Anthony Shadid (1968-2012) è stato corrispondente dal Medio Oriente per diverse testate giornalistiche. Ha vinto il Premio Pulitzer per il giornalismo nel 2004 per la guerra in Iraq e nel 2010 per la Libia. Statunitense di origine libanese, ha lavorato per il «Washington Post», il «Boston Globe» e il «New York Times». Per quest'ultima testata ha seguito la primavera araba del 2011. È morto all’età di 43 anni in Siria dove era arrivato per raccontare le rivolte contro il regime di Assad.

La casa di pietra è un libro meraviglioso, il racconto di un anno dedicato a restaurare la casa di famiglia a Marjayoun, nel Libano meridionale. Queste pagine sono una sinfonia, composta dalle note più diverse: elegia, ironia, rabbia, divertimento. Shadid fa di questa esperienza uno dei memoir più belli che abbiamo letto, ed è un peccato, se non un’ingiustizia, che l’autore non abbia potuto vedere stampato questo libro. Washington Post

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30 ottobre 2012

Il testamento di Anthony Shadid
di Shady Hamadi

Bayt è una parola araba che significa “casa”. Nell’area del levante –Siria, Libano, Giordania ecc..- è usuale accostare la parola Bayt al proprio cognome quando ci si presenta. Il buon nome della famiglia, la sua reputazione è, ancora oggi, il biglietto di ingresso nella comunità locale dove si nasce e cresce.

Anthony Shadid, giornalista del New York Times, due volte Pulitzer, scomparso prematuramente in Siria all’età di 43 anni, nel suo libro La casa di pietra ci lascia il testamento del suo personale viaggio alla ricerca della propria identità.

Shadid ci accompagna nella riscoperta delle sue radici, partendo dalla casa di un suo antenato, Isber, nel villaggio natale della famiglia Shadid, Marjayoun. Anthony ha descritto in questo volume qualcosa che molti altri scrittori, nati e cresciuti in Libano, non sono riusciti a trasmettere attraverso le loro opere e cioè il rapporto degli abitanti con la vita. Anthony ha descritto, straordinariamente, tramite le sfumature della lingua araba, il rapporto che gli abitanti di Marjayoun hanno con la vita e le sue infinite tragedie .

C’è nel testo una continua, profonda, riflessione sul significato delle parole in arabo, dovuta all’attaccamento viscerale di Shadid alla sua, come ha scritto lui stesso, seconda lingua. L’arabo è una lingua che possiede una tale quantità di parole che ha la magica capacità di dare un nome, descrivere e esprimere qualsiasi cosa.

E’ proprio per questa sua caratteristica che essa è il cardine dell’identità delle popolazioni arabofone, anche se, come si è visto nella lunga storia araba, non è bastato a tenere unite le società. Anthony, infatti, ci descrive un Libano mutato, impegnato a ricercare nel tempo l’estrema appartenenza, a dividersi in comunità regionali e poi religiose. Ma il Libano non è stato sempre così. Lo ha dimostrato Hana Shadid, cristiano ortodosso e parente di Anthony, che molti anni prima, ogni venerdì, saliva sul minareto a fare il richiamo alla preghiera per i musulmani. Solo la riscoperta di una origine comune ci salva dalle divisioni. La casa di pietra, quella di Isber, rimane per Shadid l’unica certezza, perché “Nessuno ha sofferto la sventura di restare solo. Questa gente, la mia gente, ha vissuto insieme fin dal primo momento. La comunità è tutto. La casa è tutto. Se hai perso te stesso”.

ANSAMed
16 febbraio 2013

Shadid, alla ricerca del Medio Oriente perduto
di Lorenzo Trombetta

ANSAMed Che le rivolte arabe non sarebbero stata una gita di piacere per i milioni di persone coinvolte in un fenomeno senza precedenti lo sapeva bene Anthony Shadid, 43enne pluri-premiato giornalista americano di origini libanesi, firma del Washington Post e poi del New York Times, scomparso un anno fa nel nord della Siria mentre tentava di raccontare l’ennesima storia intrisa di violenza e speranza.

Ucciso il 16 febbraio 2012 non da un colpo di arma da fuoco o dall’esplosione di una mina ,ma da un banale quanto fortissimo attacco di asma, Shadid ha incarnato per anni un modello di giornalismo in via d’estinzione, fondendo l’abilità del cronista di raccontare l’immediatezza e quella dell’analista di spiegare in parole semplici fenomeni complessi.

Una fusione che è perfettamente riuscita nel suo ultimo libro – “La casa di pietra” (ADD Editore, titolo originale: House of stone) – uscito postumo l’anno scorso e di cui si attende a breve la prima ristampa dell’edizione italiana. Il sottotitolo – “Memorie di una casa, una famiglia e un Medio Oriente perduto” – testimonia la molteplicità delle dimensioni contenute in un testo voluminoso (circa 450 pagine in italiano), ma utile per andare oltre i logorati luoghi comuni sulla regione.

Perché “la casa di pietra” non è solo il racconto di un’epopea familiare, un’autobiografia o una ricostruzione giornalistica di eventi più o meno recenti. Ma è soprattutto una testimonianza di come ancora oggi, per i cronisti e per chiunque intenda fare divulgazione, sia necessario tornare alle origini degli eventi, siano essi privati o collettivi. E scavare sotto le macerie della grande Storia e delle piccole storie individuali, calpestare il terreno alla ricerca di prove, dati, voci di ieri e di oggi.

Già nell’autunno 2011, nove mesi dopo la caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak, Shadid scriveva dal Cairo quel che molte firme del giornalismo occidentale hanno cominciato a scrivere solo nelle ultime settimane: che “le rivolte arabe non saranno una passeggiata senza ostacoli” e che non mancheranno “frammentazione, bagni di sangue, disordine”.

“Anthony non ha mai usato nei suoi articoli l’espressione ‘Primavera araba’ perché era cosciente che non si trattava né di un fenomeno passeggero né di un processo incruento”, afferma Nada Bakri, seconda moglie di Shadid, parlando a Beirut con ANSAMed. Anche lei è una giornalista del New York Times e i due si conobbero sotto le bombe della guerra tra Israele e gli Hezbollah libanese nell’estate del 2006. Solo pochi mesi prima, Shadid era tornato alle sue origini.

E aveva toccato con mano le pietre di quella che fu la casa dei suoi antenati, a Marjuyun, nel sud del Libano. Il percorso narrativo del libro si snoda attraverso le fasi di restauro di questo ‘bayt’, il cui significato va oltre il senso delle quattro mura e racchiude quello di famiglia allargata. Quella di Shadid – nato a Oklahoma city – era stata ormai naturalizzata americana da due generazioni.

“Sebbene fosse nato e cresciuto negli Stati Uniti, si sentiva comunque arabo, figlio del Levante arabo”, racconta la moglie. E’ un’inclinazione che emerge con forza nelle pagine del libro, dove si rievoca a più riprese il cosmopolitismo e l’unità territoriale delle province arabe dell’Impero ottomano.

In questo “Medio Oriente perduto”, che trascendeva i confini degli stati nazionali creati a tavolino dalle potenze coloniali circa un secolo fa, i suoi antenati originari dell’Hawran – oggi Siria meridionale – poterono con relativa facilità giungere nell’odierno sud del Libano e costruire il loro ‘bayt’.

Shadid aveva sempre sognato di diventare un giornalista specializzato in Medio Oriente, ricorda la moglie. E per questo, nei primi anni ’90 si recò al Cairo per imparare l’arabo. Nella capitale egiziana vi tornò qualche anno dopo per dirigere l’ufficio dell’Associated Press. Da allora in poi la sua carriera è puntellata di incarichi di prestigio e di riconoscimenti: per il suo lavoro in Iraq ha vinto per ben due volte, nel 2004 e nel 2010, il Pulitzer.

Premi ma anche rischi. Nel 2002 fu ferito ad una spalla dal proiettile esploso da un cecchino israeliano a Ramallah, in Cisgiordania. E nel raccontare la rivolta libica del 2011, fu catturato e tenuto prigioniero per alcuni giorni dalle autorità di Tripoli assieme ad altri colleghi. Tra loro c’era il fotografo Tyler Hicks. Lo stesso che ha assistito impotente all’assurda morte di Shadid su una collina del nord della Siria (qui il suo racconto).

“Anthony è stato sempre molto prudente nel suo lavoro”, ricorda Nada Bakri, madre di Malik, il loro figlio di appena tre anni rimasto orfano del padre. “Ma era spinto dalla responsabilità di raccontare storie che, come ripeteva spesso, andavano raccontate in quel momento. Se no, non sarebbero mai più state raccontate”.