Del dolore del ritorno.
di Najwa al Ameri

Nella piazza dell’Oronte

Il labirinto di Damasco

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3 gennaio 2015

Del dolore del ritorno.
di Najwa al Ameri

L’ho preso nelle mie mani e sono andata. Il mio cuore. Non mi hanno mai convinto i suoi battiti fuori dal Paese. A Damasco… solo lì c’è la patria. O cosi pensavo.

Da Derbasiye, al confine siro-libanese, sono andata verso la mia città madre: Ammuriya. La città che mi ha dato il mio colore, il mio dialetto, la smania del mio petto di respirare la sua aria secca, quella che viene dalla steppa.

Ammuriya mi ha dato la mia infedeltà, la mia rigidezza e la mia contraddizione. Mi ha insegnato anche la gioia di innamorarmi di un’altra, Damasco.

Lungo la strada i miei occhi cercavano la guerra, le armi, gli aerei. Guardavo in tutte le direzioni. No non si vedeva la guerra lungo quella strada.

Non avevo mai pensato che ci fosse una strada che porta ad Ammuriya senza passare per Homs. Non siamo passati nè per Homs nè per Deir Baalbe. Siamo passati attraverso i piccoli villaggi attorno.

La maggior parte di questi luoghi sono svuotati della sua gente. Sembra che tutti i suoi uomini li abbiano abbandonati per rimanere affissi nei poster appesi ai muri o su piatteforme di cemento dove campeggia uno scarpone militare. Morti.

Ogni volta che l’autobus si fermava ai posti di blocco, l’autista dava ai militari quello che loro gli avevano chiesto di portare dal Libano. Mi ha sorpreso questo autista che s’è ricordato i desideri di più di venti soldati. Nelle cinque ore di viaggio ha distribuito tabacco, sigarette, soldi. Lanciava i suoi doni dal suo finestrino. Senza dire una parola.

Ho osservato i dettagli di ogni soldato. All’inizio ho visto diverse mostrine di battaglioni militari. Mi hanno colpito le insegne della Quarta Divisione e quelle di Hezbollah. L’uomo seduto vicino a me mi ha però spiegato che quelle mostrine non sono vere. La maggior parte dei miliziani le usa a proprio piacimento. Da dietro i miei scuri occhiali da sole, scrutavo ogni dettaglio dei militari. Poveri. Trasandati. Dimenticati.

Ad Ammuriya si viene accolti dal posto di blocco della famiglia Suleimi. Sono delle vecchie conoscenze. Mio zio mi aveva raccontato una storia su di loro. Un tizio di nome Hikmat, di Ammuriya, arrivò a essere ministro. Erano gli anni ’90. Un giorno andò a porgere le condoglianze al generale Ali Suleimi. E portò con sé uno dei suoi cugini.

Mentre andavano alla casa dei Suleimi, il cugino disse a Hikmat: “Ricordi, quando il padre di Ali lavorava nei nostri terreni come un povero contadino? Ora per loro è il tempo delle vacche grasse… come cambia la vita!”. Hikmat, preoccupato: “Ti prego, cugino, non dirlo a casa loro!”. E il cugino: “Per chi mi hai preso, per uno stupido?”.

La gente di  Ammuriya ora è meno spaventata dai Suleimi. Ha accettato questo mostro. Si è abituata. I Suleimi e gli altri shabbiha sono diventati l’unica forza contro un mostro più grande: lo Stato islamico, meglio noto come Daesh.

Daesh osserva Ammuriya da vicino. E la gente si fissa su quel che dicono i telegiornali: “Ammuriya sarà la seconda Kobane”.

Gli occhi di mio padre. Da sempre li guardavo e dicevo: “Da voi assorbo il coraggio. Da voi attingo la determinazione”. Questi occhi li ho trovati stanchi come non li avevo mai visti.

Nonostante tutto mio padre era più deciso del solito. E mi ha detto: “Nessuno potrà farmi andar via da questa terra!”. La terra per mio padre è il suo orto. Quello che ha sempre coltivato. Nella stagione del narciso, io aspettavo sempre il mazzo più grande di narcisi.

I miei amici di Ammuriya si sono divisi tra quelli pro-rivoluzione, quelli delusi dalla situazione attuale, e altri che erano contro la rivoluzione sin dall’inizio perché sapevano che “saremmo arrivati a questo punto”.

Gli amici si sono riuniti solo ora per venirmi a salutare. Quelli pro-rivoluzione hanno cominciato a scherzare con quegli altri: “Alzatevi! Vogliamo perquisirvi tutti! Forse siete terroristi!”. Mentre lo dicevano, guardavano quelli contro la rivoluzione come per dire: “Avete accettato che gli shabbiha perquisissero noi, noi figli della vostra stessa città!”.

Ammuriya è triste. E dentro la sua conchiglia vede solo la morte. Preparo la vaglia. Domani andrò a Hama. Hama… la città che fin da piccoli ci hanno insegnato a dimenticare. Ora torno a Hama per vedere quello che è accaduto. Ma anche quello accadde. Nel 1982. E dove di solito ci andavamo solo per vedere le sue norie.

Nella piazza dell’Oronte

Sono partita al mattino presto per Hama. La mia famiglia mi aveva avvisato di non ritornare tardi ad Ammuriya.

Ritornare col buio ha un significato diverso da prima. Ritardare adesso, in questo posto del mondo, significa tornare dopo le tre del pomeriggio, perché la gente ormai non esce più dalla sua città la sera.

Le colline che ho rivisto lungo la strada da Ammuriya a Hama sono state sconvolte da trincee e posti di blocco militari.

La cosa strana è che Ammuriya e Hama si trovano ancora sotto il controllo del regime, come la strada che le collega, eppure a un certo punto improvvisamente l’autobus cambiava strada. Lasciava la strada principale per percorrere stradine bianche e infine tornare dopo pochissimi chilometri, poco più avanti, sulla stessa strada principale.

Io, nonostante la paura che mi aveva accompagnato per tutto il tempo, soprattutto al momento di mostrare la carta di identità ai posti di blocco, ero molto entusiasta e contenta. Stavo andando a incontrare un’amica carissima.

Non conoscevo Sara di persona. L’ho conosciuta solo virtualmente nel 2011 allo scoppio della rivoluzione. Avevo parlato con lei della passata storia di Hama, una storia che conoscevo poco. Per noi Hama era solo la città delle norie, non ci è mai stato permesso di sapere cosa accadde in questa terra nel 1982.

Sara mi aveva raccontato dei massacri del 1982. Di come tutti gli uomini della sua famiglia furono uccisi davanti gli occhi di sua zia.

Mi aveva descritto la casa, gli zii, i vicini e le altre famiglie. E io dalla mia scrivania immaginavo tutto quello che diceva. Lo disegnavo nella mia mente in tutti i dettagli.

Per questo ero fiera perché finalmente l’avrei vista di persona. Una persona che stimo e che ho conosciuto seguendo la manifestazione più bella che c’è stata a Hama nel 2011. Allora c’era un’unica bandiera. Allora la gente gridava: “Ma quanto è bella la libertà!”. E allora non c’era l’Isis.

Mi stava aspettando davanti all’orologio della piazza dell’Oronte. Ci siamo salutate come se ci conoscessimo da anni.

Se qualcuno viene ora a Hama senza sapere che qui c’è stata la piu grande manifestazione pacifica, non sarebbe in grado di dirlo. Perché non si vede nulla di quello che è stato: non ci si può immaginare che qui quattro anni fa sono scese a manifestare mezzo milione di persone.

Ora c’è tanta gente, gente che lavora, gente che vende, gente che rinnova i documenti, studenti, donne, macchine, traffico e sfollati. Silenzio nella confusione.

Sara mi dice: “Guarda cosa c’è scritto sullo striscione appeso vicino all’orologio”.

La piazza dell’Oronte si scusa e vota il Presidente.

“La piazza, hanno scritto, non la gente. È la piazza che si scusa” – dice Sara.

In macchina abbiamo girato attraverso Hama, Hama che ora conosco. Abbiamo visto quello che è rimasto delle vecchie case distrutte nel 1982. Siamo andate sulla collina dove ora c’è un’area giochi per bambini, ma sotto ci sono i corpi delle persone uccise allora senza un vero certificato di morte.

Nella nostra strada abbiamo parlato della situazione attuale della Siria. Delle manifestazioni a cui Sara ha partecipato.

Sara difendeva l’idea che ci si può ribellare anche attraverso una pacifica resistenza quotidiana, dando un sorriso a una persona triste, fare un passo avanti anche negli spazi stretti, credendo che il tuo Paese è la Siria e che non ce n’è un altro.

“Mi sorprende il modo in cui analizzi la situazione”, le ho detto. “Quando ribadisci l’importanza della resistenza pacifica, quando parli di conservare la struttura dello Stato. Sei contro il regime ma non contro lo Stato. E non manifesti odio verso questo regime dopo tutto quello che avete subito qui a Hama”.

“Odio? Non si tratta di odio, Najwa. Si tratta di diritti e giustizia”.

Silenzio.

Poi Sara mi dice con occhi più luminosi: “Dai, ti faccio ridere ora”.

All’inizio della rivoluzione gli attivisti di Hama e di altre zone della Siria uscivano di notte per scrivere sui muri con le bombolette: “Il regime deve cadere”, “I servizi di sicurezza devono cadere”, ecc.

L’indomani i servizi di sicurezza correvano a cambiare le frasi aggiungendo un “NON”. E la frase diventava: “Il regime non deve cadere”.

Ci siamo fermate davanti a un muro dove era scritto: “Chi ha venduto il Golan deve cadere”.

Successivamente era stata aggiunta la negazione NON.

Ho sorriso, avevano ammesso di aver venduto il Golan…

Abbiamo sorriso come due bambine.

Ho chiesto: “Ma come potete ora continuare la lotta?”.

Sara mi ha detto: “Dobbiamo continuare all’interno del piccolo spazio che abbiamo. Non voglio vivere all’estero. Se non sei vicina non puoi cambiare. E il cambiamento non fa sempre rumore”.

Alle tre mi ha messo davanti all’ultimo autobus che porta ad Ammuriya.

La parola “rumore” è rimasta nella mia mente per tutto il viaggio, accompagnata dalle immagini della Siria degli ultimi quattro anni che ho rivisto mentre percorrevo le strade in quei giorni.

Ho avuto pensieri “rivoluzionari”. Le rivoluzioni, gli eroi e le storie scritte non si sa da chi, sono vere? Sono rumore? Forse le cose sono più complicate per essere giudicate in modo assoluto? Forse le cose sono certe solo quando le tocchi, le respiri, le paghi con la tua pelle. Solo allora le puoi definire.

Il giorno successivo, mentre stavo andando verso Damasco, la capitale della mia patria, ripensavo a Sara e al mio viaggio. Stavo ascoltando una canzone consigliatami da un caro amico che mi ha fatto vedere la parte nascosta dell’iceberg: “The Revolution Will Not Be Televised” di Gil Scott-Heron.

“Non potrai startene a casa, fratello
Non potrai né collegarti, eccitarti o squagliartela
Non potrai perder tempo a farti pere o fare un salto
A farti una birretta quando arriva la pubblicità
Perché la rivoluzione non la faranno vedere alla televisione”.

Il labirinto di Damasco

Dal finestrino del pullman che deve portarmi da Ammuriya a Damasco, guardo fuori e penso. Damasco. L’obiettivo, lo scopo, l’altezza. Damasco è la libertà.

Così l’ho sempre considerata e per questo l’avevo scelta come città dove studiare, mentre scrivevo le mie preferenze tra le facoltà dove andare dopo la maturità. In Siria la scelta dell’università è legata ai voti dell’esame di maturità. Per esempio, l’accesso a medicina richiede un voto più alto rispetto ad architettura, e architettura richiede un voto più alto di altre facoltà. E anche per andare studiare a Damasco bisogna avere una votazione più alta rispetto ad Aleppo e per Aleppo più alta che per Hama. A me non importava nulla della materia da studiare. Io volevo andare a Damasco.

L’autista fa il preciso per la prima volta: vuole la carta d’identità. Ed è fermo e deciso a non farci usare il cellulare quando passiamo ai posti di blocco. La strada assomiglia a quella che da Beirut va ad Ammuriya. Finché non arriviamo all’ingresso di Damasco.

Il cielo è diviso in due. A destra è azzurro e c’è il sole. A sinistra, dove un tempo c’era il quartiere di Harasta, il cielo è grigio. Il fumo dei mortai caduti sembra rimasto fermo nell’aria. Non va via.

Le case di Harasta che si vedono dal finestrino del pullman sono tutte bruciate. Sembrano un discorso interrotto: tra i muri distrutti si vedono mensole, alcuni vasi e vestiti ancora appesi ad asciugare. Un tetto caduto e inclinato sull’edificio. Che fa? Lo abbraccia? Sembra un labirinto che inizia con il vaso di olive e finisce con il tetto inclinato.

Il mio obiettivo è correre verso la grande moschea degli Omayyadi. Per me ogni sasso lì è come un abbraccio.

Non riesco a concentrarmi sulle strade di Damasco. Solo poche cose noto: le foto dei morti di Hezbollah che circondano la zona del quartiere cristiano di Bab Tuma, e la città vecchia dove ci sono militari ogni 20 metri. Tanta gente, gente triste anche mentre sorride. Il rumore degli aerei militari sopra di me diventa col tempo una cosa normale. Solo quando cade una bomba dall’altra parte grigia del cielo, la gente si ferma e guarda.

Mentre cammino verso la grande moschea, sento il rumore di una bomba che cade. È un rumore fortissimo e non sono abituata. Mi fermo tremando. Un vecchietto da un negozio vicino mi guarda e mi dice: “È la terza nel giro di un’ora”.

Che strano! Solo io sembro spaventarmi al rumore dei bombardamenti. Gli altri non cambiano espressione, non interrompono le parole. In questa parte di Damasco la gente si è abituata a sentire i bombardamenti, non sono pericolosi se non cadono nella loro parte di cielo azzurro. Arrivo alla Grande moschea degli Omayyadi. È bella come è sempre stata. Ecco io posso definire la mia patria passando attraverso questa moschea. Prendo la penna e il quaderno come facevo sempre prima della guerra: mi sedevo nel cortile della moschea a guardare i bambini che giocavano, le donne che chiacchieravano, gli uomini che camminavano.

Ma questa volta il cortile è vuoto. Ora è chiuso e recintato.

“Perché?”, ho chiesto. Mi risponde un guardiano della moschea, triste per la mia reazione: “Non si può più, se vuoi puoi entrare nella sala della preghiera”. Entro ma non scrivo nulla sul mio quaderno. Guardo dalla finestra chiusa per metà quello che si riesce a intravedere del cortile. Chiudo gli occhi e mi ricordo di una mia amica conosciuta all’università.

Lei è damascena. Eravamo proprio qui, insieme nella grande moschea quando mi disse: “Ammuriya è famosa perché produce una buona cipolla”. “Ma che dici?”, le risposi. “È vero che abbiamo una fabbrica di cipolle, ma non è affatto vero che siamo famosi per la cipolla, ma per altre cose più belle dalla cipolla”.

“E allora vieni con me, così ti faccio sentire cosa si dice di Ammuriya”. La seguii offesa. Mi portò al suq della verdura dove tutti i venditori vantavano in dialetto damasceno la verdura buona che avevano. Ci siamo fermate davanti a uno che cantava:

“Asabia el bubbo ya khyar!” (Come dita di bambino sono questi cetrioli).

“La tshalleho bishlah, lahalu el derraqen!” (Non sbucciarla la pesca ché si sbuccia da sola).
“Kalawi ya ful!” (Grosse come rognoni queste fave).

Poi, il venditore mi guardò negli occhi e, come se avesse ascoltato il discorso che avevo fatto con la mia amica, concluse: “Ammuriya ya basal” (Di Ammuriya è la cipolla).

Mi viene in mente questo nella grande moschea a Damasco e sorrido. Sto scrivendo solo adesso del mio viaggio in Siria. Attorno a me circola la notizia dell’attacco estremista a Parigi. Accanto a me ci sono bambini che muoiono per il freddo . Dovrei scrivere qualcosa per dire che sono musulmana e che condanno il gesto degli estremisti contro i disegnatori di Charlie Hebdo e che non tutti i musulmani sono uguali? Dovrei scrivere per i bambini che muoiono adesso?

No, non ho voglia di scrivere nulla.

Voglio rimanere nell’abbraccio della grande moschea, con queste poche cose belle che sono rimaste nella mia memoria. Voglio rimanere nel labirinto della mia Damasco.

Non voglio piu scrivere.


* Pseudonimo. Ammuriya è una città inventata da Abdel Rahman Munif e Jabra Ibrahim Jabra nel loro romanzo Un mondo senza mappe (‘Alam bala khara’it, al Mu’assasa al ‘arabiyya li l dirasat wa n nashr, Beirut, 2004).