Il danneggiamento della pompa di drenaggio dell’acqua nel Blocco “O” di Rafah e l’azione diretta di interposizione nonviolenta per ripararla.



Questo è il testo del documento distribuito dal Comune di Rafah che spiega il motivo della nostra azione:

Il danneggiamento della pompa di drenaggio
nel Blocco “O”/Rafah

L'esercito israeliano ha distrutto la pompa di drenaggio dell'acqua nel Blocco "0", la quale ha causato molti problemi nel sistema di drenaggio dall'inizio di maggio.
La municipalità di Rafah che coopera con gli internazionali ed organizzazioni speciali, ha cercato di coordinarsi per due volte con l'esercito israeliano, in modo da permettere ai suoi ingegneri e lavoratori di riparare la pompa e rimuovere i detriti.
A dispetto del coordinamento tra il Dipartimento per gli Affari dei Rifugiati, il Comitato Pubblico del Campo di Rafah, il Comitato del Blocco”O” e l'esercito israeliano, i soldati hanno aperto il fuoco sui lavoratori per impedirgli di continuare il loro lavoro e forzarli a lasciare il luogo.
In questi giorni, l'acqua di drenaggio ha cominciato a fuoriuscire dentro le case e le zanzare si sono diffuse da tutte le parti. Ciò comporterà un disastro ambientale e minaccerà la salute dei profughi, rovinerà il suolo e porterà malattie epidemiche.
La pompa di drenaggio dell'acqua è installata in un'area densamente popolata dove la povertà è ad alti livelli. Non c’è sicurezza nel campo profughi e le persone non possono lasciare le loro case, non possono nutrire i loro figli a causa dell'assedio economico imposto da Israele.
I soldati israeliani vogliono far emigrare la popolazione dalle loro case e questo rivela la brutta faccia degli israeliani.
Infine, il comitato popolare del Blocco "0" chiede a tutti gli internazionali e organizzazioni dei diritti umani di essere sostenuto e di mettere pressione ad Israele in modo da permettere ai lavoratori della municipalità di svolgere il loro lavoro e di stare con loro fino al completamento della loro missione.


25 giugno/Maurizio

Quando mi sveglio sono già sul taxi con i ragazzi per andare al Centro per i Diritti Umani (CDU) di Khan Younis ad incontrare un gruppo di francesi del Movimento Civile per la Protezione del Popolo Palestinese. Purtroppo però il pullman, atteso per le 8.00, era ancora fermo al semaforo di Abu Holi, qualcuno aveva scattato fotografie e i soldati avevano chiuso il semaforo e sequestrato le macchine fotografiche. Dopo di che, tutti francesi erano scesi dal bus ed avevano aperto una trattativa per riavere gli apparecchi. Quando, dopo un paio d ore, verso le 10.00, la compagnia di francesi ha ricuperato il maltolto ed è finalmente riuscita a passare, le tre ragazze dei Berretti Bianchi, sulla via del rientro in Italia, erano appena arrivate al semaforo già diventato rosso.
ore 10.30: i francesi arrivano al CDU
ore 11.00: incontro con il sindaco di Rafah
ore 12.00: inizia l’azione di protezione dei diritti umani del popolo palestinese.
Sulla linea di confine con l’Egitto gli israeliani si sono ritagliati due fascie di sicurezza. La prima di una dozzina di metri di larghezza, separa i due confini di stato. L’altra di circa cinquanta metri di larghezza è la fascia di sicurezza con il territorio palestinese, su questa fascia sono state demolite tutte le case che vi sorgevano.
C’è però, nel bel mezzo delle macerie, un casotto con una pompa per le acque chiuse che serve a far defluire le acque fognarie e i liquami che vengono dall’abitato palestinese. Purtroppo, durante le demolizioni, il pozzo nero è rimasto soffocato dalle macerie e ogni volta che i palestinesi si azzardavano ad andare a riparare la pompa i soldati gli sparavano addosso.
Così da tempo, il CDU aveva concordato questa azione con il movimento spontaneo francese per la protezione del popolo palestinese, i partecipanti all’azione si sarebbero interposti tra i soldati e i lavoratori per permettere la riparazione della pompa.
Ora questa faccenda non è affatto di secondaria importanza, la pompa è fuori uso da oltre quattro mesi e questo significa che, nelle case che si affacciano sulla fascia di sicurezza, i liquami rigurgitavano fuori dalle turche domestiche e, con il caldo che fa da queste parti, le mosche ed altre delicatezze, il rischio di epidemie aumentava di giorno in giorno.
Alle ore 12.00 entriamo nella desolata fascia di sicurezza, oltre alle due dozzine di europei con passaporto francese e belga, c’eravamo anche noi italiani; due dell’Operazione Colomba, Fabio e Luca e io dei Berretti Bianchi. Alla compagnia si erano aggiunti anche poco più di una dozzina di palestinesi, tra operai, giornalisti e funzionari del CDU.
Camminiamo compatti verso la pompa, alle nostre spalle la casamatta delle guardie di frontiera egiziane, davanti a noi la pompa e, oltre la pompa, in lontananza, la torretta con la bandiera israeliana. Superata la pompa, gli internazionali si schierano in una fila di interposizione tra la torretta israeliana e la pompa, subito la ruspa dei palestinesi con sopra l’autista e un francese inizia a spianare l’area e gli operai si mettono al lavoro.
Gli adulti dentro le case che guardano la fascia di macerie faticano a trattenere i bambini eccitati da questa stranissima novità. Qualcuno si sporge troppo dai muri pericolanti e dai mucchi di macerie che separano le case dalla fascia di sicurezza, così i soldati iniziano a sparare. Nessuno di noi si muove, mostriamo i passaporti e rimaniamo con il braccio alzato brandendo il libretto bordeaux come unica garanzia di immunità. Tra i francesi, una palestinese naturalizzata ha il fazzoletto in testa e l’abito classico delle donne di qui, c’è anche una marocchina che si è messa la camicetta tradizionale del suo paese.
Passa poco tempo e qualche altra schioppettata, quando arriva, sferragliando in una nuvola di sabbia, un mezzo blindato che si ferma di fronte a noi e alla pompa: gli operai continuano imperterriti il loro lavoro, due francesi si spostano a pochi metri dal blindato e rimangono col passaporto innalzato come una bandiera, immobili come statue di sale, mentre gli spari si fanno più vicini. Alcuni perdono l’iniziale sicurezza e si accucciano. Un elmetto verde spunta da dietro l’ultimo muro, è una guardia di frontiera egiziana che si ferma per tutto il tempo ad osservare la scena. Poi una mano esce da una feritoia della torretta blindata, ma dal movimento non si riesce a capire se intende: “vieni qui oppure vai via”. Uno degli operai scambia qualche parola con l’ufficiale corazzato, poi continua imperterrito a spalare merda. Poco dopo un’altro operaio si arrampica su di un traliccio della luce per la riparazione, lì in mezzo tra noi e la pompa, tutti lo guardano e trattengono il fiato.
Intanto uno del CDU mi ha detto che il sindaco è al telefono con gli israeliani e si sta accordando perché gli operai possano finire il lavoro in pace. Io cerco a stento di controllare la paura e quando vedo Fabio e Luca che sono ancora con gli altri sulla linea del primo schieramento, ancora immobili sotto il sole che nel frattempo ha raggiunto il suo zenit - non si muove un filo d’aria, anche l’ombra sembra scomparsa - mi faccio coraggio e m’incammino verso di loro guardando bene dove metto i piedi in quel groviglio di pavimenti, stele da lampadario inghiottite dalle macerie e tondini per il cemento armato che spuntano da ogni dove.
Raggiunti i ragazzi, per abbassare la tensione e recuperare un po’ di coraggio, ci mettiamo a cantare “Bella ciao” tra gli applausi dei presenti. Poco più tardi la tensione si allenta davvero e arrivano vassoi con te bollente e bottiglie di cola ghiacciata. Dopo un oretta arriva anche il pranzo, riso con carne, e così l’interposizione si trasforma in un pic nic e poi in un bivacco fino alle ore 17.00, quando, finite le riparazioni, torniamo tutti da dove siamo venuti.
Prima di rientrare a Khan Younis, il bus si ferma da una delle famiglie dei sei palestinesi uccisi la mattina precedente verso le 8. Questi viaggiavano su di un taxi alla periferia di Rafah, probabilmente per andare al lavoro, tra di loro un solo ricercato. Due elicotteri Apache rombano fuori dalla linea dell’orizzonte e sparano un missile aria-terra sul taxi, i sei muoiono sul colpo. Nelle auto che precedono e seguono il taxi e tra i passanti, i feriti sono più di una dozzina, alcuni molto gravi moriranno nelle ore seguenti all’ospedale di Rafah.
Sull’asfalto rimane la macchia bruciata dell’auto, una scarpa e un grosso buco che, attraverso l asfalto, ha scavato anche la sabbia sottostante. Dopo la visita di condoglianze, lasciamo i francesi e ritorniamo in taxi verso Khan Younis. Lì mi separo da Fabio e Luca, che se ne vanno a casa, mentre io raggiungo il presidio dei lavoratori disoccupati che mi hanno invitato a partecipare ai funerali delle sei vittime di Rafah.
Sono due i bus che partono per Rafah, io sono sul taxi del coordinatore del presidio di Khan Younis. Giunti a Rafah, i lavoratori si uniscono ai loro compagni del presidio locale e tutti insieme in corteo si fa il giro delle case in lutto, dove ci si siede su lunghe file di sedie mentre qualcuno della famiglia passa per offrire un goccetto di caffè beduino e qualche dattero. Dopo una mezza dozzina di caffè e una dozzina di datteri si ritorna a Khan Younis.
Finalmente a casa! Sono passate dodici ore da quando mi sono svegliato sul taxi stamane, ma pare che non sia ancora finita. Le tre ragazze dei Berretti, Barbara, Carla e Maria Ida, sono ancora ferme al semaforo di Abu Holi che non è più stato riaperto da quando sono passati i francesi. E’ già buio da un pezzo quando io e Fabio arriviamo in taxi a recuperare le ragazze. Giunti al famigerato semaforo, osserviamo una marea di auto e camion che stazionano lì da tutto il giorno, qualcuno si sta preparando per la notte, qualcun altro prega su di un tappeto, centinaia di persone confinate dentro i veicoli aggrovigliati tra di loro in un’inestricabile ressa di metalli e corpi umani sudaticci, bambini che piangono. L’unica luce è quella della luna piena che si affaccia ineffabile sulle miserie umane.
Ricuperate le ragazze, ritorniamo a casa sul nostro taxi.
Domani è un altro giorno.

27 giugno/Fabio

A due giorni dalla prima azione di protezione alla squadra di lavoratori palestinesi da parte della delegazione francese e di noi ‘infiltrati’ oggi, non essendo stata ancora completata la riparazione della pompa, ci accingiamo a parteciparvi nuovamente. La delegazione di francesi e’ ripartita alla volta di Gaza questa mattina e l’azione questa volta e’ organizzata dall’ISM che tra il suo coordinatore locale ed i volontari sono in tutto in tre e per questo hanno chiesto la presenza di noi quattro. I ragazzi dell’ISM, un americano ed un indiano, sono qui da pochi giorni e si trovano già’ catapultati in questa azione. Dal Centro per i Diritti Umani, dove salutiamo la delegazione francese che sta per ripartire, ci muoviamo alla volta di Rafah.
Prima di recarci sul luogo dell’azione, in quella terra di nessuno creata dai bulldozer israeliani li’ dove una volta c’erano delle abitazioni palestinesi, incontriamo il capo della squadra degli operai alla municipalità’ di Rafah.
Evitiamo volentieri un altro incontro con il sindaco, quindi a bordo di due pick-up ci dirigiamo nella ‘spianata’ a qualche decina di metri dal confine con l’Egitto e a qualche centinaia di metri dall’avamposto militare israeliano. Prima di uscire alla scoperta sfoderiamo il nostro passaporto e ci muoviamo verso il pozzo nero otturato dai detriti e la pompa non ancora riparata in fila, con le braccia alzate e il librettino bordeaux col simbolo della Repubblica Italiana.
Dopo aver percorso un centinaio di metri tra i cumuli di detriti, ci seguono i lavoratori palestinesi muniti di attrezzi da lavoro ed un camion con rimorchio. Li scortiamo formando una “linea di interposizione” tra la pompa e gli israeliani che non vediamo ma che sicuramente ci scrutano. Infatti, dopo alcuni minuti dall’inizio dei lavori di riparazione nonché’ di smaltimento delle pozze di liquami, dall’avamposto israeliano partono alcuni colpi che colpiscono il camion, fermo a pochissimi metri dalla nostra linea, colpendo il radiatore, il lunotto anteriore e il gancio meccanico, mettendolo così’ fuori uso. Subito ci accucciamo, poi ci tiriamo su guardando ancora verso la bandiera con la stella di Davide che sventola dall’alto dell’avamposto.
Successivamente in due ci stacchiamo dalla fila per scortare l’arrivo di altri operai e di altra attrezzatura. Poi con Luca torniamo indietro e saltiamo su un bulldozer giunto per rimuovere il camion con rimorchio ormai fuori uso, una mano ai maniglioni, un’altra col passaporto bene in vista. Gli spari senza dubbio ci hanno scosso ma continuiamo la nostra azione, aiutati ancora una volta da “Bella Ciao” che allieta il lavoro, e’ il caso di dire, di merda di questi lavoratori, in principio tesi, in seguito ai colpi sparati (non che non ne siano abituati).
Ci mobilitiamo per avvertire in Italia dell’accaduto, oltre che i nostri amici giornalisti che sono a Gerusalemme, il centro israeliano per i diritti umani Bt’Selem e il Consolato Italiano a Gerusalemme; ognuno a suo modo si muove. Il lavoro certosino, cominciato alle 10 del mattino, si protrae per diverse ore tra la riparazione delle tubature, la bonifica delle pozze di liquami con un autospurgo e la rimozione di detriti per mezzo di un bulldozer.
Alle 14 circa, il lavoro degli operai, che più’ volte nelle passate settimane era stato interdetto dal tiro dei soldati israeliani e’ ormai quasi del tutto terminato, con la tensione placatasi in seguito ad un colloquio di uno dei capi della squadra con un ufficiale israeliano.
In questo modo, in tre giorni di lavoro, grazie all’azione internazionale di interposizione, e’ stato possibile riparare la pompa ed evitare il rischio di epidemie in seguito allo stagnare dei liquami a poche decine di metri dalle case abitate, non ancora demolite, per le solite ragioni di sicurezza.

27 giugno/Maurizio

Il lavoro alla pompa non è ancora terminato, ieri i francesi si sono esposti di nuovo per alcune ore, ma oggi ripartono per Gaza, per cui tocca a noi quattro italiani, tre Colombe e il solito Berretto. Pare che arrivino anche altri due stranieri: un giornalista indiano e un ricercatore indipendente di Chicago (USA), col suo bel passaporto verde. Qualche dubbio sul numero esiguo, siamo solo sei, ma comunque arriviamo a Rafah e, con i passaporti innalzati verso il cielo, scortiamo gli operai, precedendoli, fino alla pompa. Arriva anche un camion del comune di Rafah, che parcheggia spavaldo in mezzo alla spianata, poco distante dalla pompa.
Passano pochi minuti e alcuni colpi ci piombano nel panico: i primi tre sono diretti al radiatore del camion, che è privo di passaporto straniero e quindi indifeso. Uno al parabrezza, altri al braccio meccanico sul cassone dell’automezzo. Nonostante tutto ci ricompattiamo e, per cacciare il panico, intoniamo “Bella ciao” impugnando il passaporto. Poi Fabrizio inizia a fare telefonate a Bt’Selem, alla sede delle Colombe a Rimini, a qualche giornalista e al Consolato Italiano a Gerusalemme. Più tardi, dopo che a gruppi di due ci spostiamo qua e là per fare entrare una ruspa da una parte e alcuni operai con un cavo per il traino dall’altra, il camion in panne viene rimosso.
Finalmente i telefoni della torretta israeliana di confine, da dove ci sparano addosso, iniziano a suonare e la tensione si allenta, arrivano le bibite e il tè bollente, il sole è altissimo e infuocato proprio sopra di noi, il cranio pelato dell’americano è arso dalla calura. Alcuni ramarri si rincorrono sulle macerie, non ci sentiamo ancora sicuri, ma va già meglio. Questa volta l’elmetto verde della guardia di frontiera egiziana che due giorni fa ci aveva osservati per tutto il tempo ci saluta in segno di solidarietà.
Poi arriva un escavatore e un camion con la pompa per gli spurghi che finiscono l’opera di pulitura del pozzetto. Nel frattempo l ufficio distrettuale di coordinamento palestino-israeliano ha raggiunto un accordo per finire i lavori e i palestinesi ci dicono che possiamo andare via perché si sentono tranquilli.
Così, dopo tre ore di tensione, ci allontaniamo dalla fascia di sicurezza con la consapevolezza del pericolo scampato ma anche con la certezza di aver fornito un valido sostegno alle famiglie che vivono sulla linea di confine, le quali, dopo quattro mesi, potranno finalmente tirare lo sciacquone quando vanno in bagno. Detta così pare una barzelletta, ma la realtà spesso supera la fantasia. Il nostro amico dell’UNRWA ci ha invitati a pranzo e lo raggiungiamo con grande sollievo e buon umore, mentre l’americano e l’indiano, che ancora non hanno ben realizzato che cosa gli sia successo questa mattina, se ne vanno verso il semaforo di Abu Holi per proseguire verso Gaza.

27 giugno/Luca

Siamo di nuovo a Rafah. Questa volta siamo tutti, compreso un gruppo di tre persone dell'International Solidarity Movement (ISM). Anche ieri i francesi si sono "interposti", permettendo agli operai di lavorare sulla pompa. Oggi, ci hanno avvertito che gli operai potrebbero finire il loro lavoro in poche ore, e quindi noi ci siamo mossi. Arrivati sul luogo, tiriamo fuori i nostri passaporti e ci incamminiamo verso la pompa. Si inizia già a respirare la tensione che ci accompagnerà per tutta la giornata.
Gli operai ci seguono e tra questi, alcuni arrivano con un camion che viene posteggiato (un po’ troppo spavaldamente) vicino alla pompa. Arrivano i primi spari, dalla torretta del confine israeliano. Questa volta sono vicinissimi. Vedo alzarsi la polvere a circa 6 metri da noi. Il primo istinto è quello di andarsene, ma poi pensiamo che è ciò che loro vogliono. Hanno sparato per intimorirci e soprattutto per rendere inutilizzabile il camion parcheggiato vicino alla pompa, colpendo il radiatore. Gli operai, nel frattempo, si sono nascosti e pare che non ne vogliano sapere di lavorare (almeno un gruppetto).
La prima cosa da fare è portare via il camion che non riparte. Con i nostri passaporti nella mano, scortiamo quindi la ruspa che è venuta per trainare via il camion dal luogo della sparatoria. Saliamo quindi nella ruspa sempre con i nostri passaporti in evidenza, a mo’ di protezione, mentre Fabrizio si siede sul camion.
Tra una manovra e l'altra, quindi, questa volta gli operai riescono a finire il loro lavoro in 4 ore circa. Abbiamo contattato (per denunciare l'accaduto e per sentirci più sicuri), più persone possibili: un giornalista della Rai, uno del Manifesto, Bt’Selem (associazione israeliana che si occupa di diritti umani) e il console italiano a Gerusalemme. Questa volta, il soldato egiziano che due giorni fa aveva sporto la testa per osservarci ci ha anche salutato, quasi volesse ringraziarci.