Scholastique Mukasonga (1956), ruandese di etnia tutsi, si è rifugiata in Burundi per sfuggire alle persecuzioni degli hutu.

Nel 2006 esordisce come scrittrice con Inyenzi ou les Cafardes (Gallimard).

Con Nostra Signora del Nilo, ha vinto il Prix Ahmadou Kourouma e il prestigioso Prix Renaudot. Attualmente risiede in Francia.

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24 febbraio 2014 18.48

Nostra Signora del Nilo

Ruanda, anni settanta. La vita scorre apparentemente normale per le studentesse del collegio femminile di Nostra Signora del Nilo, tra auto di lusso e chauffeur, antipatie, gelosie e vanità. Ma anche tra le mura del liceo si infiltrano i germi del razzismo che dilania il paese. E le ragazze dovranno presto scegliere da che parte stare.

Non c’è liceo migliore del Nostra Signora del Nilo. Non ce ne sono neanche di più alti. 2500 metri, annunciano fieri i professori bianchi. 2493, corregge suor Lydwine, la professoressa di geografia. «Siamo così vicini al cielo» sussurra la madre superiora giungendo le mani.

Poiché l’anno scolastico coincide con la stagione delle piogge, il liceo si trova spesso tra le nuvole. Qualche volta, ma assai di rado, c’è una schiarita. Allora, giù in fondo, si intravede il grande lago come una pozzanghera di luce livida.

Il liceo è per le femmine. Loro, i maschi, restano giù nella capitale. È per le ragazze che il liceo l’hanno costruito così in alto, così distante, per tenerle lontane, per proteggerle dal male, dalle tentazioni della grande città. Perché le signorine del liceo sono destinate a un bel matrimonio. Ci devono arrivare vergini, se non rimangono incinte prima. Vergini è meglio. Il matrimonio è una cosa seria. Le convittrici del liceo sono figlie di ministri, di militari d’alto rango, di uomini d’affari, di ricchi commercianti. Il matrimonio delle loro figlie è un fatto politico. Le ragazze ne vanno fiere, sanno perfettamente quanto valgono. Sono lontani i tempi in cui contava solo la bellezza. In dote, le famiglie non avranno solo mucche o boccali di birra tradizionali, ma anche valigie traboccanti di banconote, un cospicuo conto in banca alla Belgolaise di Nairobi o di Bruxelles. Grazie a loro, la famiglia si arricchirà, il clan consoliderà la sua potenza, la dinastia espanderà il suo dominio. Sanno perfettamente quanto valgono, le ragazze del liceo Nostra Signora del Nilo.

Il liceo è vicinissimo al Nilo. O meglio, alla sorgente. Per andarci, si prende un cammino sassoso che segue la linea delle creste. Si arriva così a un terrapieno dove stazionano le rare Land Rover dei turisti che si avventurano fin là. Un cartello indica: SORGENTE DEL NILO → 200 m. Un sentiero scosceso conduce a un ammasso di detriti da cui sgorga tra due rocce un esile ruscelletto. L’acqua della sorgente viene trattenuta in un bacino cementato, dopodiché una minuscola cascata la riversa in un rigagnolo indefinito di cui si perde subito traccia tra le erbe del versante e sotto le felci arborescenti della valle. A destra della sorgente, hanno eretto una piramide che reca l’iscrizione: SORGENTE DEL NILO. MISSIONE DI COCK, 1924. Non è molto alta la piramide: le ragazze del liceo toccano senza difficoltà la punta sbrecciata, dicono che porta fortuna. Ma non è per la piramide che le liceali vanno alla sorgente. Non ci vanno in gita, ci vanno in pellegrinaggio. La statua di Nostra Signora del Nilo si trova tra le grosse rocce a strapiombo sulla sorgente, sotto una baracca di lamiera. Non è proprio una grotta. Sullo zoccolo, hanno inciso: NOSTRA SIGNORA DEL NILO, 1953. È stato il monsignor vicario apostolico che ha deciso di erigerla. Il re aveva ottenuto dal sommo pontefice di consacrare il paese a Cristo Re. Il vescovo ha voluto consacrare il Nilo alla Vergine.

La cerimonia d’inaugurazione la ricordano ancora tutti. C’era anche suor Kizito, la vecchia cuoca quasi invalida. Ogni anno ne fa il resoconto alle nuove alunne. Sì, è stata una bella cerimonia, come quelle che si vedono in chiesa, nella capitale, a Natale, o allo stadio, il giorno della festa nazionale.

Il presidente aveva mandato qualcuno in sua rappresentanza ma il governatore era lì, scortato da dieci soldati. Uno aveva una tromba, un altro portava la bandiera belga. C’erano i capi e i loro vice, e quelli delle chefferie vicine. Erano accompagnati da mogli e figlie dalle alte acconciature imperlate, da danzatrici che agitavano le loro criniere come leoni valorosi e soprattutto dalla loro mandria di mucche inyambo con le lunghe corna inghirlandate di fiori. La folla di contadini copriva il pendio. I bianchi della capitale non si erano avventurati sul cammino impervio che conduceva alla sorgente. Seduto accanto al governatore, si notava solo Monsieur de Fontenaille, il piantatore di caffè giunto in veste di vicino. Era la stagione secca. Il cielo era limpido. Sulle vette, neanche una nuvola.

Aspettammo a lungo. Alla fine, sul sentiero della cresta, scorgemmo una linea nera da cui si levava un mormorio di preghiere e canti. A poco a poco distinguemmo il monsignor vicario apostolico, riconoscibile dalla mitra e dal pastorale. Sembrava uno dei Re Magi, come quelli delle immagini che si mostrano al catechismo. Seguivano i missionari: come tutti i bianchi dell’epoca, portavano un casco coloniale, ma avevano la barba e indossavano lunghe tuniche bianche bardate di un grosso rosario. La schiera delle bambine della Legione di Maria tappezzava il cammino di petali di fiori gialli. Poi veniva la Vergine. Era portata da quattro seminaristi in bermuda e camicia bianca su una lettiga di stecche di bambù intrecciate su cui di solito si trasporta la giovane sposa nella sua nuova famiglia o i morti verso la loro ultima dimora. Ma era impossibile vedere la Madonna. Era avvolta in un velo azzurro e bianco. Dietro si accalcava il «clero indigeno» poi, preceduta dal proprio stendardo e dalla bandiera gialla e bianca del papa, si sfilacciava la truppa degli alunni del catechismo che, incurante dei bastoni dei precettori, si disperdeva sulla scarpata oltre il sentiero.

La processione raggiunse la piccola valle da cui sgorgava la sorgente. Il palanchino della Madonna, sempre nascosta sotto il velo, venne deposto accanto al ruscelletto. Il governatore si portò davanti al monsignore e fece il saluto militare. Scambiarono qualche parola mentre il corteo si disponeva intorno alla sorgente e alla statua, issata su un piccolo palco. Il monsignore e due missionari salirono i cinque gradini. Il vescovo benedisse la folla dopodiché, voltandosi verso la statua, pronunciò un’orazione in latino alla quale risposero i due preti. A quel punto, a un cenno del vescovo, uno dei due accoliti tirò bruscamente il velo via dalla statua. Al suono della tromba, la bandiera si inclinò. Un lungo brusio percorse la folla. Le acute grida di gioia delle donne riecheggiarono nella piccola valle, le danzatrici agitarono i sonagli alle caviglie. La Madonna emersa dal velo somigliava alla Vergine di Lourdes che si poteva vedere nella chiesa della missione, stesso velo celeste, stessa cintura azzurra, stesso manto ingiallito, ma Nostra Signora del Nilo era nera, aveva il viso nero, le mani nere, i piedi neri, Nostra Signora del Nilo era una donna nera, un’africana, perché no, una ruandese. «È Iside,» gridò Monsieur de Fontenaille «è tornata!».

Con un energico colpo di aspersorio, il monsignor vicario apostolico benedisse la statua, benedisse la sorgente, benedisse la folla. Dopodiché pronunciò il suo sermone. Si capì ben poco. Parlava della Santa Vergine che lì si sarebbe chiamata Nostra Signora del Nilo. Diceva: «Le gocce di quest’acqua benedetta si mescolano alle acque nascenti del Nilo, si mescoleranno ai flutti degli altri fiumi che diverranno il Fiume, attraverseranno i laghi, attraverseranno le paludi, rotoleranno nelle cascate, sfideranno le sabbie del deserto, idrateranno le celle degli antichi monaci, giungeranno davanti alla Sfinge incredula; è come se queste gocce benedette, per grazia di Nostra Signora del Nilo, andassero a battezzare l’Africa intera e lei, l’Africa ora cristianizzata, salverà questo mondo sulla via della perdizione. E io vedo, sì, vedo le folle di tutte le nazioni venire in pellegrinaggio tra le nostre montagne per rendere grazie a Nostra Signora del Nilo».

Il capo Kayitare avanzò a sua volta davanti al palco e chiamò la mucca Rutamu per offrirla alla nuova regina del Ruanda. Unì il suo elogio a quello di Maria dicendo che insieme avrebbero portato abbondanza di latte e di miele. Le grida festose delle donne e il tintinnio dei sonagli salutarono il dono benaugurante.

A distanza di qualche giorno, alcuni operai della missione sono andati a costruire una piattaforma tra le due grosse rocce, sopra la sorgente. Vi hanno posto la statua e l’hanno messa al riparo sotto una nicchia di lamiera. Il liceo l’hanno costruito molto tempo dopo, a due chilometri da lì. Proprio il Giorno del l’Indipendenza.

Il monsignore sperava forse che l’acqua benedetta della sorgente sarebbe diventata miracolosa, come quella di Lourdes. Ma così non è stato. C’è solo Kagabo, il guaritore o l’avvelenatore, chi lo sa, che riempie con quell’acqua delle piccole brocche nere a forma di calabasse. Vi immerge radici dalle forme inquietanti, mute di serpenti ridotte in polvere, ciuffi di capelli di neonati morti, sangue secco delle prime mestruazioni delle ragazze. Per guarire o per uccidere. Dipende.

Per molto tempo, le foto della cerimonia d’inaugurazione della statua di Nostra Signora del Nilo avevano ornato il lungo corridoio che fungeva da anticamera per gli ospiti o per i genitori delle alunne che avevano chiesto udienza alla madre superiora. Al momento, ne restava soltanto una: quella in cui si vedeva il monsignor vicario apostolico intento a benedire la statua. Delle altre si decifravano soltanto le tracce rettangolari, un po’ più pallide, rimaste impresse dietro il canapè di legno, rigido e senza cuscini, sul quale le sfortunate alunne convocate dalla terribile madre superiora non osavano neanche sedersi. Ma le foto non erano andate distrutte. Gloriosa, Modesta e Veronica le avevano ritrovate il giorno in cui erano state incaricate di spolverare la sala in fondo alla biblioteca dove venivano accatastati gli archivi. Le scoprirono sotto una pila di vecchi giornali e riviste («Kinyamateka», «Kurerera Imana », «L’Ami», «Grands Lacs» e via dicendo), un po’ ingiallite e deformate, alcune ancora sotto la lamina di vetro rotto. C’era quella del governatore che faceva il saluto militare davanti alla statua mentre, dietro di lui, un soldato inclinava la bandiera belga. C’erano quelle dei danzatori intore, un po’ sfocate, perché il fotografo, inesperto, aveva voluto cogliere in pieno volo il loro balzo prodigioso tanto che la criniera di sisal e la pelle di leopardo erano avvolte da un’aura fantomatica. C’era poi la foto dei capi e delle loro mogli in pompa magna. Questi personaggi importanti erano quasi tutti barrati con uno spesso tratto di inchiostro rosso e alcuni coperti da un punto interrogativo di inchiostro nero.

«Le foto dei capi hanno subito la “rivoluzione sociale”» disse Gloriosa ridendo. «Un colpo di penna, un colpo di machete e pfff… fine dei tutsi».

«E quelli che hanno un punto interrogativo invece?» chiese Modesta.

«Ah, devono essere quelli che sono riusciti a fuggire! Forse ora saranno a Bujumbura o a Kampala, ma ormai quei grandi capi hanno perso le loro mucche, oltre alla fierezza, bevono acqua come i paria che sono diventati. Voglio prenderle, queste foto. Mio padre di sicuro saprà dirmi chi sono quei signori con lo sjambok».

Veronica si chiese quando, sulla foto di classe che si faceva all’inizio di ogni nuovo anno, sarebbe stata barrata anche lei con un tratto rosso.