Beirut, gennaio 1990, notte fonda. È il giorno del suo quarantesimo compleanno e Karim Shammas sta aspettando il taxi che lo porterà all'aeroporto a prendere il volo per tornare a Montpellier, dove vivono sua moglie e i suoi figli. Per la seconda volta, a distanza di più di un decennio, si lascerà alle spalle il Libano, Beirut, una società che in quindici anni di guerra civile ha perso tutti i suoi valori di riferimento. Karim Shammas celebra il suo compleanno da solo, in una città al buio, percorsa dalle raffiche di kalashnikov e dai colpi di mortaio a cui, di lì a pochi mesi, si imporrà di partorire la pace. Verrà a raggiungerlo, nella notte, almeno una delle donne che lo hanno accompagnato nei mesi beirutini? Verrà la giovane Ghazaleh, dalla sessualità dirompente? Verrà Muna, la borghese che non vuol sentire parole d'amore banali? Verrà Hind, la fidanzata di gioventù ora moglie di suo fratello? Quel che è certo è che verranno i ricordi. Verranno gli anni dorati dell'infanzia, verrà la sicurezza di un rapporto osmotico con il fratello quasi gemello, verrà l'afflato sessantottino della giovinezza, verrà il cameratismo della militanza. E verranno la paura, la fuga, il ritorno in un paese che non è più il suo paese, verrà la disillusione di chi, non solo in Libano, ha creduto nella giustizia sociale. Tornerà davvero a Montpellier, Karim Shammas?

http://www.internazionale.it
26 marzo 2014

Specchi rotti
di Elias Khoury

Beirut, gennaio 1990: un quarantenne ricorda il Libano con nostalgia e disillusione. L’incipit del nuovo libro di Elias Khoury.

Karim Shammas si è chinato per prendere la valigia dal bagagliaio della Mercedes nera che lo ha portato all’aeroporto di Beirut, prima tappa del suo viaggio di ritorno a Montpellier.

Erano le cinque e mezzo del mattino, nell’alba di Beirut chiazze di buio e di polvere.

Il giorno prima era piovuto. L’inverno beirutino aveva fatto la sua apparizione frammischiando il brontolio dei tuoni alle intermittenti detonazioni che percorrevano la città a casaccio.

In quella che è stata la sua ultima serata beirutina, non gli è riuscito di chiudere occhio. In salotto, seduto sul divano, cullato dai tuoni e dalla pioggia, ha trangugiato un’enormità di whisky aspettando, tra uno sbadiglio e l’altro, che spuntasse l’alba.

Il suo quarantesimo compleanno, Karim lo ha festeggiato in solitudine. Con Ghazaleh sparita all’interno della sua storia e Muna partita per cercarsi un futuro in Canada, è rimasto solo nel suo appartamento di Beirut. Due giorni prima, gli ha telefonato Bernadette insistendo perché tornasse a casa il 4 gennaio, in tempo per festeggiare in famiglia il quinto decennio di vita che lo attendeva. Lui ha risposto di aver trovato posto in aereo solo per la mattina del 5 e la donna francese che aveva sposato si è schiarita la gola e, prima di chiudere la comunicazione, ha finto di credergli.

Seduto lì, da solo, Karim ha deciso di ricomporre la sua storia. Un bicchiere di whisky, una ciotolina di mandorle tostate e salate posata davanti a sé, il buio ad avvolgerlo. Non c’era corrente. Sulle pareti, tremolando, la luce della candela faceva di ogni oggetto un fantasma ballerino. Lo stomaco in fiamme, Karim ha continuato a bere whisky senza ghiaccio.

La sua vita gli si è dispiegata davanti come uno specchio in pezzi. Nel corso degli anni aveva mentito molto, certo, e molto gli avevano mentito, ma tornare a Beirut e accettare di associarsi al fratello nel progetto di costruire l’ospedale, ecco, è stato quello l’errore che ha mandato gambe all’aria l’intera storia, tanto che adesso gli era difficile rimetterne insieme i frammenti, difficile rimpolpare un’esistenza in frantumi.

Bevendo whisky, ha aspettato. Era sicuro che avrebbe chiamato e invece il telefono è rimasto muto. Lei non ha chiamato. A ben pensarci, non era sicuro di sapere a chi si riferiva con quel “lei”. Vuoi che dopo tutto quel che è successo continuasse ad aspettare Ghazaleh? Oppure aspettava Muna? Muna che, gli occhi socchiusi, gli sonnecchiava al fianco raccontandogli la sua storia d’amore con l’italiano? Aveva Hind davanti a sé, Hind con il pudore nascosto negli occhi grigi, nell’espressione triste del suo visetto scuro, Hind che veniva a ricordargli un amore soffocato dalla paura e poi diventato un segreto di famiglia, qualcosa di cui non si può parlare.

Era avvolto nei rumori di una città che pareva sul punto di scivolare in un baratro buio e senza fondo. È così che Karim si rappresentava le parole di suo fratello: la città sul ciglio di un burrone e ogni cosa sul punto di precipitarci dentro. Nassim ha detto che la nave ha preso fuoco in mare, che tutto il suo patrimonio era andato in fumo in un’unica soluzione. E che l’ospedale sarebbe rimasto solo un progetto perché a quel punto era costretto a vendere il terreno e, per saldare almeno parte dei debiti, anche la casa. Ma Karim non ha dovuto aspettare di sentirsi dire che la nave carica di benzina era bruciata per rendersi conto che il progetto era saltato e che doveva tornarsene in Francia con il suo senso di frustrazione e fallimento. A spiegargli che a Beirut tutto è fragile e niente è duraturo ci aveva già pensato Ghazaleh. E che il progetto di suo fratello era solo un’illusione lo ha capito da sé quando gli hanno raccontato com’era morto suo padre, Nasri.

Ha aspettato senza sapere chi stava aspettando, perché quando l’amore si trasforma in attesa dell’amore non siamo più in grado di capire cosa sentiamo veramente. Che senso dare alla storia in cui si è ritrovato invischiato? No, non si è trattato di quel che comunemente chiamiamo adulterio. Mai, proprio mai, negli anni, Karim aveva pensato che stava tradendo sua moglie. Sì, certo, aveva avuto delle fugaci relazioni con qualche infermiera e qualche paziente, sia francesi sia marocchine, ma mai aveva avuto la sensazione di commettere adulterio. Forse perché non aveva mai amato la sua nivea compagna, oppure perché l’ha amata davvero, chissà, non gli era chiaro. E invece, qui a Beirut, è stata tutta una coltellata, tutto un tradimento. Ghazaleh l’ha tradito con il suo giovane amante, un miliziano dal nome strampalato. Muna l’ha tradito con il marito, l’architetto deciso a emigrare in Canada. E Hind con i ricordi.

Seduto nel buio, Karim stava ricomponendo la propria storia quando, d’improvviso, è squillato il telefono. Afferrata la cornetta, ha sentito arrivargli da lontano, da un posto profondamente lontano, la voce di sua moglie. Arrivargli per scuoterlo dalle sue improbabili attese. Ha urlato “Hallo! Hallo!” ma la linea è subito caduta.

Gli è venuta fame. Facendosi luce con l’accendino è arrivato davanti al frigorifero. Ma così come lo ha aperto lo ha immediatamente richiuso perché ne usciva un puzzo di mele marce. Con la corrente elettrica che arriva solo per tre ore al giorno, non c’è niente che non marcisca, in questa città.

Nei molti anni vissuti in Francia aveva sempre vagheggiato le mele libanesi. Il profumo delle mele frammisto all’aroma del caffè lo ubriacava di infanzia.

Cosa sia il profumo dell’infanzia, Karim l’aveva capito solo vivendo all’estero. Rivedeva suo padre, suo padre Nasri, il farmacista, nell’atto di mostrare il palmo di una mano, versarci sopra un cucchiaio di polvere di caffè, aggiungere mezzo cucchiaio di zucchero, mischiare i due ingredienti e poi, in punta di lingua, leccare il bizzarro composto. Davanti al “caffè in palmo”, così lo chiamava, chiudeva gli occhi, estatico. Poi prendeva dal frigo due mele rosse e le porgeva ai suoi due figli mormorando il verso di una poesia in cui Abu Nuwas, grande poeta di epoca abbaside, osanna il profumo delle mele libanesi, comparabili, a suo dire, solamente al buon vino:

Di nettare la botte tagliata d’acqua chiaraprofuma dell’effluvio di libanesi mele.

Il profumo delle mele sposava l’aroma del caffè nel palmo del farmacista che pretendeva dai suoi figli che mangiassero una mela alle cinque di ogni pomeriggio perché “le mele del Libano fanno meglio di qualsiasi medicina”. E ogni pomeriggio alle cinque i due ragazzini sgranocchiavano mele intrise del profumo di caffè mentre il padre, finendo di leccarsi le labbra, comunicava che era arrivato il momento di trasferirsi al bar.

Laggiù, nella sua lontana città francese, la scomparsa di quell’odore aveva fatto soffrire Karim. Ne aveva parlato con Bernadette, dell’odore di mela e caffè, ma non era riuscito a descriverglielo. Come si fa a descrivere un odore a chi non l’ha mai sentito, a chi non ne ha mai goduto? Karim si era reso conto che gli mancavano le parole quando non era riuscito a trovare quelle che potessero tradurre i suoi ricordi e la nostalgia che lo divorava. E solo in seguito aveva realizzato che fare l’amore altro non è che tradurre, che mettere in pratica la parola. E che quando non ci sono più parole anche l’amore è finito.

Gli innamorati sono dei traduttori, trasferiscono parole. Dal linguaggio verbale alla lingua del corpo, traducono e riformulano le cose che si dicono. Ecco, la sua storia con Ghazaleh è stata esattamente questo. Quando le stilettate della tentazione gli si sono conficcate nella schiena, la sua lingua si è messa in movimento. Ha cominciato a parlare e le ha raccontato la storia dei suoi anni in Francia, di come buttava giù alcol neanche fosse acqua. Le ha raccontato delle infinite varietà di formaggio e quando lei gli ha detto che le piaceva molto la “carne bianca” – era così che chiamavano il formaggio nel suo paesino – le ha risposto che per lui quella scura è decisamente migliore. E Ghazaleh, prima di correre in cucina, lo ha baciato sulla bocca.

Ha preso una mela dal frigo. Puzzava di marcio, gli è venuta la nausea e l’ha buttata nell’immondizia. È rimasto lì, piantato al centro della cucina, senza sapere cosa fare. Tutt’intorno alla debole fiammella dell’accendino che gli stava scottando le dita, un palpitare di buio. Aveva fame.

È tornato in salotto, buttando giù un sorso di whisky ha deciso di smetterla di aspettare.

Non stava aspettando che chiamasse Ghazaleh, l’infatuazione che lo ha abitato si è dissolta quando suo marito gli ha messo paura. Aspettava Muna, invece, pur sapendo che non avrebbe telefonato. A Ghazaleh, Karim non ha mai parlato d’amore. Mentre si contorceva di piacere tra le sue braccia ha pensato, convinto, che fosse una storia di sesso. Dell’amore che sbroglia la lingua si è accorto solo alla fine, quando, passata la paura, si è reso conto di essere stato tradito.

Quanto a Muna, è entrata nella sua vita così, di punto in bianco, senza preavviso.

Ha conosciuto lei e il marito, l’architetto Ahmad Deghiz, a casa di suo fratello Nassim. È stato in quell’occasione che, per la prima volta, ha visto le planimetrie dell’ospedale, sentito parlare del progetto di ricostruzione di Beirut e ascoltato il bizzarro racconto delle origine franche della famiglia tripolina. A Muna, più tardi, avrebbe confessato che lo aveva stregato e lei, scoppiando in una risata cristallina, avrebbe replicato che non voleva sentirsi rivolgere parole d’amore, che le trovava tutte banali e molto noiose.

Eppure, con lei, Karim non ha mai smesso di parlare d’amore, anche se, dentro di sé, sapeva di essere innamorato di Ghazaleh. Èstato come se con Muna sanasse le ferite del suo amore per Ghazaleh e col baccano che faceva Ghazaleh si sanasse dai silenzi di Hind.

Karim non avrebbe saputo dire come, tra la polvere di Beirut, sia potuto nascere un triangolo amoroso, e nemmeno come abbia fatto il suo cuore a reggere quel vortice emotivo nel bel mezzo del rinnovato turbinio della guerra civile. Eppure era lì, da solo, con un bicchiere di whisky come unica compagnia, ad aspettare una telefonata che non sarebbe arrivata.

Perché è tornato a Beirut?

Elias Khoury è nato a Beirut nel 1948. Autore di numerosi romanzi, pièce teatrali e volumi di saggi, e direttore dell’inserto letterario del quotidiano di Beirut An Nahar. Nel 1988 ha vinto il Palestine Prize per La porta del sole.