Una vecchia casa con il portone azzurro, stretta tra i palazzi della moderna Teheran. E al centro del cortile, un magnifico albero di jacaranda. È qui, sotto un tripudio di fiori dalle mille sfumature di rosa e di viola, che si intrecciano le storie di Maman Zinat, Leila, Forugh, Dante, Sara e tanti altri. Membri della stessa famiglia perseguitata da un regime brutale. Voci di un paese esaltato dalla Rivoluzione e subito inghiottito dall’abisso della tirannia. La giovane Azar, arrestata per motivi politici, partorisce al cospetto della sua carceriera una bimba bellissima: Neda. Capace, con la sua sola presenza, di ridare speranza anche a chi credeva di averla persa per sempre. Maman Zinat aspetta che le sue figlie vengano rilasciate dal carcere e intanto cresce i tre nipotini, tessendo con silenziosa tenacia i sogni e le paure di tre generazioni. E per due amanti – Leila e Ahmad – separati dalla Storia, altri due trovano il modo di tendersi finalmente la mano. Nata nella prigione di Evin, a Teheran, Sahar Delijani mescola realtà e finzione in questo potente e ispirato primo romanzo. Che prende spunto dalle vicissitudini della sua famiglia per disegnare il ritratto di un popolo affamato di libertà.

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28 Maggio 2013

L'Iran e “L'albero dei fiori viola”, intervista a Sahar Delijani
di Elena Donà

In occasione del Salone del Libro di Torino, Elena Donà ha avuto l'occasione di intervistare la scrittrice iraniana Sahar Delijani, che ha appena pubblicato il suo primo romanzo “L'albero dei fiori viola”, e di parlare con lei dell'Onda Verde, dei trentenni iraniani di oggi, nati sotto Khomeini ed emigrati all'estero, e dell'intreccio fra la rivoluzione fallita degli anni Ottanta e le rivolte del 2009.  

È raro che una frase come “Quando sono uscita di prigione…” si concluda con “…mi ha allevata mia nonna”. Ma è ordinaria amministrazione per molti bambini nati in Iran negli anni Ottanta, ai tempi della rivoluzione di Khomeini, che avrebbe dovuto portare diritti e libertà e che invece ha finito per diventare più cieca e sanguinaria del regime che aveva abbattuto.

Bambini nati in carcere, da genitori colpevoli di pensare con la propria testa: molti erano giovani e avevano studiato Marx; credevano in uno stato laico e democratico, con gli stessi diritti per tutti, indipendentemente dalla fede e dall’ispirazione politica. E soprattutto, erano stati loro l’avanguardia della rivoluzione, una rivoluzione passata alla storia come 'islamica', ma nata invece come un mosaico di realtà completamente diverse fra loro. Tra i rivoluzionari convivevano socialisti ed esponenti del clero sciita, islamici moderati, liberali, comunisti e nazionalisti, uniti dalla volontà di mettere fine all’oppressione violenta della monarchia dello Shah, Mohammad Reza Pahlavi.

Ma qualcosa era andato storto: la Rivoluzione, raccolta attorno alla figura dell’Ayatollah Khomeini aveva virato verso un progetto di società islamica che escludeva il dissenso. Nel giro di pochi anni quegli stessi giovani che avevano guidato la lotta erano diventati i nuovi nemici; infedeli, pericolosi dissidenti da chiudere in carcere o zittire per sempre. Nelle fosse comuni iraniane sono finiti migliaia di morti, non si sa nemmeno il numero esatto. Loro non parlano più; ma i loro figli, i bambini nati nelle carceri dei Pasdaran, sono ancora qui e hanno cominciato a raccontare.

Una di loro è Sahar Delijani, l’autrice di “Children of the Jacaranda Tree”, “L’albero dei fiori viola”, nell’edizione italiana di Rizzoli. Una storia che parla della rivoluzione sì, ma soprattutto della vita che continua, nonostante la paura; parla della sua famiglia, di chi Tehran ha dovuto lasciarla, come Sahar, e di chi ha deciso di restare; e parla di quei bambini, diventati giovani adulti, che nel 2009 erano di nuovo in piazza, come i genitori trent’anni prima, per provare a cambiare ancora una volta il loro Iran. E se i bambini cominciano a parlare, non li ferma più nessuno.

Sahar, nel tuo libro si intrecciano le storie di padri, alle prese con la rivoluzione tradita degli anni Ottanta, e quelle dei figli, scesi in piazza nel 2009 con l’Onda Verde, contro il regime di Ahmadinejad. Tu, come tanti giovani iraniani della tua generazione, non vivevi più nel tuo Paese già da tanti anni quando sono scoppiate le rivolte a Teheran. Come ti sei sentita a vivere l’Onda da lontano, a seguirla su youtube?

Per fortuna che c’erano Facebook e Twitter! I social network ci hanno avvicinato a quello che stava succedendo. I giorni del movimento abbiamo potuto seguirli praticamente in presa diretta, è stato veramente toccante. Anche un po’ strano però: tu sei lì a casa, tranquilla, sicura, senza correre nessun rischio e vedi le persone in piazza… ho provato anche un po’ di invidia: tutti quei giovani per strada… C’era così tanta energia, così tanto entusiasmo. Vedevo la storia cambiare davanti ai miei occhi e io mi sentivo fuori da tutto. Però si è creato un ponte bellissimo tra noi, noi iraniani che eravamo lontani, e loro, i ragazzi del movimento. Non ci hanno mai fatti sentire esclusi, o colpevoli di non esserci. Volevano che fossimo la loro voce. Era nostra responsabilità far arrivare a tutti il loro messaggio, far capire al mondo che cosa stava succedendo laggiù.

Ormai vivi in Italia da sette anni. Cosa non abbiamo capito noi dell’Iran?

Che il mio Paese non è fatto solo di uomini severi e barbuti, con la fissa della bomba atomica. L’Iran è molto di più: è poesia, è il sorriso delle persone, è festa… è così tante cose. E invece sembra che l’Occidente questo lato non voglia mostrarlo mai.

Si ha l’impressione che l’Iran sia rimasto un po’ isolato anche durante la Primavera Araba. È andata così o è una lettura sbagliata?

Il punto è che il movimento dell’Onda verde è stato molto diverso dalle altre primavere. Intanto è stato il primo. E poi, noi volevamo le riforme non la rivoluzione. Veniamo da un Paese che la rivoluzione ce l’ha avuta appena trent’anni fa, anche se è fallita, mentre gli altri Paesi Arabi arrivavano da anni, secoli di dittatura. Era completamente diverso. Noi dovevamo pensare e calcolare i nostri movimenti, non spaccare tutto.

Ora che i riflettori si sono spenti, che cosa sta succedendo a Teheran?

Fra un mese ci saranno le elezioni, e c’è di nuovo speranza. Dopo quattro anni in cui non sapevamo più che cosa fare, anni pieni di dolore e di dubbi, con queste elezioni alla gente è tornata la voglia di votare. In Iran la speranza non muore mai. È sempre lì, aspettiamo solo il momento giusto. Anche la lotta dei nostri genitori non è mai finita, continua con quelli della mia generazione. Per questo abbiamo il dovere di raccontare.

E tu l’hai fatto. Che cosa dicono mamma e papà?

Mia mamma era contentissima. E mio papà… è un anno che piange, non si è ancora fermato! Anche se il primo a leggere il libro è stato mio marito, la cosa più importante era che lo leggessero loro. È la loro storia, una storia che non hanno potuto raccontare per troppo tempo. Quando eravamo piccoli non dovevamo dire a nessuno che eravamo figli di persone che erano state mandate in prigione. Anni così ti danno una forma per sempre e la paura ti rimane addosso. Ma qualcuno doveva raccontare. Perché non ci può essere un futuro senza memoria: la memoria non è il passato, è il presente. È il futuro.