"La verità è una, la giustizia è una. Gli errori e le ingiustizie variano all'infinito." Nei tumulti del "secolo breve", Simone Weil era chiara, quasi profetica sulle sorti non certo felici che avrebbero atteso la democrazia qualora la si fosse idealmente ridotta a una forma vuota, misto di burocrazia, rancore e legalismo. Una democrazia fatta di procedure prive di sostanza e, quindi, di giustizia. Giustizia, che per la Weil non precede ogni forma di rappresentanza o consenso, ma costituisce l'origine propriamente politica della comunità. Il partito politico, piccolo mostro totalitario capace di mascherare da fini i mezzi, le appariva già allora come sintomo e causa di un decadimento delle idee forti di giustizia, politica, comunità. Per uscire dalla crisi, suggerisce la Weil, bisogna "radicare" le nostre buone pratiche nell'idea di giustizia davvero comune. Quella giustizia che racchiude in sé l'intero tragitto storico e di significato di tre altre parole: libertà, uguaglianza, fratellanza. Parole svilite e tradite proprio da quei monopolisti del consenso che la Weil identificava con i partiti politici. I tre testi, che qui proponiamo come una lezione imprescindibile a cui guardare, indicano a noi una strada quanto mai necessaria, oggi: quella di una fase costituente per una politica che si voglia davvero nuova e motore di cambiamento nella libertà.

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08/03/2013

Simone Weil: oltre i partiti. Una speranza?

“Senza partito”, un libro in tre saggi della filosofa francese, edito da Feltrinelli in collaborazione con Vita, accompagnato dai contributi di Marco Revelli e Andrea Simoncini

I partiti sono macchine da guerra. Scontano sul terreno della legittimità, quanto guadagnano sul campo della forza. Macchine organizzatrici del consenso, i partiti hanno segnato, nel bene e nel male, la storia politica e sociale del secolo che si è da poco concluso. In questo scorcio di inizio millennio, però, sembrano essersi trasformati in meri catalizzatori di dissenso. Hanno mutato forma, imbiancato le strutture, rinnovato le élite dirigenti, ma il nocciolo della questione non sembra mutare.
 

I partiti sono “pars pro toto”, scriveva Simone Weil denunciando l’aberrante deriva di un mezzo che, a forza di credersi un fine, smarrisce ogni contatto con la realtà. I partiti, osservava la Weil, sono al tempo stesso sintomo e causa di un male ben più radicale: lo sradicamento. Sradicati dalle terre, sradicati dal senso delle loro azioni, sradicati dai luoghi del lavoro e delle opere, attraverso i partiti gli uomini si ritrovano sradicati anche da quella politica che dovrebbe orientarli nel mondo, anziché disorientarli all’infinito.

I partiti sono “idolatria sociale”, per questa ragione Simone Weil individua in essi una fabbrica di passioni e conformismi che di­stolgono da quella volontà generale e da quel bene comune che, a parole, preten­dono di rappresentare.

Scritta dalla Weil nei primi mesi del 1943, la Note sur la suppression générale des partis politiques conobbe pubblicazione autonoma e notorietà postuma: solo nel febbraio del 1950, infatti, la Note apparve in apertura di una rivista di orientamento vagamente cattolico, “La Table ronde”. La traduzione italiana fu quasi immediata. Franco Ferrarotti se ne fece carico, pubblicando l’anno successivo in forma di editoriale per numero 10 della rivista olivettiana “Comunità”.

Oggi, a distanza di settant’anni dalla stesura di quegli appunti, abbiamo deciso di ripubblicare la Nota sulla soppressione dei partiti, unita a altri due testi sull’obbligo e il diritto che meglio chiariscono non solo il percorso di pensiero – tutt’altro che “antipolitico”, tutt’altro che “populista” – della Weil, ma anche e soprattutto il percorso che la Weil ci invita a fare. Il libro “Senza partito” che esce oggi in libreria è accompagnato da due saggi di Marco Revelli e Andrea Simoncini.
 Sottolinea Revelli: «È evidentemente nel momento della caduta che le cose mostrano la loro vera natura. È la catastrofe, non la normalità, a disvelare l’essenza dei fenomeni politici e sociali. Queste brevi, folgoranti pagine di Simone Weil furono scritte nel 1943, nel pieno del naufragio della Terza Repubblica e dei suoi flebili sovrani: i partiti politici che l’avevano occupata monopolisticamente per oltre mezzo secolo e che ora la lasciavano estenuata moralmente e politicamente. Forme vuote, ostili al pensiero, incapaci di misurarsi con l’idea stessa di “bene pubblico”, punitive e autoreferenziali fino al limite del nichilismo. Ognuno di essi, e tutti quanti insieme, si rivelarono allora con tutta evidenza inferiori al compito per il quale il moderno partito politico era nato: rendere possibile una vita pubblica fondata sulla partecipazione. Peggio: ostacolo  - forse principale – all’elaborazione di una soluzione all’altezza dei problemi e della crisi delle società contemporanee.

E di sillogismo mortale parla Andrea Simoncini: Oggi, che lo si ammetta o no, siamo tutti vittime di un sillogismo. Terribile nella sua chiarezza logica senza scampo. Lo enuncerei così: la democrazia contemporanea è fondata sui partiti politici; i partiti politici stanno morendo; dunque, la democrazia sta morendo. Ma è proprio vero questo sillogismo? Siamo davvero condannati alla morte dei partiti e, con loro, della democrazia? O c’è qualcosa prima della politica, qualcosa oltre i partiti?

È stupefacente rileggere oggi quello che Simone Weil, quasi settanta anni fa, ha scritto in risposta a queste stesse domande. Una voce assolutamente dissonante rispetto ai suoi tempi, ma straordinariamente anticipatrice.

La democrazia vive solo di partiti? O, meglio, sono solo i partiti gli unici soggetti in grado di identificare il bene comune di una società? Possiamo dire che scomparsi (o gravemente ammalati) i partiti, gli uomini non sono più in grado di vivere democraticamente? Qui siamo costretti a chiederci cosa voglia dire democrazia. Bisogna intenderci: se democrazia vuol dire procedura di decisione a maggioranza, allora le profezie della Weil e della Arendt già settant’anni fa avevano descritto il nostro destino. È perfettamente concepibile che la democrazia, a maggioranza, si suicidi. È quello che sta succedendo in Italia oggi. Ma c’è un’altra idea di democrazia, ben più profonda del principio per cui “la maggioranza vince” (che poi è sinistramente simile alla “legge del più forte”).

L’idea che la democrazia affondi le sue radici nel fatto che ogni essere umano per il suo solo esistere deve essere preso in considerazione nella decisione del bene comune. Nessuno può essere trascurato. Questa democrazia “dignitaria” – chiamiamola così –, a differenza del- la democrazia “maggioritaria”, nasce dall’esigenza di dover tener conto di ciascuno come un io irripetibile. È un modo di trattare le cose comuni che parte dall’obbligo di rispetto di ognuno. Ecco che compaiono le due parole chiave per il futuro della democrazia: dovere e obbligo. Le due parole che Simone Weil spiega nei suoi due saggi».