Quali sono le finalità e le possibili conseguenze delle azioni di al-Qaida e dello Stato Islamico in Iraq, Siria e Libano? Nel luglio 2014, a Mosul è stata messa in atto la prima espulsione di un’intera comunità cristiana da una terra araba, rendendo concreta la prospettiva di un Medio Oriente senza cristiani, già evocata da decenni di inarrestabile flusso migratorio. Determinati a contrastarlo, i cristiani orientali appaiono a un bivio, lo stesso che li divide dalla fine dell’impero ottomano. Le testimonianze raccolte in questo libro raccontano la devastazione della Siria, dell’Iraq e la destabilizzazione del Libano come capitoli non di una guerra di religione ma di disegni egemonici, a cominciare da quello khomeinista e arrivando fino a quello del sedicente Califfo. Si ricostruisce così il filo di un confronto che si è fatto più radicale davanti alle Primavere arabe, tra chi le ritiene illusioni e davanti all’orrore pensa di affidarsi a nuovi protettori, e chi invece propone la via che, con il concorso di tutte le comunità, pose termine alla guerra civile libanese: la costruzione della comune cittadinanza.

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lunedì 27 ottobre 2014

Cristiani e Medio Oriente in un libro

Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo un breve stralcio del primo capitolo.

Cercando di guardare in faccia questo sedicente Abu Bakr al-Baghdadi si ha l'impressione di vedere un groviglio di maschere. Perché il punto al quale siamo arrivati sembra il traguardo di un percorso costellato di errori e di orrori cominciato subito dopo la dissoluzione dell'impero ottomano, all'inizio di quell'epoca coloniale che abbandonò il liberalismo arabo portando a un post-colonialismo fatto di petromonarchie, e repubbliche bonapartiste. Se le prime si coniugarono al conservatorismo islamico, le repubbliche dei generali golpisti chiusero ogni spazio di discussione, lasciando aperte solo le moschee, sopra le quali c'era l'islam di Stato. È così che proprio intorno alle insopprimibili moschee si è organizzato l'unico dissenso possibile. [. ] L'invasione statunitense dell'Iraq ha favorito una revisione miliziana e tripartita, tra sciiti, sunniti e curdi: nel contesto che abbiamo appena descritto era fuoco per un pagliaio, e sul campo è rimasto solo il settarismo. Siccome l'Iraq e i suoi Stati confinanti sono costruiti su realtà tribali interconnesse, l'incendio non poteva fermarsi davanti ai confini nazionali, intrecciato com'era ad azioni o reazioni «egemoniche» dei capifila dei blocchi contrapposti. La guerra esistenziale tra di loro è divenuta «guerra settaria contro la comunità avversa», nella Mesopotamia e nel Levante, che comprende Siria e Libano, arrivando dunque sino al Mediterraneo. Lo scontro è divenuto «per la vita o per l'impero» e sono emersi il progetto «totale» dei pasdaran khomeinisti e poi del sedicente Califfato. [. ] 

Questa parola, Califfo, comunque è importantissima e da un secolo indica una ferita profonda, perché la soppressione del Califfato è stata ed è ancora oggi vissuta come una grave umiliazione da tanti credenti. La spia di un problema che si è aggravato nazionalizzando anche le grandi università islamiche. La storia del gruppo terrorista dell'uomo che si fa chiamare Abu Bakr al- Baghdadi non è soltanto la storia dei suoi crimini, ma anche delle gravi omissioni, delle colpevoli omertà, dei ciechi o lungimiranti finanziamenti, di cui ha goduto e gode e dei progetti egemonici che vi sottostanno. Si può forse evitare di chiedersi come i suoi fondatori abbiano ritrovato la libertà in Siria e in Iraq? E come così tante armi sofisticate siano finite nelle loro mani? [... ]?

Ci torneremo più avanti. Qui va ricordato che se i migliori analisti escludono che in quei tempi decisivi Qatar e Arabia Saudita abbiano finanziato direttamente i capi dell'Is, quasi nessuno omette di dire che le armi e le va- ligie piene di contanti portate per anni a chiunque si offrisse di prenderli lungo il confine turco-siriano e poi ai gruppi islamisti di Liwa al-Tawhid, Ahrar al-Sham e Jaish al-Islam, tutti sbaragliati dagli uomini dell'Is, sono conseguentemente finiti nelle mani di questi ultimi. E oggi costoro vendono novemila barili di greggio al giorno a trafficanti curdi che lo esportano in Turchia e al regime di Assad, che li ripaga in parte con armi. Ignorati fino a poche settimane fa, hanno cominciato a «comandare» da tempo in settori della Siria, commerciando allegramente da almeno un anno con il regime di Damasco. Hanno esordito portando l'acqua a chi ne era sprovvisto per via della guerra, in breve hanno scacciato due milioni di persone dai territori iracheni che oggi controllano, hanno sterminato intere tribù sunnite che li hanno avversati, come nella siriana Deir ez-Zor, hanno in totale sei milioni di esseri umani sotto di sé, ai quali impongono tasse.

Il Royal United Service Institute, think-tank britannico sulla sicurezza e la difesa, ha individuato quattro cause per l'esplosiva crescita dell'Is negli anni trascorsi: 1) la cinica manipolazione da parte del governo siriano degli estremisti, mettendoli nelle condizioni di combattere i nemici del regime; 2) l'uso di Hezbollah e di altre milizie filoiraniane, fomentando il settarismo che è stato sfruttato dall'Is; 3) la politica settaria del primo ministro iracheno Nouri al-Maliki, che ha forzato molti sunniti marginalizzati a unirsi all'Is; 4) il vuoto creato dal conflitto siriano e il silenzio internazionale. E ora? Molti, giustamente, si appellano all'Onu, perché una sfida mondiale deve avere una risposta dal mondo. Ma se l'Onu rimanesse vittima delle sue con- trapposizioni paralizzanti o delle agende ufficiose che comportano il so- spetto di diverse agende segrete? Potrebbe essere che proprio i cristiani, pochi e perseguitati, possano essere chiamati ancora una volta a salvare il mondo arabo, la cultura araba. Non ci sono molti altri plausibili honest broker tra sunniti e sciiti. Vivono con entrambi, potrebbero essere loro l'ultima risorsa per chiedere a entrambi che ci si unisca contro l'Is mentre si rinuncia agli opposti progetti egemonici delle milizie che imperversano in Iraq, in Siria, in Libano. Ho intravisto una visione, un appello del genere nella lettera aperta che il professor Antoine Courban, della Saint Joseph University, ha scritto da Beirut: «La piattaforma del discorso cristiano in tempi di lotte, guerre e tribolazioni della Croce è sempre la vittima innocente, ogni vittima innocente. Duemila anni fa, Gesù di Nazareth non fece alcuna distinzione tra sé e il ladro crocifisso accanto a lui, e noi sappiamo a quale religione appartenesse». L'invidiabile qualità che riconosco a tanti cristiani - soprattutto lì dove non vivono nella serenità - è quella di saper guardare oltre se stessi, e Michel Hajji Georgiou, autorevolissimo e coraggioso editorialista del quotidiano li- banese «L'Orient-Le Jour», vincitore del premio giornalistico Gebran Tueni, l'intellettuale cristiano ucciso a Beirut nel 2005, ne ha tanta. Erano i primissimi di maggio quando, a Beirut, mi ha salutato dicendo: «Spero di rivederti presto, chissà... comincio a temere che stiamo entrando in una sorta di Terza Guerra Mondiale». Mesi dopo ha confermato di avere una visione, scrivendo al riguardo delle vittime dell' Is: «A livello fattuale, non si può dire che soltanto le minoranze, i cristiani, siano il bersaglio dell'integralismo sunnita, che ha la sua espressione più brutale nell'Is. Le popolazioni siriane e irachene nel loro insieme ne sono le vittime. Le tribù sunnite ostili ai terroristi sono annichilite senza alcuna pietà dall'Is, i cui principali nemici rimangono i sunniti che non la pensano come loro, che non hanno posto nel loro islam e che quindi devono morire. [... ] In Siria, gli avversari (sunniti) più determinati al regime di Bashar al-Assad sono stati sequestrati o liquidati dalle milizie islamiste, soprattutto dall'Is, negli ultimi anni. Incoraggiare la crescita dell'estremismo è stato il modo più efficace per ostracizzare l'op- posizione e presentarla al mondo come un mostro estremista assetato di sangue. Uno capisce meglio così perché il Presidente Assad ha concesso nel 2011 l'amnistia ai futuri capi estremisti, lasciando che gli eventi seguissero il loro corso e che il mostro Is emergesse, con una moltitudine di finanziamenti e aiuti da settori con agende non convergenti».

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7 novembre 2014

“Medio Oriente senza cristiani”?
di Riccardo Cristiano

Presentare a un sito di studiosi e specialisti delle questioni mediorientali un libro sul Medio Oriente scritto da un non specialista è materia delicata. Un’intrusione? Non penso, dal momento che “Medio Oriente senza cristiani?” pubblicato da Castelvecchi è in realtà un libro che cerca una risposta a una domanda per me abusata ma importante:”i cristiani hanno un ruolo da svolgere nel Medio Oriente d’oggi?”. Dunque il libro non è sul Medio Oriente, ma sui cristiani.

Da vaticanista ha seguito le elaborazioni, sovente davvero illuminanti, che il mondo cristiano ha prodotto sull’arabismo. Il rifiuto, ad esempio, di considerarsi una minoranza, è stato l’architrave di questo pensiero, visto che da anni per le chiese orientali nella cultura e società arabe “l’islam appartiene ai cristiani quanto il cristianesimo appartiene ai musulmani.” E’ partendo di qui che ho voluto spiegare il mio convincimento: i cristiani hanno un ruolo, in quanto cristiani, e cioè quello di fare di tutto per evitare una guerra civile tra sunniti e sciiti.

Che ad iniettare la violenza produttrice di questa guerra civile non siano sunnismo e sciismo, ma gli artefici di piani politici egemonici o imperiali, è una costante storica. Ma la necessità resta e forse è anche un’urgenza perché nella devastazione sociale prodotta dai regimi totalitari, panarabisti e panislamisti, e aggravata dalla guerra del 2003, in campo è rimasto solo il settarismo. Si può uscire da questo vicolo cieco senza coinvolgere o ricorrere alle comunità?

Ecco, i cristiani come comunità a mio avviso hanno il vantaggio di essere comunità arabe senza eserciti, potenze, milizie di riferimento. Questa apparente debolezza può essere la forza per dire agli altri arabi e alla comunità internazionale: “vogliamo fare qualcosa?” L’idea-base per un negoziato di pace regionale, capace di mettere in crisi tutti gli egemonismi e tutti i terrorismi, di Stato e di stati, esiste, è l’idea che ha salvato il Libano, l’idea elaborata a Taif.

Molti, lo so, storcono il naso, dicendo che Taif è il comunitarismo; io non la vedo così. Taif è innanzitutto un progetto, basato in realtà su tre gambe: una formula per i vertici delle istituzioni che ponga fine all’egemonia di una sola comunità, qualunque essa sia, una camera eletta con sistema di rappresentanza diretta “one man one vote” che apra finalmente il confronto politico tra partiti politici e offra quindi i diritti agli individui, liberandoli dalla caserma delle appartenenze settarie, e un Senato eletto su base paritaria tra le confessioni in modo da rasserenarle tutte, garantire alle Comunità, tutte, che nessuno potrà più progettare di annientarle.

Questi ragionamenti sono il frutto di colloqui con arabi cristiani, che rifiutano di definirsi o farsi definire specie in via di estinzione e quindi da “proteggere”. Spero possa interessarvi leggerle. Per queste riproduco qui un breve capitolo del libro, quello sulle tribù di Karak; perché è troppo comodo pensare che con i musulmani esista solo il sistema delle minoranze protette. E’ una scorciatoia e una bugia. E la storia delle tribù di Karak lo dimostra.

«Nelle steppe isolate di Karak, in Transgiordania, un sistema sociale originale è perdurato dai tempi antichi fino al XX secolo», ha scritto su «L’Orient-Le Jour» Antoine Courban. «Lì l’ordine ottomano non aveva nulla di ottomano e ignorava la norma che stabilisce una stretta gerarchia tra “credenti” e genti del libro (ebrei e cristiani) ridotti a dhimmis, cioè minoranze protette. Le tribù di Karak erano organizzate in una federazione governata da un’assemblea formata da rappresentanti delle tribù federate. I rappresentanti potevano indifferentemente essere cristiani o musulmani.

Il parametro era il lignaggio e non l’appartenenza confessionale. La preminenza sociale era retta da un sistema fondato su origine e onore, senza alcun legame all’appartenenza confessionale. Alla base sociale del sistema c’erano gli esclusi, i nomadi e i neri. Costoro non potevano entrare nel gioco politico delle alleanze, né condividere il potere. Gli era proibito portare armi e possedere terre [...]. L’ordine politico e quello tribale coincidevano in questa strana società. La convivenza, o il vivere insieme di Karak, andava ancor più lontano di quel che è andato dall’Andalusia al cuore della terra dell’islam. [...] Non esiste alcuna coesione propriamente cristiana, generata dall’identità collettiva in quanto comunità religiosa, ma piuttosto una competizione permanente dove cristiani e musulmani giocano secondo le stesse regole di un gioco sociale nel quale le tribù, e non i gruppi confessionali, sono considerate come i soggetti concorrenti».

Molto spesso in questo sistema tribale erano i preti a svolgere le funzioni di qadi, giudici islamici, essendo tra i pochi alfabetizzati. Non c’è forse in questo strano sistema tribale una traccia del «vivere insieme» mediterraneo?

Le tribù e il tribalismo sono una realtà sociale di cui bisognerebbe tenere maggiormente conto quando si parla di Oriente. Anche per questo il passaggio dall’urlo «Dio è più grande» a quello «il popolo vuole» appare davvero epocale. Più che la supposta immodificabilità dell’islam sono state le atrocità della storia e la forza delle mitologie a rinviare questo appuntamento fino ai giorni nostri, tarpando le ali del riformismo sociale mediorientale. Cancellando dalla realtà storica dell’Oriente il costituzionalismo ottomano, una visione tanto ideologica quanto metastorica dell’islam ci ha convinto che con i musulmani sia possibile solo la formula delle minoranze protette.

Protette dal «Sultano», ma inferiori alla comunità musulmana, la cui legge ovviamente prevale quando un membro delle minoranze protette viene a contatto con un musulmano. Questo sistema ovviamente pone anche dei limiti ai cittadini di «serie b», impedendo loro di assumere alti incarichi o di svolgere determinate funzioni. Ma li fa «sopravvivere».

È davvero una dimensione «eterna e consustanziale» non all’«islam reale», quello di ieri o di oggi, ma anche a qualsiasi ipotetico islam di domani? Lo slogan «il popolo vuole» è il no più chiaro, e più forte, che sia stato detto, la risposta naturale e sincera a questa domanda.

Sebbene nessuno potesse sognarsi una rivoluzione che capovolgesse il mondo arabo in poche settimane, quel grido ha detto che un meccanismo si è rotto. Il fanatismo salafita da una parte, il nazional-socialismo dei regimi militari dall’altra (e il khomeinismo nel campo sciita) non riuscivano più a interpretare i poli della politica araba.