians, a charge Israel rejects.

In a statement Tuesday, the military said its chief prosecutor would indict an infantrysergeant for manslaughter in connection with an incident in which two Palestinian women – a mother and daughter – were killed while reportedly holding white flags.

The military said there were discrepancies between the troops' accounts of the incident and the details reported widely by human rights groups, The troops reported shooting one man at the site, not two women, and on a different date. Also, it was unclear exactly whom the soldier was charged with killing. Asked for clarification, the military did not offer further details.

The military said this was the first manslaughter indictment from the Gaza war.

The incident was mentioned in U.N. report, which accused both Israel and Hamas of war crimes.

In addition, the military said a battalion commander was disciplined for allowing his troops to use a Palestinian civilian as a human shield. Soldiers sent the man toward a house where militants were holed up to persuade them to come out, a violation of army regulations, the announcement said.

In a third incident, the military said it disciplined an officer who ordered an airstrike near a mosque, an attack that the U.N. report said killed at least 15 civilians and wounded 40.

The military said the strike targeted a Palestinian militant outside the mosque and that the harm to those inside the building was unintentional, so it did not violate international law. But the military also said the officer was negligent and "failed to exercise appropriate judgment," and he would be barred from serving in "similar positions of command" in the future.

In the fourth incident, the military prosecutor ordered a new investigation into the deaths of two dozen members of a family who were ordered by troops into a building that was shelled later in the fighting.

Israel says Hamas bears overall responsibility for the casualties because it fired rockets and fought from heavily populated towns and cities. An internal military investigation last year largely cleared the army of any systematic wrongdoing, while promising to prosecute individual cases of misconduct.

One soldier has been convicted of stealing and using a Palestinian's credit card, while two others are being prosecuted for using a Palestinian boy as a human shield.

An army spokesperson said these indictments are part of an ongoing investigation of nearly 50 claims.

Sarit Michaeli, a spokeswoman for the Israeli human rights group B'Tselem, praised the military for making progress in its investigations but said they were insufficient.

"The main questions about the Gaza war concern policy, and a military investigation can't handle this," she said. "There must be an external investigation that will deal with the whole chain of command and chiefly with the people at the top who approved the directives."

Also Tuesday, as Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu landed in Washington for talks with President Barack Obama, B'Tselem released a report showing that much of the West Bank, where Palestinians want to establish a state, is under the control of Israeli settlements.

Although the actual buildings of the settlements cover just 1 percent of the West Bank's land area, they have jurisdiction over more than 42 percent, the B'Tselem report said. Much of that land was seized from Palestinian landowners in defiance of an Israeli Supreme Court ban, the group said.

The Palestinians claim all of the West Bank, captured by Israel in the 1967 Mideast war, as part of a future state.

Dani Dayan, chairman of a settler umbrella group, disputed the report, saying settlements control just 9.2 percent of the West Bank, and charged that the report was aimed to sabotage the Netanyahu-Obama meeting.

Israeli government officials would not comment.

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http://www.ipsnews.net
Jul 27, 2010

Dutch Christian Group Backs Settlements
By David Cronin

NIJKERK, The Netherlands, Jul 27, 2010 (IPS) - Sandwiched between giant car and furniture stores on a motorway stop-off, a blue-and-white Star of David flag droops nonchalantly on a stifling summer's day. The factory-like building beside it could easily be missed by a traveller who blinks too soon, yet the work undertaken here in the Israel Centre is far from commonplace.

Its staff and management are dedicated not to the manufacturing of goods or to devising sales strategies but to drumming up support for a contentious political project: expanding Israeli settlements in the occupied Palestinian territories.

The centre is home to Christenen voor Israel (Christians for Israel), a Dutch organisation that views the creation of the state of Israel as the fulfilment of a Biblical prophecy. "It is very important that we in Holland work with the churches and let them know that Israel is one of the important players in the Bible and that they (Israelis) are God's chosen people," André Groenewegen, a spokesman for the group, told IPS.

Further on up the corridor from his office, a shop does brisk trade. The merchandise it sells is promoted as "made in Israel", yet closer inspection reveals that some of it is sold by firms headquartered in Israeli settlements in the West Bank. The shop's cosmetics section brims with Ahava products; though boasting minerals from the Dead Sea, these are manufactured in the settlement of Mitzpe Shalem. The shop's website, meanwhile, offers spices from Amnon and Tamar Karmi, whose head office is located in the settlement of Alfei Menashe, near the Palestinian town of Qalqilyah.

Unlike almost every member country of the United Nations, Christians for Israel refuses to regard the West Bank as occupied Palestinian territory. According to Groenewegen, "the Bible tells us" that it is part of Israel. (International law is at odds with that view; the 1949 Fourth Geneva Convention makes it illegal for an occupying power to transfer part of its own civilian population into the land it is occupying).

Although a brochure on display at the centre's entrance states that one of the group's activities is to support Israeli settlements in Judea and Samaria (the Biblical name for the West Bank), Groenewegen claims he is unaware of specific projects that it is aiding in the settlements. He concedes, though, that "our daughter organisation", Christian Friends of Israeli Communities (CFOIC) is involved in such work.

CFOIC was founded in 1995 after some Christian Zionists had expressed the view that Israel had granted too many concessions to the Palestinian Authority as part of the so-called Oslo accords. Literature published by CFOIC argues that the West Bank was granted to the Jewish people 4,000 years ago. The book of Ezekiel in the Old Testament implores Jews to settle this land and to make it "prosper more than before", according to CFOIC.

"We don't consider Judea and Samaria to be occupied," said Henk Poot, a clergyman active in CFOIC and Christians for Israel. "There was never a Palestinian state or people. Apart from this we believe that the land of Israel has been promised by God Almighty to the Jewish people and in that way we feel very much connected to the religious Zionist movement."

Poot did not respond to requests for information about how much financial assistance the CFOIC sends to Israeli settlements. Yet the organisation's website solicits donations for the installation of "security cameras" for the gates of Zufim, a settlement beside Qalqilyah, as well as for the maintenance of students in Ariel, a university for settlers.

Even though they are supporting settlement activities that the Dutch government officially considers to be illegal, Christians for Israel and the CFOIC enjoy a cordial relationship with some of the most powerful politicians in the Netherlands.

Maxime Verhagen, parliamentary leader of the Christian Democrats party and the outgoing minister for foreign affairs, expressed his support for the work of pro-Israel lobby groups in an interview published in a Christians for Israel newsletter earlier this month. Verhagen has defended Israeli atrocities against Palestinians even more hawkishly than most of his peers in the European Union's 27 governments.

In January 2009, Verhagen visited the southern Israeli town of Sderot as a gesture of solidarity with its residents; three Israeli civilians were killed by rockets fired from Gaza in late 2008 and early 2009. Verhagen refused to travel further into Gaza itself, where 1,400 Palestinians were killed over a three-week bombardment by Israeli forces.

Christians for Israel are part of a wider pro-Israel lobby with significant political clout in the Netherlands. The most influential organisation in the lobby network is the Centre for Information and Documentation on Israel (CIDI) in The Hague. During the recent general election in the Netherlands, one of CIDI's staff members Wim Kortenoeven won a parliamentary seat for the Party for Freedom, led by the far-right politician Geert Wilders.

This party is in talks with the Christian Democrats about the possible formation of a coalition government. Another pro-Israel lobbyist Gidi Markuszower had been named as a candidate on Wilders' electoral list but Markuszower's candidacy was withdrawn at a late stage in the election, reportedly because he had previously been arrested for carrying a gun in public.

Max Wieselmann, a representative of European Jews for a Just Peace, an organisation campaigning for the rights of Palestinians to be respected, said that Christians for Israel is in close contact with Israeli diplomats. "You can always see the Israeli ambassador at their meetings or when they have parties and receptions," Wieselmann added. "This is a little bit funny. We always say - - and it is the same for Christian fundamentalists in the U.S. -- that they are not interested in Jews as people but only as a vehicle for their own views."

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30 maggio 2010

Gli Usa finanziano strade dell'apartheid nella West Bank
di Mel Frykberg

RAMALLAH, 30 maggio 2010 (IPS) - La United States Agency for International Development (USAID) sta aiutando Israele a costruire una rete stradale privilegiata nei territori palestinesi occupati in Cisgiordania, finanziando quasi un quarto delle infrastrutture stradali a beneficio principalmente dei coloni israeliani.

Le cifre fornite da USAID confermano che l'agenzia ha finanziato 235 km di strade in Cisgiordania negli ultimi dieci anni, e si appresta a finanziarne altri 120 km entro la fine di quest'anno, ha scritto il giornalista di Nazareth Jonathan Cook della testata araba “The National”.

Secondo un rapporto pubblicato ad aprile dall'Istituto di ricerca applicata di Gerusalemme (ARIJ), USAID ha contribuito a costruire 114 km di carreggiata nel territorio palestinese destinata unicamente agli israeliani, nonostante le rassicurazioni di Washington sei anni fa, dope le proteste dell’Autorità Palestinese.

L’Organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha riferito che ci sono 170 km di strade nella West Bank in cui l’accesso ai palestinesi viene vietato o comunque fortemente limitato.

Dopo la Pace di Oslo del 1994, Israele ha chiesto alla comunità internazionale di finanziare 500 km di vie di comunicazione per i palestinesi, in seguito denominate “Tessuto della vita”, includendo nel progetto anche la fornitura di trattori innovativi per l’agricoltura e la costruzione di sottopassi e ponti, al costo di 200 milioni di dollari, ha riferito Cook.

Tuttavia, i paesi donatori hanno respinto la richiesta a causa delle proteste dell’Autorità Palestinese secondo cui un sistema di infrastrutture separate radicato nel territorio aumenterebbe il potere degli insediamenti israeliani e renderebbe la loro presenza permanente, giustificando allo stesso tempo l’espropriazione di terre palestinesi.

Ma sembrerebbe che la PA sia stata costretta, su ordine di Israele, a decidere se prendere o lasciare la proposta di USAID senza condizioni.

"USAID ha presentato una proposta di donazione finalizzata alla costruzione di infrastrutture in Cisgiordania e i palestinesi si sono trovati di fronte a una scelta categorica, prendere o lasciare. Così la PA si trova alle strette e deve accettare anche strade che non vuole", dice Suheil Khalilieh dell’ARIJ.

Nel 2004 Israele ha iniziato la costruzione di una rete viaria che concede ai coloni israeliani l’uso esclusivo di autostrade che collegano colonie israeliane illegali con le città dello Stato di Israele, rendendo il viaggio veloce ed efficiente.

I palestinesi sono costretti a percorrere strade secondarie piene di buche e molto accidentate, e qualche volta anche sentieri battuti.

Queste strade tortuose - progettate specificamente per la "sicurezza" dei coloni. Sono più lunghe e ostacolano i movimenti dei palestinesi, impediscono loro di incontrare la propria famiglia, e di accedere ai servizi primari come l’educazione, le cure mediche e i servizi commerciali.

Molte delle strade sono state costruite su terreni di proprietà privata dei palestinesi. In alcuni casi son stati espropriati terreni agricoli, mentre altre volte per far posto alle “strade dell'apartheid” gli israeliani hanno demolito abitazioni ed edifici.

Il tribunale israeliano ha decretato che una delle una delle principali autostrade della West Bank fosse aperta al traffico palestinese.

Una decisione respinta dall’esercito di difesa israeliano (IDF) secondo cui i Palestinesi possono usare solo una parte della strada e solo dopo aver passato i controlli predisposti dai posti di blocco.

La Banca mondiale riferisce che le centinaia di posti di blocco israeliani e i blocchi stradali in Cisgiordania hanno un impatto negativo sull'economia palestinese e ostacolano la crescita economica.

La mancanza di una infrastruttura stradale completa e integrata impedisce la nascita di uno stato palestinese contiguo. La Cisgiordania oggi è suddivisa in tre cantoni principali.

Nel frattempo, Al Jazeera ha riferito che USAID ha intenzione di investire 153 milioni di dollari in progetti infrastrutturali nella West Bank quest’anno.”

"E’ un aumento significativo se si considerano i 65 milioni di dollari del 2009. Inoltre, dal 1993, l'agenzia statunitense ha versato 2,9 miliardi di dollari per i territori occupati. Denaro che ha finanziato vari settori tra cui giovani, istruzione, governance e democrazia, commercio e sviluppo economico".

Ma le organizzazioni per i diritti umani hanno messo in discussione il vasto impegno militare e finanziario fornito dagli americani alle forze di sicurezza palestinesi, mentre gli abusi frequenti da parte delle forze armate del Presidente Mahmoud Abbas restano ignorati.

Gli oppositori politici dell’Autorità Palestinese filo-occidentale vengono regolarmente maltrattati e torturati nelle carceri palestinesi e una parte di loro muore in carcere, dove è trattenuta in circostanze discutibili.

Secondo il quotidiano britannico “The Guardian”, le forze di sicurezza palestinesi stanno lavorando a stretto contatto con la CIA per torturare i dissidenti palestinesi. Quando questi ultimi, lo scorso dicembre, hanno ucciso un colono, pare che Abbas abbia ordinato ai suoi uomini di fare turni di lavoro extra per trovare i colpevoli, arrestando centinaia di persone.

Mentre USAID in passato era collegata a operazioni della CIA in America Latina e in Asia, non esistono le prove di alleanze di questo genere nei territori palestinesi.

"Il grosso del denaro fornito da USAID è utilizzato per scopi politici, come in Israele, Egitto, Palestina, Giordania,Medio Oriente, e in Bolivia, Perù, Colombia per la guerra ai narcotrafficanti", afferma Ludwig Rudel che ha lavorato per USAID per 25 anni.

Samer Shehata, assistente di Studi sulla Politica Araba Contemporanea presso la Scuola di Relazioni internazionali Edmund A.Walsh della Georgetown University, ha detto che la maggior parte degli aiuti bilaterali è certamente in qualche modo politicizzata.

"Il programma USAID non fa assolutamente eccezione. In realtà, anzi, è sfruttato a scopo politico molto più dei programmi di aiuto bilaterale portati avanti dalla maggior parte dei paesi europei” dice Shehata.

L'anno scorso l’Università Islamica di Gaza ha pubblicato uno studio sulle ONG: “Realtà, sfide e prospettive: l'effetto dei fondi USAID per lo sviluppo della comunità palestinese”.

Secondo lo studio, "il finanziamento di USAID è utile alle ONG palestinesi e al sostegno della comunità palestinese, nonostante sia condizionato e, talvolta, subordinato all’agenda politica statunitense nella determinazione degli indirizzi d’intervento, che in alcuni casi, non sono conformi alle priorità palestinesi “. “Tuttavia”, continua, “il finanziamento USAID non riduce la vulnerabilità dell’economia palestinese né la sua dipendenza da fattori esterni. Inoltre, non limita l'effetto negativo dell’occupazione israeliana e non compensa le vittime di guerra dei danni e delle perdite subiti". © IPS

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