Il Sequestro dell’Istruzione Pubblica

Perversione e normalizzazione dei concetti al centro delle politiche educative
della nuova destra

João M. Paraskeva

Universidade do Minho, Braga, Portugal

paraskeva@iep.uminho.pt

Traduzione e sintesi  dall’inglese a cura di Maurizio Geri


Introduzione

 

Inizierò la mia analisi con una dolorosa ma indiscutibile affermazione: l’istruzione pubblica è stata sequestrata. La mia proposta è di esaminare come questo sia accaduto – dato che tutti noi sappiamo molto bene chi l’ha fatto. Com’è che l’istruzione pubblica è divenuta ostaggio dei processi politici della nuova destra nel mondo? Ovviamente varie questioni e differenti strategie hanno provocato una realtà così scioccante.

 

Questo articolo quindi cerca di svelare alcune delle strategie che stanno alla base dell’attuale atteggiamento trionfalistico delle nuove destre. Per capire il modo in cui i processi politici della nuova destra hanno rinchiuso l’istruzione pubblica in un tempo e in uno spazio così spaventosamente ridotti – totalmente privata della sua capacità di promuovere e sviluppare il bene comune – dobbiamo essere profondamente coscienti di due punti: (a) come particolari pratiche e concetti chiave – come democrazia, stato, istruzione etc. – siano stati abilmente e gradualmente distorti e pervertiti, dirottati con fermezza fuori dalla sfera sociale e plasmati nuovamente all’interno di una materialità economicamente attrattiva, e (b) come il trionfalismo della nuova destra sia profondamente imbrigliato all’interno di “politiche di senso comune” e all’interno del ruolo stesso che i mass media giocano nella costruzione di una particolare struttura di senso comune. Termineremo la nostra analisi prendendo come esempio la realtà portoghese e denunciando quello che si potrebbe chiamare, senza nessuna esitazione, il “record criminale” di alcuni dei Corsi di Laurea o Corsi per l’Insegnamento all’interno delle Università e dei College.

Lasciatemi innanzitutto spiegare – usando la terminologia di Roland Barthes (1987) – la “cartografia neoliberale”, che fa del neoliberalismo un “blocco egemonico non monolitico”. Le parole “blocco non monolitico”, infatti, sono importanti qui per comprendere come il modello neoliberale sia rappresentato da un insieme di processi di costruzione e decostruzione che guidano la sua devastante posizione trionfale ed egemonica; posizione che però rappresenta un sistema mondiale di coalizioni piuttosto improbabili.

Un blocco egemonico non monolitico – centrismo neo radicale

Per comprendere accuratamente l’emergere e il consolidamento delle politiche delle nuova destra all’interno dell’educazione bisogna prestare molta attenzione alle origini di stampo culturale ed economico di queste politiche. Come McChesney (1999, p.7) afferma “è esattamente nella sua oppressione delle forze non di mercato che vediamo come il neoliberismo opera, non solo come un sistema economico ma anche come un sistema culturale e politico”. La struttura politica, economica e culturale della nuova destra non è arrivata inaspettatamente. Un’analisi veritiera della nascita e degli effetti delle politiche all’interno dell’educazione, in generale, e dei programmi di studi, in particolare, richiede di esaminare l’emergere del “Reaganismo-Bushismo” e del “Thatcherismo-Majorismo” negli Stati Uniti e in Inghilterra, considerati da molti studiosi come il punto più alto della “svolta a destra”. È importante quindi considerare le piattaforme culturali ed economiche alla base delle linee politiche della nuova destra, come emergenti dal “Reaganismo” e dal “Thatcherismo”, per le quali le analisi di House (1998), Hall (1988) e Apple (2000) rappresentano un eccellente punto di partenza.

Come si può chiaramente vedere dall’esame di House e Hall le similitudini fra il “Reaganismo” e il “Thatcherismo” sono abbastanza concrete e evidenti. In entrambi gli approcci economici e politici possiamo identificare infatti una simbiosi fra gli argomenti e le pulsioni neoliberali e neoconservatrici. House, Hall e Apple, oltre a tracciare le radici della svolta a destra, rivelano poi anche le ragioni per le quali la destra è stata capace di costituirsi come una forza egemonica. La destra infatti, marginalizzando i propri elementi più reazionari e a favore del libero mercato – si è risolta per lo stato sociale, l’educazione generale, la gestione Keynesiana della politica economica e l’impegno ad una piena occupazione, nei termini di un compromesso pacifico fra il capitale e la forza lavoro. In cambio la sinistra ha accettato di lavorare ampiamente all’interno di condizioni poste da un capitalismo modificato e all’interno del blocco occidentale come sfera d’influenza strategica. Nonostante le molte reali differenze di enfasi e un certo numero di amare lotte industriali e politiche, che hanno marcato la scena politica di tanto in tanto, la situazione è stata caratterizzata quindi da un profondo, fondamentale consenso o compromesso sulle strutture economiche e sociali basilari, all’interno delle quali i conflitti erano per il momento risolti o controllati (Hall, 1988, p 36).

La tendenza attuale della nuova destra dovrebbe essere compresa però come un blocco non monolitico, capace di costruire un’intricata e potente coalizione comprendente gruppi antagonisti. Per spiegare questo esaminerò adesso la cartografia della ‘virata a destra’ avvenuta negli Stati Uniti, un’indagine che si adatta a molte nazioni in ogni parte del mondo. E per fare questo costruirò la mia analisi usando l’approccio di Aplle (2000).

La nuova destra quindi dovrebbe essere vista come un’alleanza conservativa che, in particolare negli Stati Uniti, include quattro gruppi specifici. Il primo gruppo, i neoliberali, “rappresentano elites politiche ed economiche intente a modernizzare l’economia e le istituzioni ad essa connesse” (Apple, 2000, pp.xxiv-xxv). Il secondo gruppo, i neoconservatori “sono conservatori a livello culturale ed economico che vogliono un ritorno agli ‘alti livelli’, alla disciplina, alla conoscenza ‘reale’ e a ciò che in sintensi è una forma di competizione sociale darwinista” (Apple, 2000, pp. xxiv-xxv). Il terzo è un “un segmento sempre più attivo di populisti autoritari” (Apple, 2000, p. xxv), un insieme “composto per la maggior parte da gruppi della classe lavoratrice e della classe media”. E infine il quarto gruppo è composto “da una frazione della nuova classe media professionista” (Apple, 2000, p.xxv).

I neoliberali, “di solito alla guida dell’alleanza”, credono assolutamente che “il mercato risolverà tutti i ‘nostri’ problemi sociali”, dato che il privato è necessariamente buono e il pubblico necessariamente cattivo – da cui il loro forte sostegno ai piani di scelta privatizzati e basati sui “voucher” (Apple, 2000, p. xxv). I neoconservatori invece, come affermano Levine (1996) e Apple (2000, p. xxv), “sono spinti da una visione nostalgica e alquanto romantica del passato, [spesso] basata su un disconoscimento fondamentale del fatto che ciò che loro potrebbero chiamare i “classici” e la conoscenza “reale”, hanno raggiunto questo status proprio come risultato di intensi conflitti e spesso erano questi stessi visti come pericolosi culturalmente e destabilizzanti moralmente, esattamente come ognuno dei nuovi elementi del programma e della cultura che loro adesso castigano”. Questa complessa coalizione poi diviene più potente con l’integrazione dei populisti autoritari e di una frazione specifica della nuova classe media. I populisti autoritari sono molto potenti in sfere come quella dell’educazione e “provvedono a buona parte del sostegno dal basso per le posizioni neoliberali e neoconservatrici, dato che si considerano come liberati da quell’ ‘umanismo laico’ che pervade l’istruzione pubblica” (Apple, 2000, p. xxv).

Bisogna affermare poi che fra le infinite questioni che sostengono e allo stesso tempo guidano gli impulsi della nuova destra, la più importante è la loro draconiana affermazione che della realtà caotica che le scuole pubbliche stanno affrontando può essere incolpata la tradizione Liberale ma anche (e questo è di grande importanza) la tradizione Progressista.

In prima linea su queste posizioni opportunamente ‘inclinate’ vorrei sottolineare i lavori di Bennet (1992), Hirsch (1996) e Ravitch (2000) fra gli altri. Mentre l’ultimo lavoro di Ravitch “Left Back” (2000) fornisce una chiara evidenza del modo in cui la nuova destra percepisce e giustifica la crisi dell’istruzione pubblica biasimando il progressismo, il libro di Hirsch, “Le scuole di cui abbiamo bisogno e perchè non ce le abbiamo” (1996) dimostra una vera e propria disonestà intellettuale. In un libro goffamente dedicato a Gramsci infatti, Hirsch (1996, p. 7) sottolinea, donchisciottescamente, che il caos che permea alla radice il sistema scolastico americano è basato sul fatto che il sistema è ancorato ad un approccio ‘freiriano’, un approccio che respinge “i metodi di insegnamento (e gli argomenti) tradizionali alla teoria bancaria dell’istruzione, e [un approccio che pietrifica] le facoltà critiche degli studenti e [conserva] la classe oppressa”. Questo succederebbe invece di seguire un approccio ‘gramsciano’, che al contrario sosterrebbe che “il progressismo politico richiede un conservatorismo educativo” (Hirsch, 1996, p. 7).

Ora, sebbene sia vero che Gramsci difendeva la creazione degli ‘intellettuali organici’ della classe operaia come un modo fondamentale per raggiungere il potere in una data società, il fatto è che Gramsci in nessun modo sostenne che questo processo dovesse essere raggiunto attraverso la rimozione della cultura della classe operaia. In realtà Gramsci fece un richiamo alla classe operaia affinché raggiungesse la padronanza della cultura tradizionale (o, come Hirsch (1996, p.7) dice saggiamente, “per conoscere perfettamente gli strumenti del potere e dell’autorità”), ma invadendo anche lo spazio tradizionale con la propria cultura, la cultura stessa della classe operaia. Evitando ogni tipo di eufemismo Gramsci non affermò mai che il prezzo che la classe operaia avrebbe dovuto pagare per prendere possesso della cultura tradizionale fosse stata la cancellazione della propria, potente, capacità culturale. Una lettura talmente distorta di Gramsci è ancora più inaccettabile se fatta da qualcuno il cui background è in letteratura, come nel caso di Hirsch (1996). Chi ha un background in letteratura infatti (e non sosteniamo qui nessun tipo di selettività) conosce molto bene l’azione reciproca fra i linguaggi e le culture: si sfregano gli uni contro le altre provocando cambiamenti drammatici.

Come Gramsci (1985, p. 41) felicemente ci ricorda “il mero fatto che i lavoratori sollevino queste domande e cerchino di dare una risposta, significa che gli elementi di un civilizzazione proletaria originale già esistono, che ci sono già forze proletarie di produzione di valori culturali”. È chiaro che Hirsch, come minimo, fraintende Gramsci. Anche con la così detta ‘magnanimità’ della cultura antica, le affermazioni di Hirsch decadono.

In realtà è utile qui l’intuizione di Backer (1978), e cioè la sua osservazione che sebbene i Romani invasero l’Impero greco, a loro volta furono invasi dalla lingua e dalla cultura greche. E questa non è un’eccezione nella storia. Inoltre, in un sistema scolastico profondamente strutturato dalla logica secolare dell’efficienza, che premia una cultura individualistica, sarebbe intellettualmente sleale sostenere che quel sistema scolastico è un esempio di disastro sociale perché è basato su un approccio (per esempio quello freiriano) che rivendica esattamente e radicalmente tutt’altro. L’analisi di Hirsch è sleale non solo rispetto a Freire e Gramsci, ma anche rispetto al sistema scolastico americano. Comunque, facendo così, lui ha raggiunto qualcosa che non dovrebbe essere sminuita: ha spostato la responsabilità dai modelli di efficienza a una, opportunamente vaga, nozione di progressismo, identificata come un gruppo politico monolitico; e facendo così ha ‘costruito’ la malattia e offerto la prognosi.

Sintetizzando quindi i maggiori argomenti di questi approcci della nuova destra verso l’istruzione pubblica, vediamo come le argomentazioni di Apple (2000) ci insegnano molto. Descrivendo l’attuale periodo dell’educazione come un periodo di reazione, Apple (2000, p.91) argomenta infatti che gli attacchi della nuova destra all’istruzione pubblica sono basati su una visione ‘affrettata’ delle “nostre istituzioni educative come fallimenti”: alti livelli di abbandono scolastico, un declino nell’ ‘alfabetizzazione funzionale’, una perdita degli standard e della disciplina, il fallimento nell’insegnamento della ‘conoscenza reale’, poveri risultati nei test standard e in più queste problematiche sono uguali in tutte le scuole. E tutto questo, ci dicono, ha portato al declino della produttività economica, alla disoccupazione, alla povertà, alla perdita della competitività internazionale e così via. Il ritorno a una ‘cultura comune’ farebbe le scuole più efficienti, più competitive e più aperte all’iniziativa privata (al concetto di ‘mammona’ insomma); questo risolverebbe i nostri problemi (Apple, 2000, p.91). Apple (2000,p. 91) sostiene che ovviamente “dietro a questo c’è un attacco alle norme e ai valori egualitari” e  l’errore pericoloso che “troppa democrazia – culturale e politica [sia] la causa maggiore del ‘nostro’ declino economico e culturale” (Apple, 2000, p. 91).

La frenetica e sconsiderata promozione da parte della nuova destra degli ‘standard’, della competizione, dell’efficienza e della responsabilità, solo per menzionarne alcune prerogative, non solo quindi distrugge in modo virulento ogni possibilità di affrontare come questioni pubbliche problemi come l’ineguaglianza, ma moltiplica quelle ineguaglianze selvagge (o, per dirla in maniera più corrosiva, rende ‘invisibili’ diseguaglianze specifiche, come Ellison (1952) ha notato) radicate fin nel midollo della società.

Apple (2000) poi sottolinea che le politiche sociali di riduzione dei fondi della nuova destra creano una situazione nella quale l’aiuto statale ai distretti scolastici locali – mai totalmente sufficienti in molti dei più poveri fra i distretti scolastici – è stato sempre meno capace di mantenere i programmi già prestabiliti, come le classi per i bambini con bisogni speciali o che parlano lingue diverse dalla lingua del posto. Le implicazioni letali di questa strategia sono visibili nel modo in cui le politiche della nuova destra in Inghilterra per esempio sono state capaci di disegnare programmi di studi multiculturali basati esclusivamente sulla lingua inglese, trascurando altre forme linguistiche (Macedo, Dendrinos & Gounari, 2003). Inoltre questo tipo di politica sociale “ha significato che per molte scuole sarà quasi impossibile conformarsi con i programmi decisi dai governi statali e federali a favore della salute e contro la segregazione. Senza parlare degli altri bisogni specifici.” (Apple, 2000, p. 92).

Detto questo, di fronte alla realtà spaventosa sostenuta dalle politiche della nuova destra, una semplice domanda diviene inevitabile. Se le politiche sociali di questa nuova destra sono così letali e velenose per la fabbrica sociale, perchè hanno raggiunto una vittoria così schiacciante? Perchè le politiche della nuova destra, a dispetto dei loro effetti devastanti sulla società, rappresentano attualmente il blocco dominante? Secono Apple (2000), fra le altre questioni, non si possono separare i risultati della nuova destra dalle “politiche di buon senso” e dal ruolo che i media giocano nel costruire una struttura di senso comune. Malgrado il suo impatto disastroso sui membri svantaggiati della popolazione, la nuova destra ha in questo modo potuto raggiungere il sostegno dalla maggioranza del perimetro sociale.

Dicendo l’indicibile – la lotta intorno al senso comune

 

Il significato dell’educazione pubblica è stato, gradualmente ma con successo, trasformato sotto la leadership delle politiche sociali neoliberali.

Dato che i concetti non sono entità inerti nelle quali il contenuto è costruito sulla base di un contesto particolare, bisogna porre attenzione al “significato del linguaggio nel suo contesto specifico” (Apple, 2000, p. 16). Facendo così si è capaci di “comprendere le concezioni politiche e i concetti sociali, che sono parte di un contesto più grande”, che “cambia costantemente ed è soggetto a profondi conflitti ideologici” (Apple, 2000, p. 16).  Saremmo ingenui, come argomenta Apple (Apple, 2000, p.17), ad ignorare che l’educazione stessa è un’arena nella quale questi conflitti ideologici si “autoelaborano”, [dato che] questa rappresenta uno degli spazi principali in cui gruppi differenti, con visioni politiche, economiche e culturali distinte, cercano di definire quali devono essere i mezzi e i fini legittimati socialmente. Alla luce della caduta dei regimi liberali e all’interno dell’emergenza delle politiche della nuova destra, Apple (2000, p. 17) denuncia quindi i significati mutevoli della parola ‘uguaglianza’, “che hanno molto successo nel ridefinire a cosa serve l’educazione e nello spingere profondamente a destra il tessuto ideologico delle società” (p. 17). Come lui sostiene (2000, p. 18) è impossibile comprendere totalmente le fortune instabili dei diversi concetti riguardanti l’uguaglianza (‘uguaglianza di oppurtunità’, ‘equità’ etc.) a meno che non si abbia un quadro molto più chiaro delle dinamiche politiche, economiche e culturali, già diseguali nella società, che rappresentano il centro di gravità intorno al quale ruota l’educazione.

Al centro di questa intricata variabilità del significato di uguaglianza, Apple (2000, p. 18) indica chiaramente la tensione fra i diritti di proprietà e i diritti della persona come un contrasto cruciale per l’economia, nel quale, senza sorprendere, i gruppi di potere “hanno difeso abbastanza costantemente  le prerogative della proprietà”. Ovviamente in un momento di crisi fiscale, che è il caso particolare di nazioni come gli Stati Uniti, la tensione fra i diritti di proprietà e i diritti della persona diventa più bellicosa e i gruppi di potere sono capaci di estendere i loro bisogni economici alle istituzioni educative e ad altre istituzioni sociali. Secondo le persone adesso al potere infatti, per affrontare la catastrofe economica, “le conquiste fatte dalle donne e dagli uomini sul lavoro, la salute, la sicurezza, i programmi di previdenza sociale, le azioni positive, i diritti legali e l’educazione, devono essere annullate perchè ‘sono troppo care’ sia economicamente che ideologicamente” (Apple, 2000, pp. 18-19). Perciò non solo le spese militari correnti e le agevolazioni fiscali minano le risorse economiche, ma anche “la popolazione deve convincersi che la convinzione che i diritti delle persone vengono prima, è sbagliata o almeno antiquata data la situazione attuale” (Apple, 2000, p. 19). Si può quindi identificare questo modello sociale segregazionistico all’interno di “legislazioni, regole amministrative e manovre ideologiche tendenti a creare quelle condizioni che i gruppi di destra ritengono necessarie per soddisfare le loro esigenze” (Apple, 2000, 19).

È in questo contesto che, abbastanza naturalmente, “l’uguaglianza, non importa se concepita in maniera limitata o ampia, è stata ridefinita”, dato che “l’enfasi sulla politica pubblica è materialmente cambiato rispetto alle questioni riguardanti l’intervento dello stato per il superamento delle disuguaglianze” (Apple, 2000, p. 19). Apple (2000, p. 19) argomenta che [l’uguaglianza] non è più vista come legata a una oppressione o uno svantaggio di gruppo. È ora semplicemente una questione di garantire la scelta individuale all’interno delle condizioni del libero mercato. Perciò, l’attuale enfasi sull’ ‘eccellenza’ (una parola con molteplici significati e usi sociali) ha mutato il discorso educativo sul fatto che il basso rendimento per esempio ancora una volta è visto perlopiù come una colpa dello studente. Il fallimento degli studenti, che era almeno in parte interpretato come una colpa di politiche e pratiche educative gravemente carenti, è ora visto come il risultato di quello che potrebbe essere chiamato il “mercato biologico ed economico”.

In questo processo, piuttosto elaborato, mutilato e truculento, di ridefinizione del vero significato e scopo dell’istruzione pubblica, notiamo una fede fondamentalista e indiscussa nella libera scelta per affrontare il caos sociale ed educativo, ed attacchi agli insegnanti e ai programmi su questioni quali la responsabilità, la qualità e l’impegno. Fondamentalmente, la straordinaria strategia politica portata avanti dai neoliberali ha guidato sia l’ambito sociale che quello educativo verso una serie di conflitti multiformi; conflitti che hanno portato ad un sostanziale spostamento dell’istruzione verso destra. Come le analisi di Apple (2000, p. 20) ci mostrano, l’allontanamento dai principi democratici sociali e un’accettazione delle posizioni più a destra nella politica educativa e sociale, avviene esattamente perchè i gruppi conservatori sono stati capaci di lavorare sui sentimenti popolari, di riorganizzare i sentimenti autentici e nel frattempo conquistare aderenti.

Questa strategia ben orchestrata costruisce quindi un senso comune egemonico, ed è esattamente all’interno di questa strategia che non va ignorato il ruolo che i mass media hanno giocato, aiutando in maniera dinamica nel processo di ricostruzione del senso comune, fabbricando nuovi significati specifici ed eliminandone molti altri, alcuni dei quali considerati quasi indiscutibili e intoccabili solo pochi decenni fa. Inoltre, e questo è particolarmente terrificante, concetti chiave specifici ed elementi che storicamente erano profondamente radicati fin nel midollo di un programma e un’istruzione progressiva, come la giustizia sociale e la libertà, hanno sperimentato quello che, oso chiamare, un processo di “(de)(ri)strutturazione” del significato, un processo che ha gradualmente modificato il loro senso, per assumere un nuovo significato culturale a livello di mercato.

Questo mutamento documenta, come ho commentato altrove (Paraskeva, 2001, 2003), che i programmi giocano un ruolo chiave all’interno dell’agenda della nuova destra, un fatto innegabile che porta i rapprensentanti della nuova destra ad appropriarsi dei discorsi della sinistra. Quello che sto sostenendo è che il processo di alterazione del significato autentico di parole chiave particolari, per operare una graduale riconfigurazione all’interno del senso comune che serva ai propositi dell’agenda della nuova destra, implica un attento e complesso processo di disarticolazione e riarticolazione. Secondo Torfing (1999, p. 211), questo processo ci permette di comprendere “come gli artefatti culturali sono sovradeterminati da ideologie politiche e da identità politiche e sociali in termini di classe, razza, nazionalità e genere”. Perciò, l’articolazione, come ci ricorda Hall (1996, p. 141), è “il collegamento che ‘può’ unire due elementi differenti a determinate condizioni; [ciò significa] che rappresenta una connessione che non è necessaria, determinata, assoluta ed essenziale per sempre”. Insomma per dirla con Hall (1996, p.  141) e riprendendo alcuni argomenti che abbiamo sostenuto in precedenza, il blocco della nuova destra è stato “creato o forgiato” sotto circostanze particolari, realizzate non solo dal Reaganismo e dal Tatcherismo ma anche dall’attuale complessità che le politiche neoliberali manifestano.

Una volta raccontato come il senso comune viene ricostruito e riorganizzato intorno alla tensione fra vecchie parole-nuovi significati, attraverso un complesso processo di articolazione, è giusto adesso vedere come i mass media danno una mano apertamente a questo intricato ma scorrevole processo, utile al progetto politico della nuova destra (un progetto che deve essere situato in quello che Arrighi (1994) chiama il terzo periodo egemonico all’interno della storia del capitalismo).

Costruire la realtà 

Come ho potuto analizzare altrove (Paraskeva, 2007) per comprendere il potere dei mass media bisogna capire che l’unica questione strategica è il mercato. L’approccio di Ramonet (2001) ci è di grande aiuto in questo caso. Noi viviamo in un momento in cui le materie prime non sono più considerate come elementi strategici. Allo stesso tempo le economie più devastate del mondo sono quelle dei paesi che producono materie prime. Come lui sostiene (2001), anche la Norvegia, un paese sviluppato che produce petrolio, ha visto la sua divisa sotto un feroce attacco a causa del fatto che la sua risorsa principale è una materia prima. Ramonet sostiene che il potere globale è ancorato alla piattaforma speculativa delle borse valori, disseminate in tutto il mondo, che indeboliscono i governi nazionali. Perciò il potere politico è continuamente sfidato dal potere economico con il sostegno dell’apparato mediatico. Come ci ricordano Gee, Hull e Lankshear (1996) infatti, sotto la strategia neoliberale abbiamo assistito a una transizione dalla concentrazione sulla produzione di merci a quella sul consumo delle stesse. 

L’analisi dei mass media, sostiene Bourdieu (1996), richiede quindi la consapevolezza di questioni come la censura politica ed economica, il ‘gioco’ del mostrare e del nascondere, la ‘circolazione circolare’ delle informazioni e la relazione fra la spartizione del mercato e la competizione: tutti questi sono elementi cruciali delle strategie politiche, come è stato per l’approccio di Channel One verso l’istruzione. Come ci dimostra Bourdieu (1996), la televisione è infatti permeata da una censura sia politica che economica. Per esempio gli spettatori della televisione sperimentano una “perdita di indipendenza legata alle condizioni imposte a coloro che parlano in televisione” (Bourdieu, 1996, p. 15); il che significa che esiste non solo una censura politica ma anche una censura economica, dato che “ciò che va in televisione è determinato dai proprietari dei canali, dalle compagnie che pagano per la pubblicità o dal governo che distribuisce i sussidi” (p. 16).

Possiamo affermare che sotto il sistema dell’economia di libero mercato, i mass media agiscono secondo quello che Herman and Chomsky (2002, p.1) chiamano il “modello propaganda”, la cui funzione “è quella di divertire, intrattenere, informare e inculcare negli individui i valori, le credenze e i codici di comportamento che li integreranno nelle strutture istituzionali di una società piu ampia”. Ed è esattamente questo modello propaganda che promuove quello che Bourdieu (1996, p. 23) chiama “la circolazione circolare delle informazioni”; cioè data la dinamica sull’indice di ascolto e la corsa all’audience, i mass media competono sempre sulle stesse questioni e “in qualche modo, le scelte fatte in televisione sono scelte fatte da nessun soggetto” (Bourdieu, 1996, p.25). Essendo schiavi e ostaggi della valutazione degli indici di ascolto i giornalisti e i mass media quindi agiscono sotto il ritmo e le cadenze di questi indici, che impongono un modello culturale specifico. Quello che stiamo sostenendo qui è che siamo di fronte a un cammino sovradeterminato fra gli stessi indici di ascolto e il modo in cui i media costruiscono quegli indici di ascolto. Perciò, come si può facilmente vedere, “la televisione costruisce la realtà” (Eldridge, 1993, p. 4).

Basandoci su questa analisi gli esempi proposti da Fairclough (1995) (le vittorie travolgenti di Forza Italia di Berlusconi e del New Labour di Blair, e la dolorosa realtà di due milioni di rifugiati Hutu in Africa), Grossberg, Wartella e Whitney (1998) (il modo in cui la canzone di Springsteen ‘Born in the USA’ fu appropriata per entrambi i gruppi, Conservativi e Radicali), Gitlin (1980) (il modo in cui i mass media hanno fatto e disfatto il movimento ‘Studenti per una Società Democratica’ durante gli anni ‘60), e Apple (2000) (la sua analisi sul modo in cui le alluvioni vengono ritratte nelle notizie), sono una chiara evidenza della maniera in cui i mass media agiscono dinamicamente e selettivamente nel (de)(ri)costruire la realtà.

I mass media insomma devono essere compresi come un sistema intricato costituito da potenti alleati delle forze dominanti, utilizzati per creare delle azioni di ‘buon senso’ all’interno della vita di ogni giorno e per conquistare lo stesso senso comune. I media sono profondamente impegnati nella produzione del tessuto quotidiano dato che organizzano il nostro tempo libero, modellano i nostri comportamenti sociali e forniscono il materiale attraverso il quale sono costruite le nostre identità, in termini di classe, razza, nazionalità, sessualità e distinzione fra ‘noi’ e ‘loro’ (Torfing, 1999, p. 210).

L’influenza culturale ed ideologica caratteristica dei mass media principali diventa poi anche più aggressiva all’interno delle politiche del libero mercato. Come Williams (1987, p. 39) ci ricorda, gli annunci a pagamento e le pubblicità sono adesso un elemento significativamente importante della maggior parte dei giornali e dei canali televisivi, a tal punto che, nella maggioranza dei casi, la probabilità di sopravvivenza finanziaria del servizio è direttamente determinata dalla sua performance in quell’area. Dato il potere degli annunci e la dittatura dell’audience, i media devono agire quindi non solo all’interno dei limiti permessi da quelle deboli costruzioni, ma anche nella comprensione che hanno a che fare con artefatti del mercato guidati dal profitto. Perciò, come sottolinea Fariclough (1995, p. 13), “la marketizzazione mina le basi dei mass media come elementi della sfera pubblica”.

Ed è esattamente questa la preoccupazione pertinente che si può identificare all’interno dell’analisi di Apple (2000) sugli effetti per esempio di Channel One News (canale televisivo americano che trasmette via satellite alle scuole medie e superiori negli Stati Uniti, ndt) dentro l’istruzione, sia al livello delle notizie che a livello degli annunci pubblicitari. Questo canale è un esempio ben fatto della connessione fra le politiche economiche della nuova destra e l’idea dell’istruzione pubblica (Apple 2000). Nascondendosi sotto la retorica della crisi fiscale degli Stati Uniti infatti, Whittle Communications (fondatrice del Channel One News ndt) ha ‘scoperto’ (o ‘fabbricato’) nell’istruzione una nuova tasca sociale che può diventare molto redditizia. Per far questo l’istruzione deve spostarsi da qualcosa con un significato sociale a qualcosa con un significato economico. Questo obiettivo strategico è stato raggiunto attraverso la riorganizzazione del senso comune fatta dai mass media che hanno sensazionalizzato lo spreco e l’inefficenza all’interno dell’istruzione pubblica. Come ha commentato il portavoce della  Whittle Communications “qualcuno deve pagare il conto per l’educazione [intendendo il conto della crisi fiscale], e le pubblicità sono il modo più diretto per pagare” (Apple, 2000, p. 96). Quindi Channel One deve essere visto all’interno di un contesto più ampio di quello che Apple (2000) ha definito come la restaurazione conservatrice. L’analisi di Apple (2000, p. 111) dimostra che la questione essenziale è “vedere la ricostruzione ideologica che si sta realizzando, per capire che nel processo di fare della scuola un prodotto per essere comprato e venduto, stiamo radicalmente alterando la definizione di ciò che significa partecipare nelle nostre istituzioni”. Questo vuol dire che “convincere il pubblico nel suo insieme a vedere l’educazione come un prodotto che deve essere valutato per la sua utilità economica e come un prodotto che deve essere comprato e venduto come ogni altra cosa nel ‘libero mercato’” (Apple, 2000, p. 111), richiede un lavoro profondo all’interno della struttura ideologica.

Ostacoli inaspettati chiamati democrazia ed educazione pubblica

All’interno di una serie di pratiche e concetti adulterati sui quali il centrismo neo radicale è basato, due di questi sono stati abbastanza significativi nel convalidare le attuali proposte del “blocco neo egemonico” – i concetti adulterati di Democrazia e di Stato. Il neoliberalismo infatti ha minato il significato e la pratica della Democrazia per promuovere ed espandere una società ineguale e ingiusta.

Saramago (2003) offre un’analisi critica delle forme disastrose che le democrazie occidentali moderne hanno assunto. L’autore, premio Nobel portoghese, basa in particolare il suo approccio su quattro assi.

Innanzitutto stabilisce le differenze fra le democrazie romane ed elleniche, argomentando che l’Impero romano aveva pervertito il modello democratico che caratterizzava l’antica Grecia. Secondo Saramago (2003, p. 8) “l’ostacolo maggiore e determinante per l’implementazione della democrazia a Roma arrivò esattamente dal potere dell’aristocrazia economica, che vide nel sistema democratico un nemico reale e diretto dei loro interessi”. La democrazia reale quindi rappresenta un ostacolo reale agli interessi economici di un minoranza [economicamente potente].

Il secondo punto sottolineato da Saramago è quello che lui chiama la ‘demagogia del voto’. Secondo Saramago (2003, p. 8) più che preoccuparci con il mito del voto, dobbiamo – senza alcun indugio – mettere in discussione l’accuratezza delle categorie democratiche, “i processi politici come ad esempio la delegazione, la rappresentazione e l’autorità democratica”. Le nostre democrazie erroneamente infatti costruiscono l’idea che “i voti del cittadino ricco o del cittadino di pelle bianca hanno nelle elezioni lo stesso valore dei voti del cittadino povero o del cittadino con una pelle molto più scura” (Saramago, 2003, p. 8). Ed è precisamente con questo elemento di analisi – in sostanza la demagogia dell’esistenza di una giustizia sociale in una democrazia basata sul mito del voto – che Saramago (2003) svela le fragilità di una democrazia che non ha niente da offrire a parte il voto in sé. Innegabilmente questo è il tallone d’Achille delle democrazie occidentali contemporanee, una debilità che apre le porte alle relazioni di concubinato fra lo Stato e il Mercato – una questione che rappresenta il terzo asse della tesi di Saramago (2003, pp. 8-9).

Dice Saramago: “una comunità mentalmente sana non penserebbe mai di eleggere individui sia corrotti che corruttori per rappresentarla in parlamento o al governo. Nessuno scrutinio, nessun esame al microscopio sui voti anonimi, sarebbe capace di rendere visibili ed espliciti per esempio, i segni di denuncia delle relazioni di concubinato fra lo Stato e i gruppi economici internazionali, le cui azioni criminali stanno guidando il pianeta in cui tutti viviamo verso una catastrofe. Le persone non eleggono il loro governo perchè il loro governo li guidi verso il mercato. Il mercato piuttosto usa tutte le sue capacità per condizionare il governo affinché porti le persone verso di lui”.

Messa in questi termini, la storia delle democrazie occidentali è una storia di contraffazione del modello realmente democratico, un modello che trasuda in maniera naturale di giustizia ed equità culturale ed economica. Nelle democrazie occidentali siamo davanti a istituzioni elette che nascondono dietro di sé il falso mito della supremazia del voto, istituzioni elette che, essenzialmente, sono ostaggi delle dinamiche disumane di mercato. Come Zizek (2005) argomenta brillantemente, siamo di fronte a una democrazia a cortocircuito. Sfidando le relazioni di concubinato fra lo Stato e il Mercato, Saramago edifica quindi la base del suo quarto asse: le dinamiche di potere esplicite ed implicite.

Come questo autore ci ricorda (Saramago, 2003, p. 9) “se la democrazia fosse di fatto quello che ingegnosamente continuiamo a ripetere, cioè un governo delle persone, dalle persone e per le persone, ogni dibattito sulla democrazia sarebbe senza senso; cioè dato che le persone hanno potere è loro dovere amministrare quel potere”. Ma Saramago (2003, p. 9) suggerisce che ha poco senso parlare di un governo social democratico, socialista, liberale o conservatore, dato che “il potere è da un’altra parte, irraggiungibile; cioè il vero potere, il potere economico, di cui possiamo solo percepire le ombre, dietro gli intrecci e le trame istituzionali, che invariabilmete scappa se uno cerca di avvicinarsi, e che inevitabilmente contrattacca se facciamo un qualunque tentativo di ridurre o disciplinare il suo predominio, subordinandolo alle regole di interesse generale”, sta da un’altra parte.

Bisogna affermare con franchezza che l’ordine politico occidentale diventa “sempre più una plutocrazia – un governo dei ricchi – e sempre meno una democrazia – un governo delle persone” (Saramago, 2003, p. 9). È davanti a una simile perversa e devastante pratica sociale che Saramago (2003, p. 9) ci sfida non necessariamente a rinnegare ma a riformare questo modello democratico occidentale. Secondo lui (2003, p. 9) dobbiamo “smettere di pensare alla democrazia come qualcosa di dato per scontato, come qualcosa di definitivo e definitivamente intoccabile”. In un mondo che discute tutto a parte la democrazia, dobbiamo innegabilmente discutere e dibattere la democrazia per reinventarla. Di fronte a una cartografia democratica nella quale la massa oceanica dei poveri del mondo è chiamata a votare ma non è mai chiamata a governare, in un mondo in cui il mercato letale prevale sulla logica e le compagnie private vincono sulle dinamiche di stato del bene comune, dobbiamo tutti dire, insieme a Saramago (2003, p.9) – “non preoccupiamoci nemmeno di assumere la tremenda responsabilità di uccidere la democrazia, dato che la ‘democrazia’ commette suicidio ogni singolo giorno”.

I quattro assi proposti da Saramago ci permettono di comprendere che un sistema realmente democratico che pompa giustizia politica, culturale, economica ed equità è un ostacolo potente alle proposte della nuova destra. Inoltre, in questo contesto, l’approccio di Saramago (2003) apre le porte ad un’accurata comprensione di qualcosa di veramente cruciale all’interno del fenomeno scolastico. Infatti di fronte alle relazioni promiscue di concubinato fra lo stato e il mercato, il vero ed effettivo significato democratico e le pratiche del bene comune difese da una miriade di sfere della società, si dissipano gradualmente. Una di queste sfere è l’istruzione pubblica, che è stata una dei primi obiettivi della strategia della nuova destra.

L’istruzione pubblica è stata sequestrata ed è sull’orlo di ricevere la sua benedizione finale in molte nazioni. Molte attività hanno contribuito al decesso dell’istruzione pubblica, incluso – a mio parere dentro il nucleo centrale della strategia della nuova destra – l’intenzionale e ben pensato disinvestimento statale nell’istruzione pubblica, che ha destabilizzato e indebolito le sue immunità come istituzione secolare per la protezione e lo sviluppo del bene pubblico. Un così pericoloso disinvestimento ha rappresentato il segno necessario per le forze di mercato per sequestrare le scuole pubbliche e convertire l’istruzione in uno dei porcellini d’india del mercato. Come Sommerse (2000) argomenta stupendamente, è lo stato che chiaramente spiana la strada per il mercato.

Il disinvestimento però non dovrebbe essere visto come una strategia cieca ma una strategia profonda e saggiamente selettiva. Nonostante il fatto che siamo di fronte ad una politica di disinvestimento sistematica che attraversa l’istruzione pubblica la verità è che una simile politica agisce cautamente in particolari aree privilegiate. La politica di disinvestimento nel pubblico e nel bene comune è infatti indubbiamente una politica chirurgica. Un’ampia serie di analisi (Apple, 2003; Ball, 2001; Whitty & Power, 2002a; Torres, Santomé, 2001; Hursh, 2006; Paraskeva, Ross & Hursh, 2006; Mouffe, 2006; Macedo & Bartolomé, 2001) sull’allarmante e pericoloso disinvestimento nell’istruzione pubblica serve come verifica di credibilità ai nostri argomenti. Quelli che conoscono il vero ‘odore’ della scuola pubblica conoscono bene i risultati del disinvestimento statale. Le scuole stanno andando in pezzi: librerie povere, programmi educativi per gli insegnanti a dir poco miserabili, e una ossessione maniacale con i test nazionali [per controllare una delle più potenti armi usate per mantenere l’istruzione pubblica in una situazione d’ostaggio: la responsabilità all’interno dell’istruzione passa per il lavoro dell’insegnante]. Un simile irresponsabile disinvestimento statale funziona come una luce verde per le forze di mercato, per dirottare l’istruzione pubblica da un dominio sociale pubblico a una sfera economica privata. Facendo così entrambi lo stato e il mercato non solo hanno pervertito l’idea delle scuole pubbliche come uno dei promotori del bene pubblico, ma le scuole pubbliche sono diventate indifese di fronte agli assetati, inumani e aggressivi meccanismi di mercato. Le scuole sono viste come un nuovo ed eccezionale mercato per i profitti. Sotto l’inno neoliberale i bambini sono stati trasformati in una pallida merce. Durante l’ultimo decennio del XX secolo le relazioni promiscue fra le scuole pubbliche – affamate per la sopravvivenza – e i fondi privati sono incrementate sproporzionalmente. Prendendo il Portogallo come esempio nell’Unione Europea, si vede come la scuola pubblica è un chiaro ostacolo nella strategia di mercato. Come il programma del precedente governo di destra portoghese sostiene “il quasi monopolio dell’istruzione pubblica non è desiderabile (...) dato che contraddice il principio costituzionale della libertà di insegnamento e di apprendimento, per scegliere un bene sociale” (XV Governo Constitucional de Portugal, 2001). Contando sull’analisi di Weiner (2005, p. 23), fra gli “Apparati Ideologici di Stato” di Althusser e gli “Apparati Ideologici Corporativi” di Bauman, si potrebbe dire che, nonostante le differenze, entrambi gli apparati statali e ideologici mirano a “ricreare le condizioni di riproduzione attraverso strategie pedagogiche (...) per rendere la realtà una questione [anche] di senso comune”.

Combattendo la pedagogia delle grandi bugie

Terminerò questo saggio con una nota personale.

Uno dei miei colleghi universitari recentemente mi ha chiesto: ‘João, immagina se ti potessi dare il potere di costruire un programma per le scuole elementari qui in Portogallo. Cosa faresti? Che tipi di obiettivi sugggeriresti?’ Senza batter ciglio gli ho risposto: ‘Non posso rispondere a questa domanda’. ‘Perché no? Dopo tutto tu sei una persona che prepara programmi di studio, dovresti sapere come costruire un programma, come è possibile che tu no lo sappia fare?...’; ‘Io non ho detto che non lo so fare. Quello che ho detto è che non posso rispondere a quella domanda nel modo in cui tu vuoi che io lo faccia’; ‘Perchè no?’; ‘Come può un programmatore curriculare non sapere come creare un programma?’; ‘Ancora, quella domanda è inutile’. E la questione ha continuato ad andare avanti finché sono stato capace di spiegare il mio argomento.

Ci sono troppe questioni nella domanda del mio collega che ho cercato di sfidare durante l’ultimo decennio. Per sottolinearne solo alcune, il potere non è proprio qualcosa che tu dai a qualcuno; e la vera domanda sui programmi, specialmente sotto le attuali politiche della nuova destra, è se le scuole possono o meno costruire un nuovo ordine sociale – qualcosa che George Counts sollevò vari decenni fa. Molti di noi in varie nazioni differenti – Stati Uniti, Brasile, Portogallo, Spagna, Regno Unito, Canada – stiamo cercando di affrontare problemi cruciali come questi. Nel trattare con questioni politiche di questo tipo si potrà rivelare quale conoscenza trasmettono le scuole, chi veramente beneficia di quella conoscenza che diviene ‘ufficiale’, quali voci non sono ascoltate, cosa diventa ‘ufficiale’ e perchè.

Queste sono le vere domande sui programmi, i veri temi ricorrenti per una ‘conversazione curriculare’ durante il XXI secolo, una conversazione che deve sfidare quello che Pinar (2004) in modo appropriato denuncia come ‘l’incubo del presente’. Affrontando una simile questione si potrà notare infatti che sebbene siamo in un’era che “può essere caratterizzata da una overdose di riforme educative” (Macedo, 2006, p. 137), la vera questione curriculare, come sostiene Huebner (1967), è precisamente il ‘non-cambio’, sapendo che così tanto è stato fatto nel secolo scorso per promuovere i cambiamenti e, basicamente, ‘niente cambia’. Innegabilmente, afferma Macedo, (2006, p. 137) l’educazione all’insegnamento ha il ruolo critico di promuovere un cammino differente, non solo sfidando una simile overdose riformista che è ancorata soprattutto ad un “discorso conservatore, che celebra un linguaggio di amministrazione, competizione, esaminazione, scelta e libera impresa”, ma specialmente combattendo la sedimentazione di quello che Macedo chiama “la pedagogia delle grandi bugie”, una pratica pedagogica che aiuta a costruire un pericoloso “senso comune di senso comune”, che contribuisce alla moltiplicazione dell’ineguaglianza sociale, della povertà, della fame e della miseria umana.

Prendendo ad esempio la realtà portoghese, la mia percezione è che complessivamente l’educazione all’insegnamento e i corsi universitari hanno bisogno di assumere un ruolo completamente differente. Come sostiene Freire (2004, p. 13), non ci dovremmo “sorprendere che le facoltà di Scienze della Formazione così come altri dipartimenti delle università, con poche eccezioni, dimostrano un’avversione verso la teoria critica e lo sviluppo di un pensiero critico”. Cioè siamo di fronte a una forma di “selezione accademica di insiemi di conoscenze confinante con la censura o gli educatori critici” (Macedo, 2004, p. xiii). Infatti “molte facoltà, sotto i concetti di scienze, specialismo e specializzazione, hanno in realtà la rottura con le filosofie e le relazioni culturali, che sono indispensabili per lo sviluppo del pensiero critico” (Freire & Macedo, 2001, p.3).

È precisamente di questo tipo di sfida che abbiamo bisogno e che troviamo nell’approccio di Hursh e Martina (2003): un’ “analisi politica critica nella quale [loro] mettono la riforma educativa all’interno del contesto della struttura sociale ed esaminano le sue implicazioni per l’ineguaglianza sociale”. Hursh e Martina (2003) situano la loro analisi all’interno della crescita della competizione economica globale e delle politiche neoliberali nelle quali i governi cercano di conquistare legittimità istituendo riforme per migliorare l’educazione mentre, allo stesso tempo, riducono i fondi all’educazione, come parte del piano generale di riduzione delle spese pubbliche sui servizi sociali e, se possibile, di privatizzazione di questi.

All’interno della formazione all’insegnamento e degli studi universitari dobbiamo sfidare quindi la visione di una educazione superiore come ostaggio di fronte al discorso dell’amministrazione; abbiamo bisogno di sfidare questo divorzio con la pratica, rompere l’anti-intellettualismo che pervade sia la formazione all’insegnamento che gli studi universitari, combattere per avere insegnanti come intellettuali, come ‘lavoratori culturali’, come attivisti, abbiamo bisogno di combattere per una formazione all’insegnamento democratica, e non per una formazione ad una dimensione, combattere per una formazione all’insegnamento e dei corsi universitari che promuovano la giustizia economica e culturale, che promuovano società con uno sviluppo sostenibile.

Dobbiamo mantenere la lotta – come suggerisce Freire – per una pedagogia umanizzante. Una pedagogia umanizzante è un cammino attraverso il quale gli uomini e le donne possono prendere coscienza della loro presenza nel mondo – il modo in cui agiscono e pensano quando sviluppano tutte le loro capacità, prendendo in considerazione i loro bisogni, ma anche i bisogni e le aspirazioni degli altri (Freire & Beto, 1998, p. 32). Questo è il modo di preparare un insegnante critico ed emancipato. Questo è un modo (uno dei più potenti in realtà) per salvare la democrazia, reinventando le scuole come degli spazi democratici.

Comunque non voglio romanticizzare il nostro compito. Non sarà un compito facile. L’attacco ai teorici critici è una verità lapalissiana oggigiorno. Ma cercando di rispondere alla domanda di Counts (nonostante quella sua specie di ingenuità) – osano le scuole costruire un nuovo ordine sociale? – noi dobbiamo porre attenzione ad alcune delle più cruciali riforme neoliberali. È in realtà attraverso l’istruzione che la destra è stata capace di consolidarsi e di andare a segno nella lotta sul senso comune. Dobbiamo ammettere che i neoliberali ci hanno già dimostrato che le scuole hanno effettivamente la capacità di cambiare la società, anche se, piuttosto sfortunatamente, non nel modo che dovrebbe essere – cioè una scuola pubblica che agisce dinamicamente per costruire una società veramente giusta.

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